Nati con la macchina da presa. Intervista a Marco Manetti
Claudio BartoliniUno, che vale doppio: Antonio e Marco Manetti sono una creatura artistica sola, quindi parlare con Marco è anche un po’ parlare con Antonio. Perché dove c’è l’uno, nella stragrande maggioranza dei casi, c’è anche l’altro.
Comincerei letteralmente dall’inizio, dal momento in cui tu e Antonio vi siete avvicinati al cinema come spettatori.
Noi siamo spettatori da sempre, nel senso che veniamo da una famiglia di cinefili, sebbene non in modo maniacale: nostro padre è un pittore, è più interessato all’arte, ma anche con mia madre a casa nostra c’era tanto cinema. Siamo sempre stati appassionati di cinema. Poi, crescendo, sono arrivate le nostre inclinazioni personali. Siamo partiti con molti classici, molto Hitchcock, il regista che ci ha segnato di più. Lo amavano i nostri, nostra madre soprattutto. In cameretta, seduti davanti al televisore, guardavamo un sacco di film. Negli anni Ottanta hanno cominciato a emergere i nostri gusti.
E quali erano?
Storicamente siamo sempre stati più che altro appassionati di cinema americano. Più avanti, negli anni Novanta, ci siamo interessati a quello asiatico. Ecco, sono questi i due ambiti che ci piacciono. Poi, sì, il cinema di intrattenimento, fantasy, non troppo realistico… Non so che termine usare, perché non voglio dire “cinema di genere”.
Popolare?
Diciamo popolare, però con varie accezioni. Perché poi c’è una passione – per esempio, per la fantascienza – che coinvolge anche titoli meno popolari. Il taglio è dato dall’intrattenimento. Anche angosciante, ma intrattenimento. E in prossimità degli anni Ottanta i primi film che ricordo – personali, che sceglievamo noi e non arrivavano dai nostri genitori – sono Rocky (1976), La febbre del sabato sera (1977), Grease (1978), I guerrieri della notte (1979).
Non mi hai nominato Callaghan. Strano…
Be’ certo, pure Callaghan ovviamente. Callaghan è un po’ una via di mezzo, perché è un po’ più vecchio di noi e quindi – pur essendo un tipo di cinema che non piaceva ai genitori – apparteneva più a un mondo di riferimento per i nostri. Per quello non te l’ho citato. Quelli che ti ho citato erano proprio i film di cui ai nostri non fregava un cazzo!
E poi cosa succede?
Succede che noi l’idea di fare cinema ce l’abbiamo sempre avuta. Io soprattutto. Giravamo cortometraggi, con le mie telecamere, quando stavamo nella nostra cameretta. C’è questo famoso corto – famoso perché lo citiamo spesso in quanto unico davvero completato, anche se ora non si trova più – tratto da un racconto di Conan Doyle che stava pubblicato su un’agenda. Un racconto di due pagine, intitolato Come Watson scoprì il trucco. Girammo in campo e controcampo, io facevo il cameraman e mio fratello interpretava sia Holmes sia Watson: invertivamo le nostre inclinazioni, perché poi Antonio è diventato più operatore mentre io sono più vicino agli attori.
Questo è il nostro primo cortometraggio, noi ci sentiamo registi da sempre. In seguito abbiamo fatto due corti più “grandi”: uno io e uno Antonio. Il mio si chiama Passaparola (1994), mentre il suo – realizzato insieme a un altro regista, Alessandro Trapani – si intitola Nido verde (1994). Il mio è una storia intima, una commedia sul rapporto di coppia, il suo è invece una specie di horror, un piccolo zombie movie. Inizialmente non pensavamo di fare le cose insieme. Poi io, che facevo l’aiuto-regista, sono tornato a Roma da un viaggio. Antonio aveva scritto un corto e io conoscevo un produttore che stava mettendo in lavorazione proprio dei cortometraggi. Così gli ho detto: «Antonio, perché non lo facciamo insieme?» E lì è nata la prima opera dei Manetti Bros.
