Non è certo un caso che la lezione seguita da uno svogliato Simone, concentrato più sulle sue pene d’amore che sulla carriera scolastica, verta su Mario Bava. I Manetti Bros. amano l’horror artigianale e, pur visitando raramente il genere, non nascondono i propri maestri. Non fa eccezione Paura, thriller i cui autori si divertono a rivisitare alla loro maniera alcuni topoi della tradizione omaggiando Bava (padre e figlio), Dario Argento e Lucio Fulci. Da buoni iconoclasti, però, non si uniformano ai modelli e optano per l’ibridazione attingendo a quel melting pot fatto di b-movie, serie tv, fumetti e musica rap che fa parte del loro background. Il risultato è un prodotto atipico, giocato più sulla suspense che sul gore nonostante il contributo del mago degli effetti speciali Sergio Stivaletti.
Così, se Paura si apre introducendo lo spettatore nella location principale della storia – una meravigliosa villa alle porte di Roma le cui segrete, degne del miglior Edgar Allan Poe, celano orrori indicibili – i Manetti si concedono il lusso di dedicare due lunghe sequenze all’esplorazione della periferia romana in versione diurna e notturna, valorizzandone il traffico, le luci e i palazzoni in cemento a ritmo di rap. Lo stile sincopato di questi frammenti, riproposto anni dopo in una tra le sequenze musicali più esilaranti di Ammore e malavita (2017), ricorda più un videoclip di Piotta che un thriller gotico, ma i Bros. ci tengono a restare fedeli al loro immaginario. I registi procrastinano l’inizio del plot orrorifico vero e proprio, concedendosi perfino qualche divagazione nella vita dei tre protagonisti: l’introspettivo Simone, studente demotivato; il meccanico Ale, sfrontato e sicuro di sé; il chitarrista rock Marco, la cui passione dà il là a un gustoso cameo di Marco Manetti nel ruolo del puntiglioso gestore di una sala prove.
Come Martin Scorsese, Quentin Tarantino o i più attigui (per spirito, generi e budget) Sergio Martino e Umberto Lenzi, anche i Bros. hanno costruito, negli anni, un parco attori a cui attingono alla bisogna per i loro progetti; e se Paolo Sassanelli (il ridanciano Gamberini di L’ispettore Coliandro) compare nel ruolo di un capo-officina poco coscienzioso, sul set scocca il colpo di fulmine tra i fratelli romani e Peppe Servillo, trasformato in un sadico orco celato sotto le fattezze di un ricco e solitario marchese. E L’ombra dell’orco è proprio il titolo scelto inizialmente dai Manetti che, in corso d’opera, optano per il più diretto Paura. Servillo mette a frutto il mobilissimo volto da guascone napoletano e l’innata teatralità nel ruolo di Lanzi, che consegna la sua auto sportiva nell’officina in cui lavora Ale per recarsi a un weekend con raduno di auto d’epoca in Svizzera. Dopo avere preso in prestito l’auto per fare un giro con gli amici, Ale scova le chiavi della villa nel cruscotto e convince Marco e Simone a trascorrere il fine settimana nella magione all’insaputa del proprietario che, però, a causa di un guasto, fa ritorno a casa prima del previsto.
«Per produrre suspense, nella sua forma più comune, è indispensabile che il pubblico sia perfettamente informato di tutti gli elementi in gioco», asseriva Alfred Hitchcock. I Manetti scelgono di aderire a questa regola omaggiando il maestro inglese del thriller non solo nella costruzione delle sequenze (le inquadrature sghembe a segnalare il pericolo imminente in fondo alle scale, i contre-plongées nell’abitazione) e nel montaggio, ma anche nell’adesione a una concezione voyeuristica dello sguardo narrante. Pur informando lo spettatore di ciò che accade nei vari spazi della villa (giocati sulle dicotomie interno/esterno o alto/basso), i registi aderiscono al punto di vista privilegiato di Simone, il più irrequieto tra i tre amici, ma anche agente scatenante dell’orrore. Curiosando in cantina, Simone scopre infatti l’esistenza di Sabrina, giovane donna tenuta in catene dal marchese. La pulsione voyeuristica spinge il giovane a sbirciare dalla feritoia che lo separa dalla ragazza; lei stessa, in un assaggio di ciò che avverrà, punisce la sua curiosità sferrandogli una forbiciata sotto l’occhio. Non è un caso che Simone, pronto a mettere a repentaglio la sua stessa vita per salvare Sabrina, sia anche il più sensibile al fascino femminile e l’unico, almeno in apparenza, afflitto da pene d’amore.
