L’immaginazione “vera” di Gustav Meyrink
Gianfranco de Turris
Jorge Luis Borges affermava che tutta la narrativa è fantastica. Al di là della difesa implicita di quanto lui stesso scriveva, a ben vedere il grande autore argentino non diceva il falso. Infatti, non si tratta di saggistica che descrive o interpreta la “realtà effettuale”, ma di un’opera di ricostruzione al cui interno è sempre presente un carattere immaginativo. Anche la narrativa cosiddetta realistica o neo-realistica, addirittura il romanzo definito “storico” (ma pur sempre romanzo) ha una sua patina d’invenzione, altrimenti non sarebbe più narrativa ma saggistica, appunto, oppure biografia o autobiografia. In molte sue opere Mircea Eliade si è diffuso sul senso simbolico della narrativa moderna, indipendentemente dal “genere”. Che cosa s’intende allora quando si parla di narrativa fantastica? Quando s’includono nella definizione di “letteratura dell’Immaginario” generi come la science fiction, la fantasy, l’horror, per riferirci a quelli cosiddetti popolari? S’intende che l’aspetto “fantastico” non riguarda soltanto l’ovvia invenzione di storie e personaggi, ma travalica i confini del reale. Mette infatti in discussione i limiti e le leggi naturali, deborda in situazioni impossibili secondo i canoni della vita che viviamo, dunque quando e laddove accade si verifica un evento che scardina le regole che tutti conosciamo e che rendono la realtà quella che è. Insomma, come intuì sinteticamente Roger Caillois, quando avviene “l’irruzione dell’Inammissibile” nella Realtà, ecco che si ha una narrativa “fantastica”.
I parametri di questa letteratura si riferiscono al tipo di fatto che ha messo in discussione il mondo in cui viviamo: può essere un evento di tipo scientifico, ed allora avremo la fantascienza; di tipo fisico o psicologico, ed allora avremo la narrativa dell’orrore (che assume anche altri nomi); può essere infine un evento semplicemente “diverso”, strano e inusitato, “meraviglioso”, oppure la descrizione di una realtà totalmente difforme dalla nostra ma non orribile: avremo allora la narrativa fantastica.
Tutto ciò in linea di massima, ovviamente, perché ormai questi generi letterari hanno imboccato direzioni molteplici e diramazioni inusitate. È tuttavia comune un particolare fondamentale: quel che irrompe nel nostro reale e lo modifica in modi diversi non deve avere un rapporto con esso, altrimenti avremo una narrativa che esprime soltanto una patologia della realtà, come nelle storie poliziesche, dove il crimine è l’evento imprevisto, o in quelle crudeli e sanguinose, che una volta si definivano grand-guignol e oggi splatter o in altro modo. Insomma, deve essere presente sempre qualcosa che vada oltre il reale conosciuto e ce lo ricostruisca, “contestandolo”, per così dire, in maniera diversa. Una vicenda fantastica o dell’orrore spiegabile razionalmente è infatti tale solo in superficie.
Il sovrannaturale, il paranormale, il supernaturale o come lo si voglia definire è quindi un elemento base di certa narrativa. Essa è sempre esistita sin dall’antichità: a parte i racconti mitici (che però erano all’epoca considerati veri e reali), i Romani e i Greci ci hanno tramandato i loro racconti di fantasmi, presenze inquietanti, vampiri, lemuri e revenants. Non si può fare nel presente contesto una storia pur succinta di questo genere letterario, ma almeno si può dire che all’origine del suo aspetto moderno ci sono almeno tre autori: l’inglese Horace Walpole, il tedesco Ernst Theodor Amadeus Hoffmann e l’americano Edgar Allan Poe, da cui sono discesi i vari rami del genere “fantastico” che attualmente conosciamo.
Il problema che allora si pone, per inquadrare all’interno di questo genere Gustav Meyrink e così spiegare il senso dell’aggettivo “vera” dato alla sua immaginazione, è l’origine di quest’ultima. Partiamo dunque da una considerazione: oggi questo “genere” è assai diffuso in tutti i mass media, sia scritti che visivi e illustrati, e di solito non è ormai più considerato inferiore rispetto al “realismo” come un tempo, né tantomeno confinato all’interno di un intrattenimento per ragazzini – anche se spesso e volentieri si rivolge a giovani e giovanissimi, specie nel suo aspetto di film, videogames, fumetti o giochi di ruolo. In queste opere sono di solito presenti stereotipi che vengono da lontano: si pensi a maghi e magia, vampiri e vampirismo, rivisitati per i nostri giorni, come nelle saghe di Harry Potter della Rowling e dei giovani vampiri innamorati di Twilight della Meyer, tanto per fare riferimento a cose note a tutti.