Consegna a domicilio?
È Consegna a domicilio, sì, poi entrato in DeGenerazione (1994).
De Generazione, un omnibus realizzato da tanti giovani promettenti e poi – chi prima, chi dopo – persi di vista. Cos’è rimasto, secondo te, di quella (de)generazione?
Quella è stata una generazione bellissima. Siamo entrati esplosivi nel cinema italiano, che era molto conformista sotto tanti aspetti, e abbiamo portato una rottura. È stato bello frequentarci, condividere quel periodo. Ultimamente è
morto Alessandro Valori – regista di Squeak!, il corto più bello di DeGenerazione, e poi di Radio West (2003) – che era il centro di questa ondata. Si andava sempre in un famoso locale dietro casa sua. In qualche modo, secondo me, abbiamo cambiato il cinema italiano: il cinema di Lo chiamavano Jeeg Robot (2015) non potrebbe esistere senza quella generazione.
E da lì la cavalcata che tutti noi conosciamo. Quello che sorprende, nel vostro percorso, è l’unione di un nucleo di persone che si ritrovano a lavorare sempre insieme. Si può parlare di factory?
Sì, anche se io preferirei usare il termine “gruppo di amici”, nel senso che non c’è un progetto, un nome, un contratto, un’appartenenza. C’è che a noi piace, perché pensiamo che le cose vengano meglio, se si lavora con gli amici. Poi ovviamente, a seconda delle esigenze, con gli attori ogni tanto cambi per forza; però cambi se c’è un motivo. E ugualmente lavoriamo sempre con la stessa troupe, dai capi-reparto ai macchinisti, dagli attrezzisti agli elettricisti e ai
fonici. È un gruppo di persone con cui abbiamo un rapporto di amicizia e lavoriamo insieme, e se c’è qualcosa che non va ci si aggiusta. Possono
esserci temi artistici, organizzativi, scelte del momento che inducono a cambiare, ma noi preferiamo sempre non farlo.
Vedendovi al lavoro sul set di Diabolik (2021) ho notato che, a differenza di molti colleghi, lavorate a stretto contatto con l’attore.
Come impostate il lavoro con gli interpreti?
Non abbiamo un metodo codificato. Probabilmente abbiamo un’idea di partenza del personaggio e del senso della scena; poi cerchiamo di lavorare lì per lì con l’attore, “sentendo” la sua interpretazione, e se c’è qualcosa che non
ci torna sul senso che dà a una frase, sul tipo di emozione che veicola, ci parliamo. Alla fine, forse sì, c’è un metodo: parliamo. Però non più di tanto; siamo molto presenti, questo è vero. Ci lavoriamo assieme, fianco a fianco.
Quindi l’attore, con voi, ha modo di influire sulle decisioni riguardanti il personaggio?
Certo, ci mancherebbe, sì.
Be’, non sempre è così.
Per noi invece è abbastanza scontato. Ma sai, prima di tutto è una collaborazione, in generale. Dove l’occhio finale è quello del regista, che però non ha nessun motivo di non sfruttare le idee degli altri [ride, nda].
Sono passati vent’anni da Zora la vampira (2000). Cosa provi ripensando a quel film?
Non lo so, è un film con cui abbiamo un rapporto difficile. Intanto sono state riprese molto faticose, e questo ci torna sempre in mente; in qualche modo il tipo di fatica che abbiamo fatto, il tipo di aspettativa che ci sentivamo addosso, hanno segnato il nostro modo di lavorare da allora in poi. Perché non lo volevamo, non volevamo faticare così tanto, soffrire così tanto, avere così tanta attenzione intorno… E da allora abbiamo lavorato un po’ più in piccolo, per crescere piano piano, per non metterci addosso troppa pressione. Lì, di pressione, ce n’era tanta. È un film che, al di là di tutto, per tantissimi motivi – alcuni responsabilità nostra, altri esterni – per noi non è riuscito. Ogni tanto pensiamo che se l’avessimo fatto ora, che siamo più bravi dal punto di vista tecnico e nella gestione della “grande macchina”, forse sarebbe stato molto più interessante. L’abbiamo fatto troppo presto.
