Inside the factory. Michele Soavi e le produzioni di Dario Argento
Giovanni ModicaChi segue il cinema horror del nostro Paese si sarà certamente accorto di quanto siano stati peculiari per questo genere gli anni Ottanta. Un periodo in cui il filone ha vissuto una vera trasformazione genetica e ha cominciato a fondere la propria pelle con quella del coevo horror americano, mostrando aspetti sorprendenti sia per il mercato europeo che per quello statunitense. L’horror italiano si fece più estremo in linea con la nuova onda dei film Usa alla Sam Raimi o alla Stuart Gordon, non di rado superandolo in efferatezze e aggiungendoci quel tocco tipicamente europeo che consiste in una maggiore stilizzazione e in vesti fotografiche/ambientali più vicine alla dimensione onirica che alla mera rappresentazione. Laddove Hollywood si accontentava di un buon plot, effetti e buone prove attoriali, Roma no: a tutto questo doveva corrispondere una ricerca estetica ben precisa nel segno della nostra tradizione. Certo che il sardonico humor nero di Raimi non ci apparteneva (poche le eccezioni, come i coevi fulciani Quando Alice ruppe lo specchio [1988] e Un gatto nel cervello [1990], mentre Dellamorte Dellamore avrebbe visto la luce solo nel 1994), esattamente come l’allora ancora viva critica sociale romeriana… Ma forse anche per questi motivi il nostro horror sviluppò connotazioni inconfondibili e conquistò uno zoccolo duro di appassionati nel mondo che lo ritenevano concorrenziale alle immensamente più costose produzioni Usa. Il nostro Paese era stato al passo – con l’inevitabile perdita di alcuni spettatori e il guadagno di altri – con il ricambio generazionale interno a questo genere così mutabile (o “mutante”, per evocare una delle figure che ne erano protagoniste). Non mancò chi in quegli anni Ottanta prese spunto dallo stile italiano per fare film del terrore più “europei”, come William Lustig, responsabile del celeberrimo Maniac (1980), un vero horror senza compromessi commerciali.
Capifila indiscussi di questa tendenza nei film nostrani degli anni Ottanta, non più gotici né particolarmente enigmatici, bensì soprannaturali e sanguinosi, erano indubbiamente il sempre più anarchico Lucio Fulci e soprattutto il popolarissimo Dario Argento, considerato il re dell’horror non italiano bensì europeo. In quel periodo, tuttavia, Argento non voleva tenersi stretto questo titolo da solo, ma creare una “scuola” di grandi autori italiani horror sotto la sua supervisione, e fu così che divenne produttore. C’è da dire che i suoi film da produttore erano molto diversi da quelli che dirigeva. Rispetto a opere quali Inferno (1980) o Phenomena (1985), questi lavori erano molto meno deliranti e più sanguinosi e dinamici, nonché legati alle classiche simbologie della tradizione cristiana, come i demoni con sembianze di caproni, i templi cattolici, le streghe e i riferimenti alle crociate. Trame che affondano negli strati più… “sepolti” (ancora una volta la lingua ci viene in aiuto con termini fortemente evocativi) nella nostra coscienza. A maggior ragione in quella degli spettatori del decennio in questione, che conoscevano meglio di quelli odierni la dottrina cattolica e potevano beneficiare maggiormente di brividi riconducibili ai moniti del catechismo. Una paura, quindi, che nei suoi film da regista Argento non aveva mai direttamente affrontato: in lui il Bene e il Male non avevano un nome preciso, ma erano entità misteriose in eterno contrasto tra loro, con un piede sulla Terra e un altro in una dimensione impossibile da identificare. Inoltre, sia Dèmoni (1985) e Dèmoni 2… L’incubo ritorna (1986) di Lamberto Bava che i successivi La chiesa (1989) e La setta (1991) di Michele Soavi presentavano dialoghi meno fitti, e proprio a questo si deve la loro più veloce carburazione rispetto agli horror più intellettuali diretti dal regista romano convertitosi produttore. Un’altra differenza tra i film diretti da Argento e quelli da lui soltanto prodotti risiede nella mancanza totale in questi ultimi di whodunit: la componente gialla tipica dei suoi film da regista, horror compresi, qui manca del tutto.
Soffermandosi su Soavi, si può individuare in lui l’ultimo esponente dell’horror italiano da esportazione di massa; non sono pochi, infatti, quelli che nel mondo reputano il già citato Dellamorte Dellamore l’ultimo vero grande horror italiano. Un film, questo, con un’insolita vena grottesca dovuta, più che all’esempio di Raimi, alla sua parziale derivazione dal popolare fumetto Dylan Dog; nonché un film che, pur con il suo sapore ibrido e tardoadolescenziale, è una vera festa per gli occhi, date le immagini smaglianti e le riprese altamente spettacolari che nessuno sapeva realizzare come Soavi. Già: perché il talento visivo e tecnico del regista faceva e fa storia a sé. Il matrimonio ideale tra perfezionismo argentiano ed energia d’oltreoceano cui abbiamo fatto cenno è evidente persino nelle sue abituali escursioni in altri generi, come nel caso del televisivo Uno bianca (2001) e del noir Arrivederci amore, ciao (2006) tratto dal romanzo di Massimo Carlotto… due capolavori.