Le due autrici attingono quindi ad una tradizione letteraria antichissima, l’uso della quale si limita tuttavia ad una semplice fantasticheria, all’utilizzo ludico di figure che hanno ben altro spessore e significato, anche se in esse si possono rintracciare, al di là delle loro intenzioni, ben identificati archetipi. Ma è appunto l’intenzione e la loro cultura che qui conta. Hanno scritto romanzi forse ben congegnati, di certo piacevoli, divertenti, avventurosi, che avvincono, ma che non vanno oltre nel senso da dare a quel che hanno messo in campo. Non ci hanno certo pensato, né lo hanno voluto – supposto che ne avessero le cognizioni necessarie – e se qualcosa di altro in esse si può rinvenire, ciò in realtà esula dalla loro volontà e risiede nel simbolismo che di per sé è collegato alle figure – nel loro caso – del mago e del vampiro, simbolismo intrinseco che non si può cancellare. Insomma, la Rowling e la Meyer non avevano le cognizioni sufficienti per andar oltre quel che hanno voluto raccontare facendo uso di quelle figure. Ed è quanto in genere accade per la letteratura fantasy e horror di oggi: gli attuali scrittori pescano in un Immaginario collettivo e archetipico e ne tirano fuori topoi che di per sé hanno uno specifico senso che va al di là delle loro stesse intenzioni – fenomeno che peraltro accadeva anche in passato: basti pensare ai romanzi cavallereschi e del “ciclo del Graal”.
Ma non sempre è così o è stato così. Ci sono autori che hanno o hanno avuto alle spalle conoscenze ed esperienze reali in campo magico, occulto ed esoterico, poi travasate nelle loro opere d’immaginazione. Tanto per fare qualche esempio abbastanza noto: l’inglese Edward Bulwer-Lytton non fece della semplice fantasticheria quando scrisse le esperienze del suo Zanoni (1842); lo stesso dicasi per coloro i quali, facendo parte di società occulte come la Societas Rosicruciana in Anglia oppure la Golden Dawn, acquisirono nozioni superiori che esposero poi in veste narrativa, soprattutto le immagini acquisite negli Astral Wanderings, i Viaggi Astrali. Basti citare il premio Nobel William Butler Yeats, oppure Charles Williams (tra l’altro amico di Lewis e Tolkien) e lo stesso Aleister Crowley: il famoso e controverso mago scrisse un romanzo occulto, Moonchild (1917), in cui si descrivono operazioni di sesso magico, che non è certo un’invenzione puramente astratta. In altri termini: in tutti questi scrittori la loro fantasia attingeva a conoscenze dirette, ad esperienze spirituali vissute, magari anche ad episodi occulti realmente avvenuti a cui avevano preso parte o di cui erano stati testimoni.
È in questo ambito che si deve collocare Gustav Meyrink. Conoscendo la sua vita non vi dovrebbero essere dubbi in proposito. Eppure – credo quasi esclusivamente in Italia – è nata una diatriba, se non addirittura una polemica, che si trascina da ottanta anni, esattamente dalla sua morte, avvenuta il 4 dicembre 1932. Diciamo che da un lato ci sono i germanisti (ovviamente con le dovute eccezioni, come testimonia Marino Freschi) e qualche giornalista, dal lato opposto gli altri, in genere esoteristi non da quattro soldi: i primi a ridimensionare Meyrink, i secondi ad accreditarne il valore seriamente “occulto”.
E questo sin da subito, dopo la sua morte. Infatti, un illustre germanista del tempo, Alberto Spaini, scrisse per il fascicolo dell’11 dicembre 1932 de “L’Italia Letteraria” (nome assunto all’epoca da “La Fiera Letteraria”) un articolo dal titolo abbastanza programmatico: Meyrink, una favola. Spaini definiva lo scrittore come un “amabile e strabiliante imbroglione”, ritenendo che di tutta la sua vasta produzione di racconti e romanzi rimanesse, al momento della sua scomparsa, soltanto “uno scherzo finissimo, spirituale, estremamente elegante e passato di moda”. Un ritratto riduttivo, come si vede, anche se privo di cattiveria. Evidentemente Spaini teneva presenti soprattutto i racconti che Meyrink aveva scritto per il settimanale satirico “Simplicissimus” e altre riviste fra il 1901 e il 1913, in base ai quali si era fatta la fama di scrittore grottesco, umoristico, incredulo e scettico su tutto e tutti, caustico e in fondo poco serio, critico nei confronti delle istituzioni, dei giudici, dei militari, della borghesia. Ma di ben altro spessore erano i romanzi successivi, pubblicati a partire dal 1915.
