Interno Bosch
Ilaria FloreanoA lungo si è creduto che il punto di fuga del quadro Las Meninas di Diego Velázquez (1656) fosse il riflesso nello specchio del re di Spagna Filippo IV, committente dell’opera, e della sua consorte Marianna. Lo specchio è posto alle spalle dell’Infanta Margherita, che occhieggia nella direzione dello spettatore. Tutto fa pensare che Velázquez, autoritratto sulla sinistra, stia realizzando, sulla grande tela che emerge dal bordo, un ritratto dei Reali più tradizionale di quanto non sia invece Las Meninas (il quale, nonostante il titolo e il posizionamento dei personaggi protagonisti, proprio un ritratto dei Reali doveva e voleva essere). Più tardi si è scoperto che il vero punto di fuga della magnifica opera conservata al Prado è in realtà il gomito dell’altro Velázquez (Don José Nieto), il consigliere della regina, che vediamo sullo sfondo mentre scosta una tenda (la quale potrebbe “stare per” un sipario), aprendo così lo spazio del quadro ad un altro ancora, uniformemente luminoso e sconosciuto (il pittore sceglie con cura la posizione e il ruolo del suo omonimo). Tale scoperta ha portato ad ipotizzare che il Velázquez pittore stia dipingendo non i Reali che ha di fronte, i quali (alter ego di noi spettatori) starebbero osservando lui, l’Infanta e le sue “meninas”, bensì Las Meninas stesso, generando così una vertiginosa mise en abîme che riempie lo spazio uniformemente luminoso e sconosciuto di un’idea di tempo infinito (infinite sono le repliche del quadro nel quadro) e di un’idea di tempo non-finito (la mano del nano sulla destra non è conclusa e diventa “l’istante” della vita non fissato sulla tela). Ma cos’altro è questo spazio? Quello che l’invenzione della prospettiva aspirava a sfondare o su cui Lucio Fontana apriva squarci coi suoi Concetti spaziali, più noti come “tagli” o “buchi”?
È lo spazio-mondo invisibile costituito dall’essenza segreta delle cose che abitano lo spazio-mondo visibile, schermo nero che solo ogni tanto e di fronte a certe menti (spesso poeti e pittori) mostra il senso prima di richiudersi in un silenzio ostinato. L’oggetto dell’arte simbolista, che una convenzione fa nascere nel 1886 con il Manifesto del Simbolismo, pubblicato dal poeta Jean Moreas su “Le Figaro”, era proprio questo spazio-mondo invisibile, sul quale già da tempo riflettevano i preraffaelliti. Strumenti di conoscenza di questa alterità capricciosa e affascinante erano l’analogia e la sinestesia, per i poeti; la mostruosità, il linearismo, l’uso soggettivo del colore e della dimensione per i pittori, ciascuno dei quali si distingueva peraltro condensando sulla tela qualcosa di unico, non ripetibile né ascrivibile a caratteristiche comuni: la propria immagine della realtà. Una realtà trasfigurata dalla percezione del pittore, che dipinge i segreti nascosti dietro il velo dell’apparenza sensibile in un’anticipazione che, aggiornando l’Impressionismo e conferendogli un’accezione più letteraria e cerebrale, è anche germe del Surrealismo che verrà e istituzionalizzazione di un modo di intendere il gesto artistico, di per sé implicito nel gesto stesso (l’arte è ontologicamente “simbolica” e solo dal 1886, in certi Paesi, per certi artisti, può anche essere “simbolista”). Una concezione artistica in cui l’esterno si fa espressamente interno.
In greco, interno è esoterikos. Questo aggettivo indicò in principio i sacri misteri presenti in tutte le religioni. Nel corso dell’evoluzione linguistica ha allargato i propri confini per definire tutto ciò che è segreto e può essere conosciuto solo dagli iniziati, ai quali è affidata la possibilità di avere rivelati la verità occulta e il significato nascosto. L’esoterismo contempla una corrispondenza analogica tra micro e macrocosmo; un’idea di natura viva e comunicante; l’esistenza di mediatori angelici tra uomo e Dio (gli artisti…?), cioè di vari gradini cosmici tra materia e spirito puro (quelli che Rimbaud voleva saltare a piè pari); il principio della trasmutazione interiore e della trasmissione iniziatica. Sono pratiche esoteriche, tra le altre, la cabala, l’ermetismo, la teosofia, l’alchimia.
