Il male oscuro della narrativa fantastica ispanoamericana
Marco CimminoLa vita, in fondo, non è che sogno: un’ingannevole parvenza che, dietro la rassicurante certezza dei fenomeni, nasconde paradisi increduti e spaventevoli abissi. Una crepa nel contrafforte della rocca basta a rivelare baratri di vertigine, dal fondo biancheggiante di ossa spolpate. Tutto ci inganna e ci lusinga, sembra dire la celeberrima strofe di Calderón: “¿Qué es la vida? Un frenesí. / ¿Qué es la vida? Una ficción, / una sombra, una ilusión, / y el mayor bien es pequeño. / ¡Que toda la vida es sueño, / y los sueños, sueños son!” (Cos’è la vita? Un delirio. / Cos’è la vita? Finzione, / ombra, illusione, / e il più gran bene è niente. / Ché tutta la vita è un sogno, / e sogno sono i sogni). Eppure, questo sogno ci consola dalla vita vera: dalle severe consuetudini quotidiane e dalla noia dell’attendere, dallo strazio della perdita immedicabile di ciò che ci è caro e dalle malinconie inspiegabili. È un sentimento di vanità e inconcretezza del reale, che è particolarmente forte nei popoli di lingua spagnola, in cui, sovente, si accompagna ad una sorta di fatalismo plumbeo ed incrollabile, che può diventare fanatismo e misticismo. Ogni popolo ha un suo Stimmung originario, una specifica ed esatta cognizione della propria identità nell’universo, che non deriva da speculazioni, sibbene da remotissimi ricordi, i quali, riuniti, diventano atavismo. Così è per il senso del fantastico gotico dei popoli nordeuropei, per il senso innato del magico delle genti carpatico-danubiane, per la smania di equilibrio e di compostezza dei latini. Gli ispanici, invece, dubitano: dubitano con la forza dei popoli iperreligiosi, dubitano di tutto, tranne che, forse, dell’incredibile, dell’iperuranio. È dello spagnolo il non credere alla propria realtà, se non è trascendente.
Questo nella Spagna europea: di là dal mare, invece, negli antichi possedimenti dei re cattolici, a questa proverbiale incredulità si aggiunge un nuovo sentimento, che domina e governa la letteratura latinoamericana, mantenendone i caratteri primigeni, ma dotandoli di maggiore profondità, e, per così dire, di una diversa e caratteristica temperie. È come se aleggiasse in tutto il fantastico sudamericano un misto di solitudine, nostalgia e colpa: nostalgia d’Europa, divisa da loro da un oceano infinito, tanto da apparire, a sua volta, remoto sogno. E colpa per le civiltà fiabesche e misteriose, spente dalle picche e dagli archibugi dei conquistadores: sangue rimasto sulle mani dei gringos, eredi di quei capitani. Così, la mitologia precolombiana, dalle colossali costruzioni sepolte da una giungla troppo lussureggiante per non destare inquietudine, tanto che paia cosa animata e crescente nottetempo a minacciare il bianco intruso, torna e si prende la sua rivincita: torna zufolando all’orecchio del sapiente, del colto, del razionale figlio dell’estremo Occidente, la sua formula magica. Ed egli non sa mai se sia scongiuro o maledizione. Ma il suo cuore gli suggerisce essere maledizione.
Così è per Jorge Luis Borges, la cui enciclopedica – e, talvolta, volutamente pedante e libresca – erudizione si accompagna sempre ad una leggerezza che ci fa comprendere come egli, per il primo, non ci creda: non solo non creda alla ragione e al sapere occidentali, ma neppure che certe città lontanissime e famose, Roma, Salamanca, Heidelberg, esistano davvero. È come se la distanza enorme che divide la Buenos Aires di Borges dalla sua Europa della cultura rendesse quell’universo una sorta di fata morgana, la cui tremolante illusione si riveli piena di un fascino inesprimibile, ma anche priva di sostanza e, in definitiva, inquietante, come il canto delle sirene. L’uomo bonaerense è un naufrago su di un’isola deserta, fatta di negozi, automobili e biblioteche, ma, appena fuori dai sobborghi comincia un continente spaventosamente immenso, fatto di orizzonti indefiniti, che nessun ferrocarrìl potrà mai raggiungere, sotto lo smalto indaco di un cielo lontanissimo. E, tra fiori sconosciuti e carnosi, nello stillare lento della foresta pluviale, sonnecchiano le belve.
