Il genio che sfidò il mainstream
Massimiliano GobboChi era davvero Philip K. Dick? Un profeta visionario? Uno scrittore votato al fantastico? Un rivoluzionario della narrativa d’anticipazione? Nessuna risposta definitiva. Forse è una delle ragioni del grande successo della sua letteratura, frutto, a un tempo, di genialità e follia. Nato in una famiglia lacerata da forti contrasti e segnata dalla morte, a poche settimane dalla nascita, della gemella Jane, fin dall’adolescenza Philip dimostrò quella vena artistica e quella vivacità intellettuale che in seguito gli avrebbero permesso di scrivere alcune delle storie più originali e interessanti della fantascienza moderna. Entrato in contatto da giovanissimo con la science fiction, esordì nel 1952 come autore, sulle pagine di «Planet Stories». Genio precoce, ebbe un’infanzia problematica, contraddistinta dai primi disturbi psichici e da un rapporto difficile con sua madre. Iscrittosi alla Berkeley University, non terminò mai gli studi, preferendo lavorare in un negozio di dischi, per poi dedicarsi anima e corpo alla scrittura professionale. Il suo approccio alla narrativa fu esistenziale, nel senso più proprio del termine. Solitario per natura, trascorse gran parte della sua vita senza mai lasciare la California. Viaggiò pochissimo, optando per la solitudine e una rassicurante routine casalinga. In tal senso, rammenta un altro grande scrittore dalla vita tormentata e dal destino infausto, il nostro Emilio Salgari, che scrisse un gran numero di storie avventurose ambientate in terre remote e affascinanti senza mai spostarsi di casa. E, proprio come lo scrittore veronese, Dick si dedicò alla narrativa con un trasporto e un’energia che hanno dell’incredibile e sembrano travalicare i limiti dell’umana resistenza. È noto, infatti, come si sottoponesse a ritmi di lavoro massacranti, concedendosi pochissime pause e sostenendosi grazie a robuste dosi di anfetamina, come altri artisti e scrittori coevi – in testa, i poeti della beat generation. Tuttavia, il frutto dei suoi sforzi è di altissimo livello: la sua monumentale opera ha enormemente influenzato intere schiere di epigoni.
È fuor di dubbio come i suoi romanzi migliori abbiano tracciato una traiettoria iperbolica, cambiando radicalmente le prospettive della fantascienza moderna. Di più, il suo genio visionario ha segnato uno spartiacque, quasi uno iato fra ciò che di SF è stato scritto prima e dopo di lui. Novello prometeo del fantastico, Dick ha osato arrivare dove altri non hanno neppure immaginato, spostando le frontiere del conosciuto e del conoscibile. Nei suoi numerosi romanzi ha affrontato, con piglio visionario, una molteplicità di tematiche: dalle angoscianti atmosfere da Guerra Fredda delle Cronache del dopo bomba (Dr. Bloodmoney, or How We Got Along After the Bomb, 1965), cupo affresco d’un futuro post-apocalittico, agli incubi in chiave ucronica de La svastica sul sole (The Man in the High Castle, 1962). E poi, ancora, la creazione di realtà e mondi artificiali indotta dall’uso di sostanze psicotrope, come il famigerato Can-D assunto dai futuri abitanti di Marte in Le tre stimmate di Palmer Eldritch (The Three Stigmata of Palmer Eldritch, 1965). Ma può anche capitare che i malati di mente vengano esiliati su una luna desolata, dove impongono la propria supremazia organizzandosi in vari clan, ognuno dei quali prende il nome da un diverso disturbo psichico, come nel romanzo Follia per sette Clan (Clans of the Alphane Moon, 1964). La fantasia sbrigliata di Dick non conosce ostacoli, ed ecco che il mondo si popola di androidi indistinguibili dagli umani, cosicché diviene necessario eliminarli. È quanto accade in un altro suo capolavoro, Il cacciatore di androidi (Do Androids Dream of Electric Sheep?, 1968), da cui proviene la fortunata trasposizione cinematografica di Ridley Scott, il celeberrimo Blade Runner (1982).
Parecchi dei suoi lavori sembrano peraltro, retrospettivamente, in grande anticipo sui tempi. Eppure, ciò non basta a tratteggiarne in modo adeguato la fisionomia autoriale. Di certo la sua statura intellettuale lo colloca un gradino più in alto rispetto ad altri narratori di fantascienza, genere, come già accennato, da lui elevato a “letteratura alta”. Ma non solo: la grande attenzione riservata ai disturbi mentali e alle tossicodipendenze, come pure al tema dell’alienazione a sfondo complottistico, lo situano oltre i tradizionali steccati della letteratura di genere. Basti pensare ai numerosi punti di contatto con altri celebri autori del “secolo breve” come William Burroughs, Anthony Burgess e Don DeLillo. A ciò si potrebbero aggiungere le influenze dirette e indirette presenti nella sua produzione, provenienti da altre forme d’arte o media.
Insomma, non occorre essere critici particolarmente attenti per notare le affinità fra le atmosfere allucinate di alcuni suoi scritti e quelle dell’espressionismo astratto americano. Allo stesso modo la realtà virtuale, che al tempo di Dick stava movendo i primi passi, sembra appena uscita da uno dei suoi originalissimi romanzi. Ed è proprio pensando alla sua genialità come narratore e alla sua grande capacità di produrre opere di cristallina consapevolezza artistica che, in occasione del quarantesimo anniversario della sua scomparsa, «Antarès» ha deciso di omaggiarlo commissionando a quattro scrittori di fantascienza altrettanti racconti ispirati alla sua opera e al suo genio.
Pelle di Gianfranco Marino affronta, con grande efficacia, uno dei temi che stavano più a cuore allo scrittore californiano, vale a dire la cibernetica. Con un chiaro omaggio a Blade Runner, Marino mette in scena una vicenda ambientata in un futuro remoto, in cui l’umanità ha seguito un percorso evolutivo tanto imprevisto quanto indesiderabile. Un finale sconvolgente e inatteso per un racconto in puro stile dickiano. Con Effetto Mandela, Roland Baschenis ci regala invece un racconto profondo e ben scritto, basato su un misterioso meccanismo psicologico capace di alterare la natura e la sostanza dei ricordi. Una storia degna delle più sperticate fantasie e ossessioni di Dick. Nel segno della qualità più elevata è Per sempre, il racconto firmato da Donato Altomare, autore che non abbisogna di particolari presentazioni, e che vanta nel suo nutrito palmares ben due Premi Urania. Storia struggente e dalla struttura originalissima, Per sempre mescola abilmente elementi biografici alla pura invenzione. La caduta di Taverner di Raffaele Cars, infine, narra la storia d’un attore fallito in fuga da una realtà insopportabile tramite una droga allucinogena denominata Mexal, che tanto ricorda la famigerata Can-D de Le tre stimmate di Palmer Eldritch. Tra percezioni alterate e allucinazioni a sfondo superomistico, La caduta di Taverner non mancherà di sorprendere con il suo ritmo martellante e lo stile frammentato. Quattro approcci narrativi all’universo dickiano, quattro omaggi al grande genio che sfidò il mainstream.