Con la rabbia agli occhi. Itinerari psicologici nel cinema criminale italiano
Fabrizio FogliatoQuali sono le idee o le tesi principali che sostieni nel libro?
Prendendo in considerazione oltre 200 film e 85 opere letterarie, e accumulando trame, battute di sceneggiatura, stralci di romanzi o verbali della polizia, resoconti psicanalitici, dichiarazioni di giudici e commissari (veri e finzionali) ho assemblato un tomo definitivo e caleidoscopico sulla Storia del nostro Paese, così come si è originato da una “scena primaria” felice e insidiosa: il boom del benessere ha creato mostri che ancora imperversano. Il cinema criminale consente libero accesso al subconscio della realtà, dà visibilità alla Storia mediata dal filtro della rappresentazione e rilegge modelli storici e comportamentali. Utilizzando per la prima volta il punto di vista ufficiale della Polizia Italiana sul cinema criminale (con la ricerca ermeneutica sulla rivista ufficiale Polizia moderna) il saggio offre l’angolazione della verità del reale (non a caso l’articolo – riportato nel libro – che PM dedica al “poliziottesco” si intitola TESI INACCETTABILI). La suggestione dell’immagine filmica fa emergere, nel poliziesco italiano, una contraddizione di fondo: voler restituire il senso dell’ordine attraverso il disordine. Non solo; dalle pagine di Polizia moderna emerge quanto fuorviante, pervasiva e pericolosa sia l’immagine del commissario che doma le città violente: viola sistematicamente la legge che dovrebbe far rispettare, si mette contro i superiori “da scrivania”, si immola accettando punizioni e trasferimenti perché la sua unica ragione di vita (e di essere) è scendere in strada e urlare in faccia al cittadino-spettatore (che di ciò si autocompiace): «Io sono la legge».
Come hai deciso il titolo del saggio?
La risposta è semplice: ho scritto il libro che avrei sempre voluto leggere sull’argomento. Ovvero la rabbia e l’odio che tracimano dal cinema criminale (giallo, poliziesco, nero…) non sono il frutto del caso o di una spregiudicata messa in scena ad effetto: certo c’è anche questo, ma oltre c’è la cartina di tornasole di un paese che vive la frustrazione di essere perennemente “mancato” e ad un “ultimo atto” su cui il sipario non cala mai. “Con la rabbia agli occhi” mette in scena una serie di itinerari – come da sottotitolo: “itinerari psicologici nel cinema criminale italiano” – che analizzano le vicende politiche e storiche dell’Italia e la psicologia di massa della società italiana dal dopoguerra al 1980 – con addentellati che si spingono fino agli anni ’90 del novecento afferenti al ciclo storico considerato. L’opera, coglie attraverso gli occhi dei registi, i caratteri distintivi dell’epoca nelle sue molteplici sfaccettature: cronaca, politica, rabbia sociale, corruzione e disillusione, in un fil rouge appassionante e crudo al tempo stesso. La rabbia generata dalla frustrazione del vivere quotidiano è la chiave più più efficace – sia dal punto di vista del contenuto che dello stile e della lingua – per affrontare l’argomento come ricerca di studio e con un approccio “popolare” (raggiungere un pubblico più ampio possibile); fare analisi e sintesi a livello multidisciplinare per trovare temi, argomenti, suggestioni, azzardi capaci tanto di coinvolgere il lettore quanto di sorprenderlo. La cosa più importante da evitare – quella che non avrai mai sopportato – essere didascalico, autoreferenziale e saccente. Il “poliziottesco”, termine spregiativo a cui preferisco il “poliziesco italiano”, ha rappresentato una stagione irripetibile in quanto i suoi film sono stati sia veicolo che agente di Storia. Le sue “tesi inaccettabili” hanno rappresentato la valvola di sfogo della rabbia e l’esorcismo della paura che si annidavano nella platea della società italiana.
C’è un capitolo o una sezione che ti sta particolarmente a cuore?
Certamente, tre degli itinerari individuati.
L’inedita analisi esegetica del trattamento di Carlo Emilio Gadda Non vi sono indicazioni precise sulla data di scrittura di Il palazzo degli ori, il trattamento cinematografico che Carlo Emilio Gadda costruisce attorno a Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Certo è che nelle 30 scene di cui è costituito, l’ingegnere milanese si adatta a uno stile ben più corrivo del romanzo eponimo. La carente competenza tecnica la si rileva dall’utilizzo ripetitivo dei flashback, da ridondanti quanto inutili spiegazioni degli eventi, dalla mancanza di ellissi, dalle approssimative indicazioni alla “regia”, da un pedante ricorso all’iterazione dei “lampi” e dall’indicazione di utilizzo improprio di alcuni movimenti di macchina. Limiti tecnici che non impediscono all’autore di concentrare maggiormente i suoi interessi sul versante psicologico dei criminali e delle motivazioni “di classe” del loro agire, nonché di offrire al commissario Francesco Ingravallo il compito deontologico di ricostruzione degli eventi in modo canonico, allineato al ruolo. Il trattamento appare influenzato da echi neorealisti: la visione di parte nel descrivere il mondo dei sottoproletari, il repulsivo distacco nell’indagare il mondo borghese. L’ironia del romanzo lascia il posto alla “commedia all’italiana” con la sua risata a denti stretti tra sarcasmo e critica sociale.