Questo è il fantastico di Borges: mai rivelato, sempre solo accennato. Sequenze infinite di cose ed esistenze, piccoli oggetti da nulla, carichi di misteriose allusioni, qualità e difetti apparentemente banali ma che nascondono un progetto cosmico, che non possiamo comprendere. Il tutto, raccontato con i toni di un’educazione puntigliosa, di una cultura accademica esatta e raffinata, che non è che paradosso e satira di se stessa.
Nascono così le opere più note del Borges narratore: racconti in cui l’esistenza è metafora e labirinto. Nessuno scrittore ispanoamericano è più europeo di Borges, per cultura ed inclinazioni: nessuno meglio di lui nasconde, tra le pieghe della sua opera, lo Stimmung sudamericano. Il suo universo fantastico è, in un certo senso, un labirinto: ricapitola e nega se stesso, continuamente. Le sue Ficciones, sono finzioni solo apparentemente: celano, invece, il vero reale, l’impronunciabile sentenza. E i titoli delle sue opere sono già, di per sé, rivelatori: El libro de arena e il Libro de sueños dicono già molto dell’inafferrabilità e dell’inconsistenza dell’universo narrativo borgesiano. Alla base di questo sentimento delle cose, sta appunto quello Stimmung che è il vero protagonista di queste pagine, e che nasce dalla geografia, prima che dalla storia del continente latinoamericano.
In quella sconfinata terra di nessuno, stracciata dal pampero, percorsa da fremiti che la fanno rabbrividire, sorge, isolata, La casa de los espíritus, figlia della facile evocazione di un’Isabel Allende, ma di nuovo riconducibile a quelle radici creole che nutrono il patrimonio mitopoietico ispanoamericano. La Allende non è Borges: il suo essere cilena (e il portare quel cognome) le ha reso, in termini di popolarità, quel che ha tolto a Borges l’essere stato argentino e conservatore – ma anche lo scrivere seguendo quelli che sono i dettami della moderna editoria, come un Grisham o uno Smith. Tuttavia, anche nella prosa accessibile della Allende aleggia sempre questo spettro evanescente: questo senso di oscurità impenetrabile, proprio dietro l’angolo del patio. Questa Europa assediata dall’America, imprigionata all’interno dell’America stessa. Troppo orizzonte, forse: pochissimi uomini in spazi troppo sterminati per essere percorsi. E tutto quel mare, intorno, che ti fa sentire in un’enorme isola, più che in un continente. E, sopra ogni cosa, le ombre tagliate con nettezza, da un sole spietato: una letteratura in cui si muore sempre a mezzogiorno e mai, come accade da noi, alle prime luci del mattino.
