
Nella seconda metà del XVIII secolo, il naturalista inglese Gilbert White si dedicò allo studio degli animali notturni e in special modo del barbagianni, da sempre considerato un uccello del malaugurio, indifferente al mondo umano, capace di muoversi nel buio in perfetto silenzio. Succede, poi, che gridi improvvisamente, specialmente i maschi quando sono a caccia di prede femminili. L’identikit di un moderno serial killer, insomma. Anche in Deliria (1987) il maniaco con la maschera da barbagianni spunta dal buio, strappando e trafiggendo in silenzio, in un volo notturno folle e libero.
Quando si pensa a Deliria torna alla mente la scena di La morte corre sul fiume (1955) nella quale la vecchia Rachel Cooper, in attesa che il mefistofelico Harry Powell venga a farle visita, vede un barbagianni mirare famelico a un coniglio. Non vediamo l’azione ma sentiamo lo stridulo rantolo dell’animaletto e questo è sufficiente per farci intuire il pericolo. Quando si pensa a Deliria si avverte la stessa sensazione e non si può che confermare ciò che si pensò la prima volta che si inserì nel videoregistratore la vecchia vhs Avo Film dal box rosso sangue: l’esordio di Michele Soavi è uno dei migliori film degli anni Ottanta. Come il volo del barbagianni, Deliria è un’opera libera, conturbante, lontana dal perbenismo e dalla pochezza cinematografica degli esordi dell’epoca.
Vaghi rumori di strada e i lamenti di un gatto accompagnano l’inquieta marcia di una prostituta dalle scarpe d’argento che consuma il marciapiede. Ha ciglia finte, labbra troppo rosse e una cuffia di piume bianche (false) che la fa sembrare un cigno sudicio. Una piuma (vera?) cade dall’alto. Due mani escono dal buio e afferrano la ragazza. Parte la musica, serrata, la macchina da presa si abbassa aizzando un grandangolo spinto, i corpi cominciano a ballare in controluce e a toccare il cigno dal collo spezzato come fosse una reliquia santa. L’assassino esce dal suo nascondiglio con un salto da acrobata e una terrificante testa di barbagianni indosso. Mentre i personaggi danzano, qualcuno fa volare in aria un pupazzo che ha le fattezze della prostituta morta. Ma non è un pupazzo e lei e non è morta; si rialza e cerca di sedurre il suo assassino; il sassofono a tutto volume suonato da una Marilyn un po’ tonta, il ballo, la violenza, il sesso. Solo ora vediamo il palco, colorato e bidimensionale come un acquario. Horror Music è il titolo del musical off-off-Broadway che un gruppo di disperati sta provando in un teatro isolato e frustato dalla pioggia. «Stooop! Fate schifo!», grida il regista gettando il copione… come da copione. Un regista arty devastato (uno splendido David Brandon che pare si sia ispirato a Lindsay Kemp, dal quale fu diretto nel celebre spettacolo Flowers), la primadonna licenziata perché incapace di essere sensuale (una potente Barbara Cupisti, che avrebbe diviso un po’ di vita e di film con Soavi), la seconda attrice gelosa e più erotizzante (Mary Sellers, habitué della factory Filmirage), una chiave che non si trova, la pioggia più forte che in un Old Dark House film, un assassino reale che si sostituisce a quello fittizio e ha tutta l’intenzione di provinare il cast a modo suo. In questo prologo spiazzante, continuo rincorrersi tra finzione e realtà cadenzato dal ritmo da videoclip alla Russell Mulcahy, c’è già tutto il film.
