Già nell’antica Roma, il numero 17 era considerato un presagio di sfortuna e mala sorte. Si trattava di una cifra strettamente legata alla fine dell’esistenza terrena poiché, sulle tombe dei defunti, spesso vi era incisa la parola VIXI che, letteralmente, si traduce con “Io vissi”, ovvero “Sono morto”. Anagrammando le quattro lettere in questione, possiamo facilmente trovare il numero incriminato, ovviamente scritto con i caratteri romani: XVII.
A cinque anni di distanza dall’esordio cinematografico Zora la vampira (2000), i Manetti Bros. si cimentano nuovamente alla regia di un progetto pensato per il grande schermo, partendo proprio dalla superstizione numerologica di cui sopra e provando a dare forma a un film teso a celebrare una rinascita. Piano 17 è infatti un lavoro funebre, una sorta di pietra tombale che raccoglie sotto la sua effigie decine di cadaveri (letterali o simbolici) in cerca di una nuova vita, di un riscatto.
Marco Mancini è un portatore di morte. Un criminale gentiluomo che per una serie di sfortunati eventi si ritrova a dover introdurre una bomba a orologeria per l’intero diciassettesimo piano di un palazzo aziendale. Per lui, la missione sarà l’occasione per fare i conti con i propri fantasmi e tentare di fare luce su un torbido passato dal quale non riesce ad affrancarsi. Lo stesso destino sembra in sorte anche ai due personaggi che, con il protagonista e la sua bomba, condividono l’ascensore in cui rimangono accidentalmente (?) bloccati. Il primo è un impiegato timido e impacciato, schiavo delle costrizioni del suo superiore e troppo timoroso per alzare la testa o farsi rispettare come dovrebbe. La seconda è invece una donna in carriera altezzosa, che cerca di mostrarsi spinosa e fiera per nascondere una forte debolezza interiore e un complesso di inferiorità nei confronti di chi la circonda.
I Manetti riescono a far dialogare sapientemente forma e contenuto, ricamando su una trama semplice – ma poco lineare – l’intreccio di una narrazione vivace e ritmata, costantemente finalizzata a rimarcare il tema portante del progetto. L’ascensore che i tre si trovano malauguratamente ad abitare diventa così il cuore di una missione ben più ardua di un “semplice” attentato: l’inizio di un riscatto. L’intera vicenda ruota infatti intorno a quel non-luogo sospeso nel vuoto, al centro di un palazzo labirintico e disorientante. Una metafora perfetta dell’impervio percorso che i personaggi devono compiere per riuscire ad andare oltre i propri limiti, oltre loro stessi, oltre la morte. L’ascensore è un antro nascosto nelle profondità della struttura e isolato dal resto dell’edificio. Si tratta della parte più intima e segreta della personalità, quella libera dai pregiudizi altrui, dove potersi tranquillamente guardare allo specchio (ri)scoprendosi vivi. La vita è una sola e merita di essere vissuta al meglio o, per lo meno, senza rimpianti. Eppure il tempo scorre per tutti e non si ferma. Una volta innescata la bomba (narrativa o simbolica che sia), il conto alla rovescia si fa sempre più spietato e concreto.
Piano 17 è uno tra i film più divertenti, cinematograficamente parlando, dei Manetti. Un thriller ad alta tensione che catapulta lo spettatore al centro della vicenda facendo combaciare in modo quasi perfetto il tempo della narrazione e quello dell’intreccio (da quando il timer dell’ordigno viene attivato a quando questo effettivamente esplode passano proprio 90 minuti, gli stessi del film), disorientando il suo sguardo con un racconto a incastro ben oliato e privo di sbavature, mirato a restituire la labirintica forma del palazzo – dove i personaggi si perdono a più riprese – senza mai perdere il controllo sulla materia nel suo insieme. Tutti i nodi vengono al pettine, ogni svolta trova la giusta collocazione grazie a uno script funzionale e geometrico, ingranaggio avvincente e senza freni proprio come la bomba a orologeria che ne segmenta i gangli. I Manetti insistono su una regia claustrofobica e angusta non solo durante le riprese all’interno dell’ascensore, ma anche lungo il resto del metraggio. Costruiscono una gabbia dalla quale scappare, per tornare a respirare.
