
Corre il periodo esoterico di Michele Soavi, che con La chiesa (1989) ha sterzato dal thriller d’esordio e circumnavigato le radici medievali del Male, approdando in prossimità delle sue propaggini contemporanee. Sempre più inabissato nei meandri dell’horror e sempre più coinvolto da Dario Argento – che si è calato negli encomiabili panni di produttore, a beneficio di un progetto di factory inaugurato da Dèmoni (1985) e Dèmoni 2… L’incubo ritorna (1986) di Lamberto Bava, nonché dallo stesso La chiesa, inizialmente e non a caso pensato come Dèmoni 3 – sta lavorando alacremente a Golem, progetto di film sulla creatura antropomorfa narrata da Gustav Meyrink tra il 1913 e il 1914 e trasposta su pellicola da Henrik Galeen e Paul Wegener nel 1915, quando il cinema ancora sondava territori vergini di paura. Nuovamente sotto l’egida produttiva del maestro, l’allievo ha trascorso un anno tra l’Italia e Praga, dove si sono svolti i sopralluoghi preliminari. Poi qualcosa va storto, il progetto s’incaglia e Golem resta lì, sospeso nel limbo dell’incompiutezza di una sceneggiatura in fieri.
Argento, però, ha in serbo qualcos’altro per la sua punta di diamante, cui offre la regia di un copione, scritto con Giovanni Romoli, che in un primo momento avrebbe voluto dirigere in proprio. S’intitola La setta – ma in Giappone lo chiameranno Demons 4, perché una sequenza di terrore in metropolitana, qualche riferimento rock ai Rolling Stones e il sigillo produttivo argentiano possono bastare a chiudere opinabili cerchi filologici – e pare proprio l’ideale per colui che, ormai, ha votato al soprannaturale orrorifico la propria carriera di genere. Soavi accetta, ma lo script viene rimaneggiato per ragioni di budget e perde molta della sua già precaria coerenza. Il giovane regista comprende, allora, che l’operazione da intraprendere può essere una sola, la più argentiana di tutte: piazzare un detonatore alle fondamenta della narrazione, azionarlo e far esplodere la razionalità, a beneficio di un’opera di pura visione. Tra Roma (interni), Francoforte (esterni e ambientazione) e la California (prologo) si compie dunque il trionfo dadaista dell’immaginario soaviano, tra apoteosi delle sue figure portanti – l’acqua, nel finale, si fa strumento di nascita del Demonio (il parto di Miriam), quindi di purificazione (gli idranti dei pompieri, che spengono il fuoco); gli svolazzanti teli bianchi incorniciano una sequenza onirica ovattata e inintelligibile come soltanto gli strati più profondi della psiche – e legami pittorici di magrittiana derivazione sanciti nelle inquadrature sui visi dei Senza volto, coperti da panni bianchi come Gli amanti immortalati con olio su tela dall’artista belga. Al raffinato e anarchico impaginato contribuiscono in modi differenti e complementari tre figure-chiave del cinema popolare italiano appena affacciatosi sugli anni Novanta: il direttore della fotografia Raffaele Mertes sfoggia una palette a colori primi, che nella prima inquadratura (il carrello in pianosequenza sull’acqua che da azzurra diventa rossa, come in un’inquietante e metaforica mistura di tempera) enuncia i criteri di un lavoro di elegante ricerca, condotto tramite lo studio del controluce e dei riflessi cromatici; lo scenografo Massimo Antonello Geleng crea architetture arcaiche da contrapporre alla contemporaneità dell’ambientazione, precipitando l’immaginario in un non-tempo che ha nella cantina-cappella il proprio fulcro e in un’irrealtà che trova nei diorami del coniglio – degni di un miniaturista – lo straniante compimento; l’effettista Sergio Stivaletti, infine, concede al gore sentiti tributi (il volto scarnificato in primo piano) elevandolo ad arte grazie a una perizia materica stordente.