Questa etichetta è rimasta su Meyrink per lunghissimo tempo. Anche un prodigioso intellettuale come Angelo Maria Ripellino lo definisce “ciarlatano mistico” in quella summa di conoscenze che è Praga magica (1973), per non parlare di un Claudio Magris, attualmente un guru che va per la maggiore, che in una recensione di quarant’anni fa cercò di ribaltarne l’immagine, presentandolo come un critico di esoterismo e tradizione magica, scrivendo che “il truculento e fumettistico ciarpame negromantico non è forse nient’altro che il simbolo di ciò che deve essere esorcizzato e distrutto: l’apparato alchemico di Meyrink vuol forse significare che il passato e la tradizione sono l’elemento diabolico, il vampiro che distrugge la vita”. Addirittura! E infatti, più avanti il critico nega decisamente che lo scrittore possa essere considerato “un maestro di scienze esoteriche” (“Corriere Della Sera”, 19 marzo 1972).
Meyrink critico della “tradizione” in sé in quanto “elemento diabolico”? Frase sospetta. Si tenga allora presente che questo articolo apparve nel periodo in cui erano stati ristampati dalle Edizioni del Gattopardo di Roma i tre romanzi pubblicati da Bocca nel 1944 (Il Domenicano bianco, La notte di Valpurga) e nel 1949 (L’Angelo della finestra d’Occidente) attribuendo esplicitamente traduzioni e introduzioni a Julius Evola, la cui firma in precedenza era assente solo nel terzo. Un nome ieri come oggi tabù per certa cultura italiana. Anche questo spiega il tentativo di banalizzare e capovolgere la visione del mondo di Meyrink. Insomma, esorcizzare lo scrittore, ma anche Evola, che ne era stato il primo divulgatore e sostenitore in Italia.
Poco più tardi – si era ormai nei pieni “anni di piombo” – questa caccia alle streghe ideologico-culturale produsse i suoi effetti, coinvolgendo anche altri autorevoli prefatori. Trasformate le Edizioni del Gattopardo ne La Bussola (1979), al posto di quelle evoliane giunsero le introduzioni di un certo Spartaco Proietti (che in alcuni cataloghi è indicato come mio pseudonimo: basterebbe leggere quel che scrive per smentire l’ipotesi!), mentre la Bompiani, che aveva pubblicato Il golem anni prima nella curiosa e diseguale collana Il pesanervi (1966), prefato da un intellettuale competente (ancorché con riserve sulle idee di Meyrink) come Elèmire Zolla, pensò bene di adeguarsi al clima dell’epoca e ne pubblicò una nuova edizione nei Tascabili (1977) introdotta da un certo Ugo Volli, banale e conformista (la cosa peggiore è che dopo oltre trent’anni il romanzo ancora viene ristampato così).
In altri termini, lo scrittore austriaco subisce la singolare sorte di altri autori in questo ambito letterario, come Lovecraft e Tolkien: essere stati o scoperti o valorizzati da una critica letteraria che possiamo definire non-progressista e che si basa su canoni interpretativi diversi e opposti da quella ufficiale. Quasi per ritorsione, essi inizialmente vengono affossati, quindi – non potendoli ignorare del tutto a causa della loro diffusione e popolarità – banalizzati o ridimensionati o anche stravolti ad uso e consumo della vulgata “progressista”. È quella che una volta ho definito Operazione Normalizzazione.
Negli anni Venti e Trenta lo scrittore austriaco, sin dalle prime traduzioni dei suoi romanzi (Il golem, Campitelli, 1926; La faccia verde, Bemporad, 1931), Meyrink era stato oggetto di una profonda attenzione da parte dei più significativi esoteristi italiani, quelli che facevano parte del cosiddetto Gruppo di Ur, che curò la pubblicazione delle riviste “Ur” e “Krur” tra il 1927 ed il 1929. Fra essi Julius Evola, che parlò ampiamente di lui anche nel suo fondamentale Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo (Bocca, 1932), in un capitolo dedicato all’Alta Magia; e poi Massimo Scaligero che, probabilmente in risposta all’articolo già citato di Spaini, sempre su “L’Italia letteraria” pubblicò un’ampia disamina della sua narrativa il 15 settembre 1934, con un titolo che è anch’esso significativo: Misticismo e narrativa: che cosa c’è in Meyrink. Aspetto di cui invece Spaini e altri non si erano accorti. Questo interesse deve essere apparso agli “addetti ai lavori”, come si suol dire, qualcosa di indecoroso, sospetto, se non addirittura pericoloso. Bisognava dunque “salvare” Meyrink, sottrarlo a quelle illecite interpretazioni. Da qui la loro reazione, che si mescolava con una formazione culturale del tutto estranea alle cose dello spirito, tanto da far considerare spiritismo e occultismo come sciocchezze e baggianate, se non addirittura peggio.
