Ogni autore ha la sua opera maledetta, il suo figlio rinnegato, il suo film da occultare con una damnatio memoriae senza la quale la ferita torna a far male, livida e pulsante. Sotto la superficie di successi e lustr(in)i che ammanta l’arte di Nicolas Winding Refn alberga e batte colpi Fear X (2003), volo d’Icaro spiccato quando l’apertura alare non era ancora sufficientemente ampia, salto nel buio compiuto a occhi chiusi, concedendosi senza riserve a un sogno diventato incubo.
Nuovo millennio, Copenaghen. Pusher. L’inizio (1996) e Bleeder (1999) sono ormai sulla bocca di tutti. Per qualcuno Refn è il Tarantino di Danimarca, per altri lo Scorsese delle nuove banlieues nordiche, per tutti una certezza al botteghino patrio e una promessa da consegnare al mondo, perché il mondo la traduca in realtà. Nicolas sbarca in America (in Canada, per la precisione), felice come un bambino al sol pensiero di collaborare alla sceneggiatura con Hubert Selby, tra i suoi (molti) miti personali in quanto autore di Ultima fermata a Brooklyn, trasposto su pellicola da Uli Edel nel 1989. Primo film in lingua inglese, primo vero banco di prova con l’industria, l’adrenalina sale. Poi, improvvisamente, il precipizio. Dopo quasi 7 milioni di dollari investiti, tre anni di gestazione e sei settimane di riprese, Fear X transita pressoché inosservato nelle sale, provocando un crack finanziario che mette il regista in ginocchio: il debito di 5 milioni e mezzo di corone danesi comporta la bancarotta e il fallimento della sua casa di produzione. Il colpo è tremendo, come testimonierà Phie Ambo nel suo puntiglioso documentario Gambler (2006). Refn ha giocato, ha perso e – se vuole tornare al tavolo – è costretto a riporre i sogni nel cassetto e sottomettersi alle regole dei creditori, realizzando Pusher II. Sangue sulle mie mani (2004) per il pareggio di bilancio e Pusher 3. L’angelo della morte (2005) per ritornare a veder le stelle.
Al di là di ogni considerazione distruttiva su base pragmatica, però, Fear X è un film solido, marmoreo, sorretto da una potenza implosiva scardinante. Contravvenendo a ogni bulimia underground alla radice dei suoi adrenalinici e rutilanti esordi in macchina a mano, Refn compone una partitura visiva minimalista, alimentata da una forza centripeta – la forza dell’ambizione, dell’esuberanza autoriale – che vibra e spinge, ovattata, sotto la coltre di neve del (presunto) Wisconsin e nel background di ogni sguardo colto dai close-up sullo zelante, scrupoloso e alienato protagonista, Harry Caine in atto e hurricane in potenza. Estensione delle ossessioni e del metodico isolazionismo consapevole del personaggio, l’astrattismo geometrico della messa in quadro si estrinseca tra silenzi roboanti e stranianti movimenti di macchina rallentati che – a colpi di zoom, panoramiche e steadycam – offrono un punto di vista demiurgico simile a quello delle videocamere di sorveglianza tanto care a Caine. Benvenuti nell’Harry’s nightmare, dunque, dove la prospettiva di sguardo del traumatizzato guardiano sui nastri – perturbanti, in quanto rivelatori delle inaspettate devianze del quotidiano (l’omicidio al grande magazzino, qui, si manifesta) – è anche la prospettiva di sguardo attraverso la quale lo spettatore è chiamato a entrare, per partecipare all’Unheimlich che si impossessa del percorso individuale del personaggio.