Gli autori, che ben conoscono il potere della visione e ne comprendono la pericolosità, giocano con il topos concedendosi perfino una sequenza in cui Lanzi depila con un rasoio il pube di Sabrina, nuda e incatenata, mentre Simone spia la scena dal buco nella parete. Poco dopo il giovane sarà punito, ritrovandosi in catene a fianco della giovane, seviziato dal sadico villain.
Nei cunicoli segreti dello scantinato in cui Sabrina è segregata si consuma l’orrore, e i Manetti calcano la mano concedendosi tre o quattro sequenze decisamente splatter che strizzano l’occhio a Hostel (2005) e ad altri torture porn, ma tra un brivido e l’altro la dimensione da fiaba nera che avvolge il film non viene mai meno. Basti pensare all’inseguimento nel bosco o alle sequenze notturne, veri e propri incubi a occhi aperti in cui le ombre che si allungano nei corridoi sembrano prendere vita, caricando con un surplus di tensione una situazione di per sé già terrificante. Ed ecco che i Manetti tornano ad attingere ad atmosfere esplicitamente argentiane, visto che le pulsioni violente alla base del cinema del maestro dell’orrore spesso e volentieri affondano le radici in un’infanzia deviata e mostruosa, al centro di favole notturne che turbano il sonno più che conciliarlo. Così il titolo originale, L’ombra dell’orco, torna ad acquistare senso nell’incipit da tregenda condito con voice over alla “C’era una volta…” e nei titoli di testa animati, realizzati dal pittore Sergio Gazzo, in cui le immagini stilizzate di una bambina che gioca a pallone lasciano spazio a un viso stravolto dal terrore – minacciato da lupi, gufi e orchi in carne e ossa – riportando alla mente classici come Phenomena (1985) o Suspiria (1977).
L’omaggio alla tradizione va di pari passo con la voglia di Marco e Antonio Manetti di immergere il genere nell’universo da cui provengono. Grazie alla complicità con Pivio, loro fedele collaboratore, la colonna sonora diviene terreno fertile per questo scontro tra culture: le orchestrazioni tipiche del thriller lasciano spazio al black metal (altro vezzo argentiano), ma soprattuto al rap con il contributo di Chef Ragoo e Danno dei Colle der Fomento, i cui versi dell’inno nichilista Nessuno ce la fa si sposano perfettamente con lo squallore di uno spaccato sociale suburbano, preconizzando la sorte dei protagonisti.
CAST & CREDITS
Regia: Manetti Bros.; soggetto: Manetti Bros.; sceneggiatura: Manetti Bros., Giampiero Rigosi, Michele Cogo; fotografia: Gian Filippo Corticelli (come Gianfilippo Corticelli); scenografia: Noemi Marchica; costumi: Patrizia Mazzon, Ginevra De Carolis; montaggio: Federico Maria Maneschi (come Federico Maneschi); musiche: Pivio; interpreti: Micaela Ramazzotti (Zora), Toni Bertorelli (Dracula), Raffaele Vannoli (servo, come Lele Vannoli), Chef Ragoo (Zombie), G Max (Lama), Carlo Verdone (commissario Lombardi), Ivo Garrani (il prete), Tormento (Cianuro), Marco Manetti (Bue), Selen (vampira), Valerio Mastandrea (Nicola Speranza); produzione: Dania Film, Manetti Bros., Pepito Produzioni; origine: Italia, 2012; durata: 108’; home video: Blu-ray inedito, dvd Warner Bros.; colonna sonora: I dischi dell’Espleta.