Stanze in cui il pulviscolo danza, attraverso strisce oblique di luce, tra il bianco dei muri e delle maioliche ed il nero dei mobili: lì, eternamente immobili, recitano la loro parte Aureliano Buendìa e il suo vecchio compagno d’armi, che da quindici anni aspetta una pensione che non arriverà, come Drogo aspettava i tartari. El coronel no tiene quien le escriba: questa è la verità. Mai nessuno viene, mai nessuno scrive, a Macondo, come ovunque. E, intorno ad un cosmo minuscolo, il colombiano Gabriel García Márquez costruisce di nuovo la proiezione dell’immenso cosmo che è il Sudamerica: la sua narrativa non è fantastica, in senso stretto. Ciò che vi è di autenticamente fantastico è il fare galleggiare i suoi personaggi, pure umanissimi, in una bolla di straziante senso dell’irrealtà: come se vivessero in un sogno sospeso, che si ripete all’infinito – il che è un modo come un altro per descrivere l’inferno. Cosa li fa soffrire così – si domanda il lettore – cosa li costringe a non vivere una vita vera, per attorcigliarsi intorno a questo dolore immedicabile? È il Sudamerica: è questo essere parte di qualcosa che è spezzato all’origine e che non risolve il proprio destino né mai, forse, lo risolverà. La fatalità di una morte annunciata, che si affronta con stanchezza e rassegnazione anziché con coraggio, è il portato di questo modo strano di intendere la vita: di questo sconcerto e di questa estraniazione che per noi, figli delle nostre sicurezze plurimillenarie, è difficile comprendere. Eppure, anche le nostre certezze, in fondo, sono sogno.
Va da sé che esiste una letteratura ispanoamericana meno implicita e in cui emergono più evidenti gli elementi fantastici: ma possiamo dire che, in fondo, essa è meno inquietante e che, alla fine, ci rassicura, nella sostanziale ragionevolezza dei propri incubi. Carlos Castaneda è più statunitense che peruviano quando descrive il percorso iniziatico del suo sciamanesimo mesoamericano: il suo Don Juan pare fatto apposta per restituire al pubblico nordamericano quell’America Latina che esso immagina. Certo, ci sono la magia, il miracolo, il mistero: ma quelle sono cose cui siamo abituati. Si tratta, per così dire, di un fantastico rassicurante, di una magia metabolizzabile. In definitiva, di folklore per turisti. L’incubo vero è altrove.
In un certo senso, il più alto tentativo di fare i conti con questa propria anima lacerata e divisa e con questo senso di solitudine e di colpa è rappresentato dal Canto General di Pablo Neruda, che fu in definitiva una sorta di poesia espiatoria per la tragedia della conquista: è come se il bianco vincitore avesse pagato la propria vittoria con una maledizione postuma lanciata dall’Inca e dall’Azteco. Ed è precisamente di questa maledizione che si è trattato in queste brevi note. “Mostradme vuestra sangre y vuestro surco, / decidme: aquí fui castigado, / porque la joya no brilló o la tierra / no entregó a tiempo la piedra o el grano: / señaladme la piedra en que caísteis / y la madera en que os crucificaron, / encendedme los viejos pedernales, / las viejas lámparas, los látigos pegados / a través de los siglos en las llagas / y las hachas de brillo ensangrentado. / Yo vengo a hablar por vuestra boca muerta” (Mostratemi il vostro sangue e il solco, / ditemi: qui io fui castigato, / perché la gioia non brillò o la terra / non diede allora sua la pietra o il grano: / indicatemi la pietra ove cadeste, / e il legno su cui vi crocifissero, / accendetemi gli antichi acciarini, / gli antichi lumi, le fruste attaccate / per secoli sopra le vostre piaghe / e le asce di luce insanguinata. / Io parlo dalla vostra bocca morta).
Così, l’immenso continente ci appare nel buio, come una costa scoscesa e null’altro. Ne distinguiamo appena i contorni: nulla sappiamo delle sue pianure infinite, delle foreste e delle cime inaccessibili. Ne immaginiamo le ricchezze, custodite in ciclopici templi: ne presentiamo il futuro, forse, ma non sappiamo, noi uomini d’Europa, penetrarne il mistero. Così, per noi, l’America è soltanto l’immagine confusa di altissime scogliere, sopra un mare cupo e ribollente. In alto, tra le rocce, misteriosamente, si accendono fuochi di cui non sappiamo riconoscere il significato. E la nostra nave passa, trascorre verso altre mete. Verso la morte, forse, che risolva nel mistero ultraterreno quel sogno che è la nostra vita, che un vecchio dagli occhi spenti, come gli aedi dei nostri primordi, sta sognando con noi, in un infinito labirinto di specchi.