Nella Cappella Sansevero in Via De Sanctis a Napoli giace il Cristo Velato di Giuseppe Sammartino, celeberrima scultura per cui Antonio Canova sarebbe stato disposto a dare dieci anni di vita pur di esserne l’autore e la cui fama è legata all’incredibile realismo del velo che ricopre il corpo deposto. Talmente incredibile da stimolare una teoria secondo cui l’artefice della Cappella, il geniale filosofo e alchimista Raimondo de Sangro, avrebbe insegnato allo scultore come calcificare il tessuto in cristalli di marmo (nonché iniettato nei resti di due servitori defunti un liquido in grado di pietrificarne vene e arterie, creando le prodigiose “macchine anatomiche” che si trovano sempre nella cappella, un piano più sotto). Anche del lato esoterico di Leonardo – che tra le altre cose era in grado di dipingere l’auracaria (pianta originaria del Cile) prima che l’America venisse scoperta ed esplorata, forse perché padrone di conoscenze millenarie tramandate segretamente – si è scritto e detto di tutto.
Dunque, da una parte troviamo il Simbolismo, inteso come corrente artistica che aspira a svelare i segreti di ciò che sta “dietro”, inventando un linguaggio nuovo in grado di unire elementi solitamente distanti in crasi immaginifiche; e il simbolismo in senso più intuitivo e arcaico (recuperando l’etimologia greca sym-bolèin, “tenere insieme”), come metodo di rappresentazione e strategia narrativa impliciti del fare arte.
Dall’altra l’esoterismo, che crede in un Tutto armonico costituito da rimandi tra realtà e passaggi di stato e attua pratiche per maneggiare l’Assoluto (quello spazio-mondo invisibile e fatto di tempo infinito e non-finito?).
Eppure è vissuto un pittore, simbolista ed esoterico in senso lato e forse letterale, coevo di Leonardo, che senza sottoscrivere manifesti e molto prima di Rossetti, Moreau, de Chavannes, Munch, Ensor, Burne-Jones, Beardsley, Böcklin e Previati, ha trasferito sulla tela la propria realtà, priva di quel filtro conveniente e formale che ne occulta la crudele deformità, le combutte egoistiche e gli impulsi scabrosi: Hieronymus Bosch.
Nacque Jeroen van Aken (cioè da Aquisgrana) nel 1450 o nel 1453, figlio di Antonius e nipote di Jan, entrambi pittori. Morì nel 1516, dopo aver trascorso l’intera esistenza a ‘s-Hertogenbosch, all’epoca la città dei Paesi Bassi più grande dopo Utrecht, che gli ispirò lo pseudonimo. Qui sposò l’agiata Aleyt Goyaerts van der Meervenne, che gli permise di diventare uno dei maggiori notabili di Den Bosch (attuale abbreviazione del nome cittadino). Si legò alla Confraternita della Nostra Diletta Signora, dedita al culto della Vergine che, secondo molti biografi, lo influenzò in maniera decisiva, introducendolo ai valori dell’Umanesimo (a ‘s-Hertogenbosch visse e studiò dal 1485 al 1487 Erasmo da Rotterdam). Dipinse le opere che gli donarono fama e ricchezza, apprezzate da Filippo il Bello e da sua sorella Margherita d’Austria, governatrice dei Paesi Bassi dal 1507 al 1519, tra le quali solo un numero limitato ha per oggetto gli incroci demoniaci, le aberrazioni antropo-zoomorfe e le mostruosità gorgoglianti che pure gli hanno permesso – e continuano a permettergli – di affascinare l’umanità di ogni tempo e luogo (la maggior parte delle sue opere essendo a tema religioso e cristocentriche).