Certo, Meyrink può dar adito a questo sospetto, ma soltanto se si prendono in considerazione i primi racconti – e nemmeno tutti – e comunque una lettura attenta e senza pregiudizi delle opere maggiori avrebbe dovuto far sparire ogni dubbio. Quello su cui si appigliano i banalizzatori dello scrittore austriaco è peraltro l’esatto contrario di quanto pensavano: era piuttosto la violenta e sarcastica critica di un particolare spiritualismo che impazzava al suo tempo e purtroppo ancora oggi: quello, cioè, che riduce esperienze importanti a semplice barzelletta, a deviazione, ad inversione, ad anti-tradizione e contro-tradizione. Questo aspetto è stato da me rilevato e messo in evidenza nella analisi dei racconti meyrinkiani compresi nella antologia La morte viola (Coniglio, 2011) e nella introduzione alla nuova edizione critica de Il Domenicano bianco (Bietti, 2012), là dove il nostro autore mette esplicitamente in guardia i lettori dalla pseudo-religiosità che già negli anni Venti del Novecento era pervasiva e pervertiva quella vera. Operazione che hanno effettuato tutti gli esoteristi seri, italiani compresi: una cosa è la vera magia, un’altra quella dei ciarlatani e delle fattucchiere.
Meyrink li condanna senza equivoci di sorta (si pensi solo a quel che scrive ne Il Domenicano bianco, ad esempio). Del resto, tutto quel che si conosce della sua vita va a favore di una interpretazione seria e consapevole del suo esoterismo, del suo credere ad un Altrove. Che altro significherebbe, altrimenti, il perenne appello ad un superamento della vita sonnambolica per il raggiungimento di uno status spirituale superiore presente in ogni suo romanzo; il suo aver aderito a una serie di associazioni iniziatiche; gli articoli e i saggi da lui scritti in proposito; le affermazioni dirette, tramite interviste ad italiani (ad esempio quella premessa da Enrico Rocca alla prima edizione de Il golem) e stranieri (come l’ultima da lui concessa all’“Hannoversicher Anzeiger” il 18 ottobre 1931, a meno di un anno dalla morte, quasi un suicidio, ed ora compresa nella antologia La morte viola da me curata) o contenute nei romanzi; le critiche negative alla pseudo-religiosità in saggi e racconti? Tutto questo come lo si dovrebbe intendere? Meyrink avrebbe dunque preso in giro il suo pubblico e la critica per tutta la vita? Avrebbe gabellato i suoi interpreti? Esoteristi di vaglia sarebbero caduti in questa trappola? Sembra assurdo.
Diciamo invece che la critica accademica e giornalistica che non crede affatto a certe cose ha preso spunto dalla sua denuncia e condanna della falsa spiritualità, dell’esoterismo d’accatto, degli pseudo-guru, ritenendola una denuncia ed una condanna alla vera spiritualità, al vero esoterismo, ai veri maestri spirituali, come facendo il gioco delle tre carte.
Dunque l’Immaginazione di Meyrink può essere legittimamente definita vera perché fa riferimento ad esperienze vissute e a conoscenze metafisiche realmente acquisite dallo scrittore.
Nota. Questo testo ha il titolo, ma solo il titolo (a parte i concetti generali), del mio intervento ospitato nel grosso volume dei Cahiers de l’Herne dedicato a Gustav Meyrink e pubblicato nel 1976. Sono l’unico italiano presente in quel tomo, insieme a Julius Evola. Fu lui che mi introdusse in quella importante iniziativa cui era stato invitato, nonostante fossi men che trentenne; infatti i nostri due interventi furono scritti intorno al 1972-1973, all’epoca in cui uscirono le ristampe meyrinkiane per i tipi delle Edizioni del Gattopardo. Penso che in questo modo il Barone volle ricambiare un mio aiuto: fui io a segnalare all’editore il fatto che il traduttore e prefatore dei tre romanzi era ancora ben vivo e che quindi non potevano ignorare questo particolare, a rischio di giuste rivalse: bisognava firmare i suoi testi e di conseguenza retribuirlo, come poi avvenne. Evola morì nel 1974 e quindi la sua significativa testimonianza (ora in appendice alla nuova edizione Bietti de Il Domenicano bianco insieme a quelle di Hutin, Bayard e Heym, nonché a quella di Massimo Scaligero che avevo recuperato all’epoca) uscì postuma.