Deliria è un gioco di specchi riflettenti, una galleria di macro-scene composte da forsennati montaggi alternati, di oggetti ingranditi (la chiave perduta, la testa del barbagianni), di tagli in asse drammaticissimi in puro stile hitchockiano. Questa idea di cinema libero ed estremo ma perfettamente pianificato in tutti i dettagli non deve stupire. Soavi ha sempre lavorato davanti e dietro la macchina da presa, dentro e fuori dal palco e conosce nevrosi e dettami del mestiere. Come attore ha collezionato poche battute e alcune morti spettacolari. Come aiuto regista ha imparato da pilastri come Aristide Massaccesi, Lamberto Bava e Dario Argento, sorta di padre putativo con il quale tornerà a lavorare per Opera (1987) subito dopo aver girato Deliria. E in effetti i due film appaiono idealmente legati: sono entrambi calati nell’atmosfera affascinante e nevrotica del teatro (che costituisce una sorta di acquario – Aquarius, del resto, era il titolo originale della pellicola di Soavi, sostituito all’ultimo da Luciano Martino con uno più argentiano), entrambi attraversati dalla musica che funge da chiave di lettura (l’elettronica un po’ risaputa di Simon Boswell per Soavi, un complicato arabesco di lirica e heavy metal per Argento), entrambi poggiano su protagoniste umiliate, costrette ad assistere alla morte di chi le circonda.
Deliria è un gioco di specchi che riflettono un cinema moderno, ma attento a codici visuali eterogenei. Non stupisce che il regista sia figlio di Giorgio Soavi, scrittore e curatore della storica rivista politico-culturale «Comunità»: Michele cresce nel pieno di una stimolante stagione di incontri e scambi culturali, venendone ispirato e plasmato. Lo si percepisce nel gusto pittorico e nell’architettura della messa in scena, per esempio nel momento del film in cui l’assassino ordina i cadaveri sul palcoscenico, in una grottesca chiamata agli applausi finali. In un colpo solo, Soavi omaggia Mario Bava – il finale di Lisa e il diavolo (1973) – e il mentore Massaccesi – il sogno cannibalico di Emanuelle e Françoise (Le sorelline), del 1975 – e allo stesso tempo dimostra di saper attingere all’arte in modo personale. L’assassino con la testa di barbagianni, infatti, si presenta come una rielaborazione del dipinto La vestizione della sposa (1939-1940) di Max Ernst. Occhi minacciosi, testa disgustosa infilata in un corpo atletico, evidente simbolo fallico, piume che richiamano l’uovo come origine del bene e del male. Come per Ernst, anche in Soavi l’immagine genera il sogno, si affida a esso e ne viene travolta utilizzandolo come strumento di ricerca e approfondimento sul mondo.
«Uccidila!», grida il regista a quello che crede essere l’attore che impersona il killer nel musical. La ragazza è già sul letto, pronta a inscenare la propria morte secondo il metodo Stanislavksij. In realtà, sotto la maschera da barbagianni pulsano già i lobi malati del cervello del pazzo. «Uccidila, cosa aspetti!?», e lui non se lo fa dire due volte. Deflora, scompone, taglia in due, forse tentando di separare il vero dal falso e capirne la differenza. O forse è soltanto la sua natura. Una forza silenziosa e violentissima, un senza nome e un senza faccia come Michael Myers: puro male, senza tante spiegazioni. La sceneggiatura di Luigi Montefiori, in fondo, non le dà e non le cerca; Deliria, poi, non è un certo un film di scrittura, ma di pure immagini, che si riflettono tra loro confondendo sogno e realtà, che vengono strappate, estirpate, violentate.
CAST & CREDITS
Regia: Michele Soavi (come Michael Soavi); soggetto: Luigi Montefiori (come Lew Cooper); sceneggiatura: Luigi Montefiori (come Lew Cooper), Sheila Goldberg (dialoghi); fotografia: Renato Tafuri; costumi: Valentina Di Palma; montaggio: Kathleen Stratton; musiche: Simon Boswell; interpreti: Barbara Cupisti (Alicia Alvarèz), David Brandon (Peter Collins), Mary Sellers (Laurel), Jo Ann Smith (Sybil, come Jo Anne Smith), Robert Gligorov (Danny), Martin Philips (Mark), Loredana Parrella (Corinne, come Lori Parrel), Giovanni Lombardo Radice (Brett, come John Morghen); produzione: Filmirage; origine: Italia, 1987; durata: 89’; home video: dvd Mondo Home Entertainment, Blu-ray 84 Entertainment (import, Germania); colonna sonora: Lucertiola Media (import, Germania).