Il dittico di capitoli La strategia del ragno e L’opera al nero che analizzano il cinema dell’eversione nera e personaggi incredibili coinvolti nel cinema d’autore. Difficile definire, incasellare la figura di Aldo Semerari: criminologo, il più importante che l’Italia abbia mai avuto. Un uomo interessato al Male e al tentativo di spiegarlo, che ne indaga origini e natura, ponendosi dalla parte di chi lo perpetra e dell’oggetto che ne definisce l’evidenza fenomenologica: la violenza. Essa è un acceleratore, uno strumento che accorcia la distanza tra bisogni e obiettivi, volontà e fini. Lo dimostrano ampiamente tanto la cronologia storica quanto la rappresentazione filmica. La polizia ringrazia (1972) di Stefano Vanzina non è un poliziesco ma un film di impegno civile che usa la tecnica del genere per ragionare sul limite che divide la prescrizione dalla sua infrazione: istantanea di una diffusa paranoia sociale. Vogliamo i colonnelli (1973) di Mario Monicelli centrifuga i “golpe” del 1964 e del 1970. Complementare a Vogliamo i colonnelli è La polizia accusa: il Servizio Segreto uccide (1975) di Sergio Martino, un unicum, sia nel registrare l’eversione nera in “presa diretta”, sia nel veicolare – con la tecnica del genere – in via congetturale rivelazioni più che verosimili. Il commissario Solmi e il capitano Sperlì (Tomas Milian) muoiono entrambi ammazzati perché sanno troppo, e il primo viene ucciso con le stesse modalità di Luigi Calabresi il 17 maggio 1972: mentre sta aprendo la portiera dell’auto gli sparano alle spalle. Il 28 maggio 1974 esplode una bomba durante una manifestazione antifascista in piazza della Loggia a Brescia (nove morti e 88 feriti). Il poliziesco italiano, con la sua proverbiale capacità di cogliere l’attimo, ambienta proprio a Brescia il film La polizia sta a guardare (1973) di Roberto Infascelli. Sullo sfondo la provincia italiana opulenta e spersonalizzata. Mentre la città “dorme”, l’eversione nera fa proseliti e rimpingua le proprie casse con i riscatti milionari di rapine e sequestri di persona. Con Morte sospetta di una minorenne (1975), Sergio Martino porta a compimento tutti i discorsi iniziati nelle pellicole precedenti progettando un’architettura cinematografica sovradimensionata e complessa, volta a scrivere ‒ seguendo la lezione dello Sciascia di Il contesto ‒ un’ulteriore pagina realmente introversa e allarmante sul dilagare torrenziale di azioni eversive sempre più contaminate e mimetizzate con dinamiche di criminalità organizzata.
Il capitolo filosofico dedicato al verosimile filmico di Galvano Della Volpe. Ritengo che lo “spirito” dei generi risieda nella scrittura dei film mediante la quale gli sceneggiatori sublimano la cronaca. Rispetto alle altre Arti, nel cinema la verosimiglianza è intesa come fondamento dell’immagine filmica, la quale adotta la polivalenza semantica come strumento asincrono e diacronico per intervenire direttamente nel rapporto con lo spettatore. Questi è portato a rilevare/credere alla veridicità univoca: la suggestione dell’immagine filmica che produce l’attivazione dello spettatore che si sente partecipe del racconto e dialoga con esso; lo interroga, ritrova i messaggi che gli appartengono/interessano, talvolta lo integra. La violenza che il delinquente mette in atto – reiterata, eccessiva, parossistica – oltre ad essere agita in funzione di dilatazione dei tempi filmici è focalizzata sul dettaglio disturbante perché, questo, è, a sua volta, totalizzante nel contenere una violenza che colpisce a caso, all’improvviso, a tradimento – anche attraverso proiettili vaganti o di rimbalzo che mietono vittime tra ignari cittadini. E’ una violenza che ha un compito ben preciso: consentire l’ingresso – in una società che sta incancrenendo i rapporti interpersonali facendo venir meno il rispetto delle regole tra amici, parenti, familiari ed eliminando, programmaticamente, la fiducia nel prossimo – all’elemento risolutore e palingenetico: il commissario di Polizia.