Ma torniamo indietro per un attimo e andiamo direttamente al suo esordio: la sua opera prima in senso assoluto fu il celebre documentario Il mondo dell’orrore di Dario Argento (1985), imprescindibile per ogni vero fan del maestro romano. Crediamo valga la pena di raccontare come avvenne il primo incontro tra il giovanissimo Soavi e il maestro Argento, e per non sbagliare ci avvarremo della testimonianza diretta di Angelo Jacono, direttore di produzione dei film di Argento dai tempi di Il gatto a nove code (1971) fino a Phenomena. Essendo Phenomena uscito nel 1985, Jacono fece in tempo a vedere solo i primi passi di Soavi a fianco del maestro, ma ne ha un ricordo molto vivido: «All’epoca di Tenebre (1982) mi si presentò questo ragazzo che desiderava essere di aiuto a Dario Argento, anche come semplice assistente. Devo dire che mi sembrò la persona adatta da presentare a Dario e suggerire come assistente. Quindi gliene parlai e lui mi diede il via libera. Michele mi disse: “Guardi, io vengo anche gratis”, al che io risposi: “No, questo non è possibile, perché c’è bisogno di coperture sindacali e assicurative. Magari metto la paga minima, ma regolare”. E così Michele è entrato nel nostro sistema, il “sistema Dario Argento”. Perché lui voleva stare a fianco di Dario Argento. Non è che se gli avessi proposto un altro regista lui avrebbe accettato pur di fare qualcosa nel cinema, no! Lui voleva solo Dario Argento!». Alla nostra domanda su quando arrivò a profilarsi l’idea di un film di Soavi prodotto da Argento, Jacono ci risponde: «Beh, quasi tutto successe quando io me ne andai. Innanzitutto, Dario in quel periodo era molto impegnato con Lamberto Bava, poiché era lui il suo primo aiuto regista. Michele faceva, come detto, l’assistente. Quando feci con Dario Phenomena (l’ultimo film che girammo insieme), Michele era diventato il primo aiuto regista, poiché Bava non c’era più. Qui finiscono i miei ricordi diretti, ma seppi che fece tutti i suoi passi professionali con Dario, finché arrivò a farsi produrre La chiesa. Poi c’è un particolare che voglio raccontare direttamente a Michele quando lo vedrò (tu pensa che la prima volta che ci ho parlato dopo quarant’anni è stato… un mese fa [ride, nda], mentre stava girando nel Trentino qualcosa per la televisione). Posso solo dirti che io ebbi il merito di avere fiuto. Poi scoprii con sorpresa che era molto benestante dal momento che apparteneva alla famiglia Olivetti e abitava in una villa sull’Appia Antica, zona molto esclusiva. Stava con l’attrice Barbara Cupisti, che veniva spesso a trovarlo quando era sul set. Dicevo, ebbi fiuto… Infatti come produttore esecutivo mi capitava spesso di essere avvicinato da gente che voleva entrare nella troupe di Argento, ma che spesso non era adatta. Mi è capitato sia di accettare che di rifiutare, e tra coloro che accettai ci fu Sergio Stivaletti, che si presentò proprio a me sul set di Phenomena! Invece mi ricordo bene che quindici giorni prima di lui arrivarono due fratelli di Viterbo che volevano fare gli effetti speciali per Dario, e non mi piacquero perché troppo presuntuosi. Ah, dimenticavo di citare Luigi Cozzi! Anche lui fu uno dei personaggi che mi si presentarono: fu durante la lavorazione di Il gatto a nove code, al Teatro 2 di Cinecittà. Mi fermò mentre giravo lì intorno e mi chiese se poteva parlare con Dario. Lui, però, fu un caso un po’ diverso dato che mi si presentò come giornalista che voleva fare un’intervista per il suo giornale [si trattava di «Ciao 2001», nda]. E glielo presentai. Sia chiaro che non voglio prendermi dei meriti che non ho: come detto, avevo fiuto, ma alla fine era Dario che decideva se collaborare o meno con chi gli sottoponevo. Per me era anche un piacere conoscere e presentare queste persone amanti del cinema così come lo ero io. Sul primo film di Soavi prodotto da Dario, ovvero La chiesa, ho un aneddoto: andai con Claudio Argento a Parigi, a casa di Alejandro Jodorowsky, perché dovevamo fare Santa sangre (1989). Lì conoscemmo il regista e produttore José Giovanni, che voleva co-produrre con noi il film di Jodorowsky (anche se poi si sarebbe ritirato dal progetto). Quando andammo a casa sua, subito dopo aver salito le scale vidi sulla destra, dietro la sua scrivania, un poster gigantesco di La chiesa. Gli dicemmo che quel film l’aveva prodotto Dario e diretto Soavi e lui commentò in italiano, con enfasi: “Ah, questo è un grande regista, ha fatto il più bel film che abbia mai visto!”. Ecco, questo episodio non lo conosce ancora nessuno: è la prima volta in assoluto che lo racconto, e alla prossima occasione in cui rivedrò Soavi glielo voglio narrare di persona. Cos’altro potrei aggiungere su Michele? Forse soltanto che ho fatto con lui gli ultimi due film di Dario ai quali ho collaborato, Tenebre e Phenomena. Fu esemplare per professionismo e dedizione. E sono felice che oggi sia riuscito a diventare anche lui un nome nel cinema italiano».