Ecco allora che Piano 17 vuole anche a celebrare il nuovo sbocciare non solo dei suoi protagonisti, non solo dei suoi autori (il loro esordio non era stato ben accolto dalla critica), ma del cinema di genere tout court. In anni in cui l’industria nazionale sembra volere celebrare il funerale di certi prodotti per puntare tutto su canoni diversi e antipodali, i Bros. provano a fare i conti con una corrente cinematografica in via d’estinzione della quale, però, sono perdutamente innamorati. Per continuare a venerarla e alimentarla hanno tuttavia bisogno di uno spartiacque netto. Forse è vero che i tempi sono cambiati e il gusto popolare ha mutato le proprie attenzioni, ma è altrettanto vero che il cinema è sempre (stato) in continua. Nulla muore per sempre, semplicemente cambia connotati. Virare lo sguardo, rassegnarsi al progresso e abbracciarlo con positivo entusiasmo è la vera sfida. La tradizione è mortifera, la novità è rinascita.
Sfruttando alcuni volti noti ai più (come Valerio Mastandrea e Massimo Ghini, rispettivamente presenti in un cameo e un ruolo secondario), omaggiando alcuni tra i più grandi maestri bis del passato (Enzo G. Castellari si presta a una piccola comparsata) e del presente (Quentin Tarantino non viene citato esplicitamente, ma sono molti i momenti che lo ricordano, dalla scomposizione cronologica del racconto alla sequenza dell’arrivo in ascensore di Violetta Grimaldi, che richiama quasi letteralmente l’ingresso in scena di Elle Driver in Kill Bill: Volume 1 [2003]) e intrecciando senza timore il proprio percorso con universi simili ma autonomi quali, per esempio, la musica pop (significativa, a tal proposito, la presenza in chiusura del brano Quello che capita di Max Pezzali, cantante con cui i registi avevano già collaborato per la realizzazione di alcuni videoclip) o la televisione (Giampaolo Morelli, qui anche sceneggiatore, interpreta l’ispettore Coliandro dell’omonima serie diretta proprio dai Bros.), Piano 17 si presenta come il primo tassello di un deciso rinnovamento che condurrà i due autori verso un viaggio poliedrico, in grado di abbracciare molteplici generi (dalla fantascienza al musical) e farli approdare a nuovi lidi, sino al memorabile traguardo del concorso alla Mostra del Cinema di Venezia con Ammore e malavita. Era il 2017. Coincidenze?
CAST & CREDITS
Regia: Manetti Bros.; soggetto: Marco Manetti; sceneggiatura: Manetti Bros., Giampaolo Morelli, Anatole Pierre, Fuksas; fotografia: Fabio Amadei; scenografia: Cinzia Del Negro; costumi: Cinzia Lucchetti; montaggio: Federico Maria Maneschi (come Federico Maneschi); musiche: Aldo De Scalzi, Pivio; interpreti: Giampaolo Morelli (Marco Mancini), Elisabetta Rocchetti (Violetta), Giuseppe Saccà (Meroni, come Giuseppe Soleri), Enrico Silvestrin (Luca Pittana), Antonino Iuorio (Giovanni Borgia), Massimo Ghini (Matteo Mancini), Enzo G. Castellari (guardia giurata in banca), Valerio Mastandrea (venditore ambulante); produzione: Gamp Produzioni; origine: Italia, 2005; durata: 85’; home video: Blu-ray Mondo Home Entertainment, dvd Mondo Home Entertainment; colonna sonora: I dischi dell’Espleta.