Poi trovate una dimensione più piena e più vostra con Piano 17 (2005) e L’ispettore Coliandro. Tra i due trovo ci sia un flusso continuo: sbaglio?
Non lo so, Coliandro non lo scriviamo, quindi il rapporto è completamente diverso. Noi lì facciamo i registi. Ci arrivano le sceneggiature, che ci piacciono e che interpretiamo a modo nostro, ma giriamo e basta. Mentre Piano 17 è sì dello stesso periodo, però per assurdo è la prima cosa completamente nostra che abbiamo mai fatto. Nel senso che abbiamo fatto quello che ci pareva e basta, con pochissimi soldi.
È totalmente casuale che una delle vostre ultime produzioni, The End? L’inferno fuori (2017), recuperi l’ascensore come luogo narrativo e claustrofobico?
Guarda, non lo so [ride, nda], può non essere casuale da due punti di vista. Uno è che ogni tanto Misischia, con il suo fare sornione, dice che è «un omaggio a Piano 17», ma secondo me ci piglia un po’ per il culo. E il secondo è che sì, a noi piacciono le storie in luoghi contenuti.
Tanto come registi – penso a L’arrivo di Wang (2011) o Paura (2012) – quanto come produttori – da Il bosco fuori (2006) a Circuito chiuso (2012), passando per Ubaldo Terzani Horror Show (2010) – ricorrete spessissimo a questi “luoghi contenuti”. Quant’è la percentuale pratica, legata a budget e controllo, e quanto quella artistica nella scelta?
50 e 50. Anzi, direi 100 e 100! Da una parte è un modo di poter gestire una produzione per fare un film migliore possibile anche a basso budget, dall’altra è una sfida creativa in un luogo, lo spazio chiuso appunto, che dà vita a storie
avvincentissime. È una sfida artistica, è bello. E sono belli quei film che riescono a essere avvincenti in un luogo chiuso. Sono indimenticabili.
Da spettatore ne ricordi qualcuno in particolare, oltre a Nodo alla gola di Hitchcock (1948)?
Eh, però tu mi elimini il principale [ride, nda]. Allora ti dico La finestra sul cortile (1954) [ride, nda]. E ti cito pure un film che amo tantissimo, assolutamente minore da tanti punti di vista, ma tra i pochi che riesce a essere una storia in luogo chiuso ma un kolossal totale, perché questo ambiente cambia in continuazione: Omicidio in diretta di Brian De Palma (1998). E poi La notte dei morti viventi (1968), capolavoro in un ambiente ristretto.
Song’e Napule (2013) e Ammore e malavita (2017) ribaltano completamente il discorso fatto finora e vi consegnano l’opportunità, che voi sfruttate benissimo, di fare un tipo di cinema mai visto prima in Italia. Un cinema diverso da quello che avevate fatto fino a quel momento.
Sì, veramente, e c’è una totale involontarietà in questo. Diciamo che Song’e Napule è un’idea di Giampaolo Morelli. Da anni aveva in mente questo film su un poliziotto che si infiltra nella band di un cantante neomelodico. Lui aveva l’idea, insieme l’abbiamo sviluppata, poi ci hanno fermato ma lui è andato avanti da solo… Era un’idea che aleggiava nell’aria, e a un certo punto l’abbiamo raccontata a Luciano Martino. Luciano è impazzito e ci ha in qualche modo – scherzosamente, amichevolmente – ricattati, perché ci ha detto: «Io vi faccio fare Paura – che noi volevamo tanto fare, forse sbagliando – se voi, poi, fate un film da questa idea di Morelli». E noi abbiamo accettato questo patto col diavolo, che ha funzionato come voleva lui. Non perché fosse il diavolo, semplicemente ci aveva visto lungo. Perché girando questo film, scrivendolo, ci siamo immersi nella realtà di Napoli, ci siamo innamorati di Napoli, e conoscendo Napoli ci è venuto in mente l’altro film, più nostro, che si
ispirava a quella realtà.