Per dovere di completezza, puntualizziamo che il primo lungometraggio di Michele Soavi non vide la collaborazione del team argentiano. Si tratta del thriller claustrofobico Deliria (titolo in linea con la moda argentiana di allora), del 1987 e quindi nel pieno del periodo in cui il giovane lavorava come assistente sia per Argento con Phenomena sia per Bava con Dèmoni, entrambi datati 1985. La sua attività di aiuto regista, infatti, iniziò con Dario ma proseguì parallelamente anche con Lamberto, con il quale lavorò sui set del giallo La casa con la scala nel buio (1983) e del thriller Blastfighter (1984). Subito dopo Dèmoni e Phenomena, fu di nuovo su un set di Argento per il giallo Opera (1987) – nel quale ricoprì la mansione di regista della seconda unità e interpretò il piccolo ruolo del poliziotto Daniele Soave – e poi toccò alle produzioni a cura di Dario stesso, con La chiesa e La setta. In entrambi questi lavori, cruciali per la sua carriera di regista, Michele si ritagliò dei piccoli ruoli: poliziotto nel primo e mago televisivo nel secondo. Di La chiesa, universalmente considerato una gemma dell’epoca, Argento fu anche coautore della sceneggiatura. Inizialmente il film doveva essere il terzo episodio della saga di Dèmoni, girata fino al secondo capitolo da Lamberto Bava, tant’è vero che nella grafica del titolo, in corrispondenza della lettera “C”, è chiaramente raffigurata la maschera diabolica protagonista dei due film precedenti. Tuttavia, ben presto si decise di modificare l’inizio della storia per svincolarla da ogni ideale consequenzialità con il dittico baviano. Un apocrifo Dèmoni 3 venne girato nello stesso anno da Umberto Lenzi. Oggi Soavi racconta della totale libertà che gli concedeva ogni volta Dario Argento, e manifesta un pizzico di rammarico solo per il fatto che, per esigenze distributive, nei poster del film il suo nome sia stato scritto molto in piccolo, sovrastato dall’enorme scritta «Dario Argento presenta»: questo particolare, a suo dire, indusse molte persone a credere che i due film fossero stati girati da Argento stesso.
Ma ora è giunto il momento di rispondere alla fatidica domanda che siamo certi stia balenando nella testa dei nostri lettori fin dalle prime righe di questo articolo: quando di preciso, e soprattutto perché, si interruppe la collaborazione tra Soavi e Argento? Come mai s’infranse il sogno di una factory argentiana? Di una cosa siamo certi fin dal principio: contrariamente a quanto da sempre avviene in una grossa fetta delle collaborazioni artistiche, non ci fu alcun dissidio tra i due registi, né sotto il profilo personale né sotto quello professionale. Semplicemente, erano cambiati i tempi e le nuove circostanze esigevano modifiche sostanziali. Ce lo conferma Luigi Cozzi che, nel periodo di questa – assolutamente consensuale – separazione, era vicino sia ad Argento che a Soavi (ormai anch’egli stella del cinema): «In realtà, la collaborazione tra Dario e Michele non si è mai interrotta in modo serio né ad oggi può dirsi davvero finita. Semplicemente, dopo La setta e Trauma (1993), la società di Dario venne chiusa e quindi per un certo periodo lì non ci fu più lavoro per nessuno. Motivo per cui Michele, per proseguire nella sua carriera, al pari di tutti gli altri collaboratori principali di Dario dovette rivolgersi ad altre produzioni. Quando, anni dopo, e più precisamente dopo il film La sindrome di Stendhal (1996), Dario riprese a fare da produttore, portò a termine solo il progetto di M.D.C. Maschera di cera (1997), dal momento che subito dopo sciolse anche la nuova società per aprirne un’altra insieme al fratello Claudio, ma con una importante differenza rispetto alle precedenti: il fine era quello di realizzare esclusivamente film propri e non più per altri registi. Anche se non si presentò più l’occasione di tornare a lavorare con Michele, i due sono sempre rimasti in ottimi rapporti e ancora oggi, se mai ce ne fosse l’opportunità, sarebbero lieti di collaborare».