Dal canto suo, Soavi smette i panni del regista e indossa quelli dell’illusionista, del creatore di stupore. Non è un caso che, diegeticamente, si conceda un meta-cameo nei panni di un mago televisivo la cui immagine catodica è proiettata di fronte a un unico, insolito spettatore: il coniglio di casa Kreisl, creatura sospesa tra favola (nera) e realtà. I doveri citazionisti vengono espletati nei primi venti minuti: il padre dei morti viventi è evocato nella sequenza in metropolitana dove il primo piano di Martin Romero (nomen omen) somiglia a quello di uno zombie, mentre l’immancabile Psyco di Alfred Hitchcock (1960) è riproposto nel primo omicidio a Francoforte, in cui le ripetute coltellate, la tenda strappata, il sangue in acqua e il dettaglio della girandola a vento (invece del soffione) rievocano il celebre delitto nella doccia, altresì omaggiato dal nome della vittima – Marion Crane – all’epoca interpretata da Janet Leigh la cui figlia Kelly Curtis, in una mirabile chiusura del cerchio, è protagonista di La setta nei panni di Miriam.
Citazioni a parte, Soavi si dona anima e obiettivo all’orrore narrato attraverso un coerente sguardo endoscopico. La macchina da presa adotta la verticale a piombo come vettore espressivo primario (il campo controcampo sul/dal pozzo, la vasca da bagno in cui Miriam trova apparente riposo), quindi si fa sonda e penetra nei meandri dell’oggetto inquadrato, sia esso animato (la bocca della vittima nel prologo) o inanimato (la scatola di Moebius), precipitando lo spettatore in un’esperienza immersiva che ha nell’istrionica soggettiva impersonale della discesa/risalita attraverso le tubature – dal rubinetto al pozzo infernale e viceversa – un momento di puro abbandono sensoriale. Tra dettagli in Macro e soggettive eterogenee (da quella ansiogena in movimento in metro a quella angosciante e buia per le scale, fino a quella virtuosistica a vortice nel pre-finale) l’allievo segue il solco del maestro senza però rinunciare a imprimere il proprio marchio d’autore, nel momento in cui il dettaglio dell’insetto che penetra nella narice di Miriam apre a una dissolvenza incrociata che, dall’interno-corpo, precipita l’universo convocato in un esterno-bosco onirico. Dal razionale all’irrazionale, dalla realtà all’incubo, dal giallo di un flebile intreccio deduttivo all’horror di un parto demoniaco: La setta è un film-mondo, nel quale confluiscono reminiscenze di una golden age gloriosa e l’attualità di un sistema-genere alla ricerca dell’eccesso, della tracimazione, dello sconfinamento. La lezione di Argento è incorporata, gestita in proprio e restituita con piglio personale. Soavi supera l’esame di maturità ed esce dalla factory, incamminandosi verso un percorso di cadute e risalite. In valigia i ferri del mestiere, che saprà utilizzare su grandi e piccoli schermi, dosandoli e centellinandoli al di fuori della bulimia che il genere, a inizio anni Novanta, chiedeva urlando.
CAST & CREDITS
Regia: Michele Soavi; soggetto: Dario Argento, Giovanni Romoli, Michele Soavi; sceneggiatura: Dario Argento, Giovanni Romoli, Michele Soavi; fotografia: Raffaele Mertes; scenografie: Massimo Antonello Geleng (come M. Antonello Geleng); costumi: Vera Cozzolino; montaggio: Franco Fraticelli; musiche: Pino Donaggio; interpreti: Kelly Curtis (Miriam Kreisl), Herbert Lom (Moebius Kelly), Michel Hans Adatte (Franz Pernath), Tomas Arana (Damon), Carla Carrola (dottoressa Pernath), Mariangela Giordano (Kathryn, come Maria Angela Giordano), Giovanni Lombardo Radice (Martin Romero), Angelika Maria Boeck (Claire Heinz); produzione: Penta Film, A.D.C.; origine: Italia, 1991; durata: 116’; home video: dvd CG Entertainment, Blu-ray Koch Media (import Germania); colonna sonora: Cinevox Records.