Secondo lo studioso Wilhelm Fränger, aderì anche ad una delle eresie più diffuse nelle Fiandre e nella Germania del XV secolo: quella dei Fratelli e delle Sorelle del Libero Spirito, adamiti dediti al nudismo – come pratica per giungere alla rinascita dell’innocenza paradisiaca precedente alla caduta – e al libero amore inteso come diritto di natura tramite il quale recuperare la purezza dei progenitori o, ancora meglio, l’identità ermafroditica di Adamo. In particolare, secondo Fränger, Bosch si associò, quanto meno concettualmente, ad una variante della setta, detta degli “Homines Intelligentiae”. In questo modo, lo studioso spiega il simbolismo e l’esoterismo di una parte della produzione boschiana riallacciandoli ad alcune pratiche di suddetta setta. Ma la scarsezza di prove storico-documentarie e, al contrario, la comprovata fedeltà del pittore alla confraternita di Nostra Signora (il cui capo si opponeva duramente all’eresia adamitica) hanno reso la critica molto scettica nei confronti delle tesi dello studioso tedesco, che pure ha portato a sostegno una serie fenomenale di riferimenti ingegnosi e analisi parzialmente plausibili – ragion per cui continuano a trovar seguito presso il pubblico dei non addetti (avendo la cultura mainstream collocato Bosch nell’accattivante casella del pittore demoniaco e, appunto, esoterico).
Non si sa dunque con esattezza quando Bosch sia nato, se abbia mai soggiornato anche per poco fuori da ‘s-Hertogenbosch, quali siano stati i committenti delle sue opere, in che anni le abbia realizzate, se alcune di esse siano totalmente sue (tanto distanti nella resa tecnica sono talvolta le parti di taluni trittici) o davvero sue (la fama che fiorì intorno all’artista, ancora vivente, fu tale da ingenerare molteplici imitazioni, a volte così perfette da risultare indistinguibili dagli originali). Sappiamo invece che la forza delle visioni boschiane è tanto soggiogante da aver fatto fiorire una congerie di riflessioni, ipotesi e interpretazioni così ampie e articolate, che si è parlato di un pittore del tardo Medioevo in termini freudiani, facendone un precursore della scrittura automatica di André Breton e dei surrealisti – quando tutt’al più ne è stato un ispiratore e un modello. Per spiegare le visioni straripanti di Bosch, firme autorevoli hanno rievocato eresie, dicevamo, ma anche Sant’Agostino, la riforma di Lutero, l’angoscia esistenziale, il tipo del poeta maledetto aiutato da sostanze allucinogene, la sessuomania, la sessuofobia, l’omosessualità e l’omofobia. È molto probabile che Bosch avesse conoscenze alchemiche (le quali all’epoca circolavano in testi alla facile portata di chiunque, appartenente alle classi medio-alte, ne fosse interessato). È altrettanto plausibile che abbia letto la Visione di Tondalo, testo irlandese del XII secolo che narra il terribile percorso dagli inferi verso la salvezza di un soldato, ristampato in olandese nel 1484 da Gerard van der Leempt (primo tipografo di ‘s-Hertogenbosch e dei Paesi Bassi); è infine verosimile che abbia attinto a mani basse da un crogiuolo di simboli della tradizione popolare (per esempio il suo Figliol Prodigo, del 1510, molto affine al ventiduesimo Arcano dei tarocchi, il Matto). Chi forse l’ha compreso meglio è il vecchio del racconto di Dino Buzzati – che, da artista, quale era a sua volta, spiega la storia scrivendo una storia, riflettendo sulla leggenda con una favola. Il vecchio, che ha le identiche fattezze del Bosch autoritratto nell’Incoronazione di spine (1485 circa), così spiega le prodigiose visioni del suo antenato: “Altro che fantasie, altro che incubi, altro che magia nera… La realtà nuda e cruda che gli stava davanti… Solo che lui era un genio che vedeva quello che nessuno, prima di lui e dopo di lui, è stato capace di vedere. Tutto qui il suo segreto: era uno che vedeva e ha dipinto quello che vedeva…”
Ma cosa vedeva Hieronymus Bosch?