È nell’esattezza matematica che si nasconde il caos. Così, le composizioni simmetriche delle inquadrature di Fear X – se c’è una lampada sulla sinistra ce ne sarà un’altra, speculare, sulla destra, come se un’invisibile split-screen riflettesse la schizofrenia connaturata a ogni immagine – ospitano un disagio alimentato in escalation progressiva dal sound design di Brian Eno (altro membro illustre della “Refn’s Hall of Fame”), che stacca la spina della verosimiglianza mediante autistiche sonorità “a interferenze”. C’è sempre qualcosa che non va, che non torna, nel comportamento di Harry e nelle sue relazioni con il mondo, interiore o esterno che sia. Qualcosa che si nasconde tra i fotogrammi dei vhs, tra i negativi di una fotocamera imboscati nella casa dei vicini (altro Unheimlich, altra impercettibile scossa), tra gli sguardi posati sulle persone che abitano i non-luoghi di tutti i giorni.
Sospinto dalla forza dello spaesamento e ormai prossimo a deflagrazione, l’artefatto drammaturgico di Refn approda all’Hotel McLaren, regno deputato all’abolizione di ogni ascisse e ordinata razionale, INLAND EMPIRE dalla palette cromatica innaturale, con colori primi a dominanti rosse che evocano Mario Bava e Dario Argento, ma anche e soprattutto esoterismi e logge varie di I segreti di Twin Peaks di David Lynch e Mark Frost (1990-1991). La mente di Caine resiste, ma il percorso che affronta è sdrucciolevole. Lo slittamento è inevitabile e comporta ripetute cadute dal crinale della razionalità alle paludi di incubi al neon (neon demons ante litteram), che prefigurano svolte poetiche di una carriera ancora acerba. Refn, a questo punto, tenta di sconnettere il suo protagonista – adottando il punto di vista dell’assassino Peter – ma è troppo tardi per entrambi: il primo piano sulle mani strette a pugno di Caine, sul sangue sulle sue mani, anticipa Solo Dio perdona (2013) e introduce alla catarsi, consumata in un segmento di videoarte (il neon demon rosso carminio si impossessa finalmente e interamente del quadro) e subito ricondotta a una dimensione tacita.
Caine è ora sul letto, sfinito da un viaggio che lo ha portato a incontrare, tra gli altri, David Lynch (dalle comunità di Velluto blu [1986] ai trip di Strade perdute [1997]), Francis Ford Coppola (le ossessioni di La conversazione [1974]), Wes Craven (il cliente dei grandi magazzini si chiama Bill Craven) e Stanley Kubrick (l’incipit di Il bacio dell’assassino [1955], corridoi e ascensori dell’Overlook Hotel di Shining [1980]). Un viaggio i cui titoli di coda si alternano negli interstizi neri che si spalancano tra finestre multiple, all’interno delle quali scorrono – ancora, senza sosta – le immagini delle videocamere di sorveglianza. Lo spettatore attende, di nuovo, l’irruzione del perturbante. Ma Harry Caine non è più lì, a guardare con (e per) lui. Dunque, il perturbante non irrompe e si può tornare a Copenaghen, per lenire le ferite e ricominciare.
Refn ricomincia, allora, mettendo in scena proprio un figlio rinnegato, quel Tonny recuperato dalla pozza di sangue in cui era sprofondato in Pusher, ma condannato al disconoscimento paterno. Quel Tonny che chiude il cerchio, sprofondandovi dentro assieme a Fear X e a tutti i tumulti interiori di entrambi.
CAST & CREDITS
Regia: Nicolas Winding Refn; sceneggiatura: Nicolas Winding Refn, Hubert Selby Jr.; fotografia: Larry Smith; scenografia: Peter De Neergaard; costumi: Darena Snowe; montaggio: Anne Østerud; musiche: Brian Eno, Dean Landon, J. Peter Schwalm; interpreti: John Turturro (Harry), Deborah Kara Unger (Kate), Stephen McIntyre (Phil), William Allen Young (agente Lawrence), Eugene M. Davis (Ed), Jacqueline Ramel (Claire), James Remar (Peter); produzione: American Entertainment Investors, Det Danske Filminstitut, Fear X Ltd., Moviehouse Entertainment, NWR Film Productions, Nordisk Film, TV2 Danmark; origine: Danimarca, Regno Unito, 2003; durata: 91’; home video: dvd Rai Cinema.