>Hai adottato un particolare metodo per analizzare le fonti?
Sì, quello della reciprocità tra dimensione esogena e d endogena. Mi spiego meglio con un esempio. Il mezzo di cui si serve il “poliziesco italiano” (più in generale il cinema criminale) è la città, rappresentata come una voragine che inghiotte la monotonia del quotidiano e perpetua una ritualità insostenibile. La metropoli si manifesta tanto nell’apparente trasparenza del giorno (è nell’anonimato della quotidianità che il crimine agisce, attraverso la mimesi sociale), quanto nella sinistra dimensione notturna dell’eccesso. È una giungla di istinti incontrollati osservati da dietro i vetri delle finestre, chiusi negli abitacoli delle automobili, al cospetto di violenza, crudeltà, stupri e omicidi. La città penetra nel salotto borghese e ne profana l’intimità; fa emergere il luttuoso masochismo dell’individuo che vive la propria condizione come una colpa esplicitando, inaspettatamente, il complesso di inferiorità che lo attanaglia.
La dimensione domestica è il luogo in cui si produce la società in divenire. Nell’anonimato di oscuri appartamenti e stanze ammobiliate proliferano l’illecito, la promiscuità, la violenza. Il principio educativo e pedagogico è il campo su cui si gioca la partita più segreta e decisiva. Nella famiglia il conflitto cova sotto la cenere; le fiamme divampano all’improvviso e bruciano di repressione, autoritarismo, rancore e rabbia. Come spiega bene Paolo Perticari il vero paradigma biopolitico segreto della modernità è la pedagogia nera. Città e casa sono diventate indiscernibili e la possibilità di distinguere tra il corpo biologico e il corpo politico rende tutto ancor più indecifrabile. E’ questo l’universo, dove i rapporti e le relazioni tra individui sono regolate non da ciò che si dice, e si scrive, ma da quel che si fa senza dire niente; non dalle parole ma dai fatti in relazione a rigidi rapporti di forza. Non si esce mai da questo ordine naturale delle cose – anche quando una patina di civilizzazione borghese maschera la più brutale natura che nasconde, nel privato, impulsi e perversioni. Giorgio Scerbanenco è lo scrittore che più di ogni altro ha utilizzato il paradigma sociologico-pedagogico per spiegare la violenza. La sua scrittura scorre su un doppio binario: la dimensione amorale della realtà e la violenza esercitata da ipotetici innocenti, i quali, mutano i loro gesti indirizzati da qualcosa di indecifrabile e familiare, da un contesto sociale in cui esistono individui totalmente privi di scrupoli.
Hai ricevuti feedback o critiche che ti hanno sorpreso?
Sì, a partire dalla quantità di richieste di recensione e poi dalla qualità come si può evincere consultando la rassegna stampa integrale sulla landing page del libro.
“CON LA RABBIA AGLI OCCHI. ITINERARI PSICOLOGICI NEL CINEMA CRIMINALE ITALIANO” di Fabrizio Fogliato
LIBRO FINALISTA PREMIO NABOKOV 2023
«Tutto è emanazione del potere e del modo di gestirlo: anche se coloro che sono al potere nulla ne sanno, e si può anche ammettere ne siano, individualmente, quanto noi sgomenti. Ciò vale a dire che c’è in Italia un superpotere cui giova, a mantenere una determinata gestione del potere, l’ipertensione civile, alimentata da fatti delittuosi la cui caratteristica, che si prenda o no l’esecutore diretto, è quella dell’indefinibilità tra estrema destra e estrema sinistra, tra una matrice di violenza e l’altra, tra una e l’altra estrazione degli esecutori materiali» Leonardo Sciascia
Il cinema criminale è un incrocio di letteratura (Gadda, Pasolini, Albinati), storia (Piazza Fontana, i “golpi bianchi”, la P2), cronaca nera (“la Banda della Magliana”, il massacro del Circeo). Matura e prende forma nel conflitto tra cittadini e delinquenti che squarcia la società italiana dal Secondo dopoguerra e genera sperequazione, fame, delatori, profittatori e parassiti. Lo stato criminale di Sciascia, il sentire mafioso, la dimensione occulta del Potere imbrattano la celluloide e travolgono il Belpaese a suon di complotti, intrighi, logge massoniche, raffiche di mitra, “stragi di Stato”, stupri collettivi, rapine a mano armata, pallottole vaganti e vittime innocenti: da tutto questo il cinema italiano trae linfa vitale per oltre mezzo secolo mostrando sullo schermo la psicologia di massa di un Paese che agisce come una belva… con la rabbia agli occhi.
Salvatore Amorello ©teloracconto.blog.spot – settembre 2024