Vedeva amanti accoppiarsi in ampolle di vetro o nell’acqua (palese richiamo alle pratiche alchemiche ed ermetiche); torri merlate, alberi cavi, incendi (allusioni all’atanòr, il forno degli alchimisti); uva, melograni, mele, ciliegie, fragole (Il giardino delle delizie, del 1480-1490, ne è tanto pieno da essere chiamato familiarmente “quadro delle fragole”), simboli di una ridondanza effimera che conduce alla rovina; corni, frecce, cornamuse, simboli del sesso maschile; cerchi, bolle, valve di molluschi, brocche, falci di luna, a loro volta simboli del sesso femminile; cammelli, lepri, porci, cavalli, cicogne, serpenti, civette (inviate del diavolo), rospi (segno alchemico per lo zolfo e simbolo di morte e del demonio); imbuti rovesciati (significanti frode o falsa sapienza – L’estrazione della pietra della follia, 1494 circa); chiavi (conoscenza – Il prestigiatore, 1502 circa – oppure allusione al sesso); piedi mozzati (giustizia punitiva oppure malattie mutilanti – Le tentazioni di Sant’Antonio, 1510: negli anni in cui Bosch dipingeva, il fuoco di Sant’Antonio aveva ricominciato a mietere vittime).
Con pennellate veloci ed espressive, senza schizzi preparatori, dipingeva visioni di demoni con corna, ali e coda, esseri metà uomini e metà bestie, macchine antropomorfe, mostriciattoli senza tronco, enormi teste con gambe, nasi-flauto, nasi-tromba, l’Inferno e l’Empireo. Accidiosi ferrati sopra incudini, assassini cotti a fuoco lento in pentole, avari infilzati su uno spiedo, golosi costretti a trangugiare bevande schifose, orgogliosi che girano in eterno sopra una ruota. Sciami di libellule e cavallette (simbolo demoniaco), uomini e donne nudi impegnati in carambole erotiche, alberi con parti umane, uomini con arti meccanici, cani erecti con zampe a tre dita e musi allungati, uccelli con becchi ricurvi sopra e sotto, che non possono mai chiudersi (uno dei quali infilza un foglio recante forse l’autografo spagnoleggiante “Bosco” ne Il volo e la caduta di Sant’Antonio del 1505-1506); pesci volanti; coltelli che trafiggono, carte francesi e dadi come copricapo, otri che sembrano cavalli montati da cavalieri con teste spinose (Le tentazioni di Sant’Antonio).
Nell’Inferno Musicale, terza parte del Trittico delle delizie (1480-1490) – primo esempio di soggetto figurativo fantastico della storia dell’arte – un coniglio trasporta la sua vittima infilzata da un’asta e schizzante sangue dalle viscere; gli oggetti quotidiani più umili assumono proporzioni mostruose e diventano strumenti di tortura; un albero ha la forma di un uomo (forse un pensieroso autoritratto) e di un uovo rotto (simbolo alchemico per eccellenza); un’inquietante creatura dalla testa d’uccello ingoia le anime dannate e poi le espelle in un gabinetto trasparente, dal quale precipitano in una fossa; una scrofa in amore fa firmare all’innamorato umano un documento, con dell’inchiostro offerto da un mostro corazzato; un demone, guidato da un uomo a mezzo busto, canta una melodia scritta sul fondoschiena di un essere umano che sembra spingersi fuori dal quadro; una donna avvinghiata ad un cane-demonio si specchia nel deretano di un mostro ramificato; i flauti diventano cunei anali, le arpe e i liuti crocifissi (la musica era spesso associata alla lussuria e perciò condannata); un enorme coltello (simbolo fallico) sbuca da due grandi orecchie trafitte da una lancia.
Questo vedeva Bosch, privo di qualsivoglia mediazione cosmetica: capricci enigmatici e misteriosi, ribollenti di centinaia di figurine giustapposte in fasce orizzontali od oblique, senza soluzione di continuità, in primi piani senza scampo.
Forse solo parti di una fantasia fervida, coadiuvata da una temperie culturale effervescente, una minuziosa conoscenza delle tradizioni, una particolare attitudine al “parlare per” simboli, un’inclinazione all’esoterico, una tavola valoriale borghese e moralistica. Forse radiografie raggelanti ma obiettive di una verità (l’abominio morale dell’essere umano) dura ma inconfutabile per chi abbia il dono della veggenza e un programma artistico preciso, non-religioso bensì sociale: Bosch incoraggiava la modestia, il lavoro e l’autocontrollo, condannando gli istinti sessuali e fisici, la sregolatezza, l’indolenza, l’avidità e l’aggressività… pur avendone una consapevolezza tale da poterli dipingere con l’accuratezza inusitata che abbiamo cercato di raccontare. Proprio lui, uomo per tutto il resto “tranquillo”.
La mente di un artista e le sue contraddizioni restano il mistero più affascinante.