Prima, quando accennavi a Paura, nelle tue parole ho colto un dubbio…
Lo abbiamo fatto con amore, però – un po’ come Zora – è un film di cui non siamo totalmente soddisfatti. Per due motivi diversi. Zora, forse, per la presunzione di essere già pronti a farlo. Paura, forse, perché noi non siamo proprio maestri del raccontare il lato oscuro [ride, nda], o quantomeno non in quel modo là, in quel modo estremo. Nel senso che anche nel lato oscuro – Wang è un film oscuro, altrettanto Diabolik – troviamo altri tipi di motivazioni, non siamo proprio degli “indagatori dell’incubo”. Intendo dire che l’horror puro, pur amandolo tantissimo, non ci appartiene come autori.
E poi Paura ha una parte centrale bellissima, che ci piace, verissima, la più tremenda, ma prima e dopo forse si perde un po’.
Però ha dei bellissimi titoli di testa….
Bellissimi. Di Sergio Gazzo, grande animatore. Bellissimi.
Quando su uno schermo scorre un’opera dei Manetti Bros. scatta sempre la caccia a Marco e/o Antonio, cioè al cameo, all’apparizione, alla comparsata sfuggente. Ma quanto vi piace regalarvi questi momenti?
Ma guarda, non è che ci piaccia più di tanto, anzi… In realtà è cazzeggio del momento, sempre. «Qui manca uno…», «Va be’, vado io», e faccio il passaggio: i nostri camei nascono nati con la macchina da presa così, quindi l’unica spiegazione è il cazzeggio. Vorremmo tanto non farli! Infatti abbiamo stretto un patto con Giampaolo [Morelli, nda], perché lui sa che un po’ siamo tentati e un po’ non li vogliamo fare; e infatti non ne inseriamo più da tantissimo tempo, perché ce lo impedisce lui [ride, nda]! Siamo riapparsi solo recentemente, quando Coliandro si imbatteva in un set cinematografico. Però lì facevamo noi stessi, era tutto in sceneggiatura; non è stata una scelta nostra,
anzi abbiamo combattuto per togliere la scena, abbiamo cercato di fare leva su Giampaolo, ma invano [ride, nda].
In Diabolik non ci siete.
No, e lo capisco adesso il motivo: perché in un film anni Sessanta non si poteva entrare per cazzeggio, ci voleva almeno il costume. E allora non siamo entrati [ride, nda].
Rex e Crimini: lavori alimentari o progetti con qualcosa di vostro?
Tutti e due non esisterebbero senza la motivazione alimentare. Sono, credo, le uniche cose che abbiamo fatto per quella ragione. Però, se noi facciamo una cosa, la facciamo che ci piace, no? Quindi scegliamo le sceneggiature, facciamo i nostri cast e tutto il resto. In un momento in cui non avevamo tanto lavoro ci hanno proposto questa bella cosa, Crimini, e noi l’abbiamo fatta perché in quel momento ci serviva farla. Se fossimo stati impegnati in un altro progetto, forse,
chi lo sa…? In Crimini abbiamo cercato di fare tre bei film, diversissimi tra loro. Mentre Rex, decisamente alimentare – cioè, ti chiamano a fare Rex, se puoi non farlo non lo fai – lo abbiamo affrontato come un grande stimolo. Era un’occasione unica, una serie da 50 minuti a puntata con una storia singola, alla Starsky & Hutch. Era un formato che noi sognavamo di fare e non si faceva più, così ci siamo avvicinati al progetto molto divertiti, molto entusiasti. Abbiamo diretto due stagioni di Rex. La prima siamo contenti di averla fatta, e in più abbiamo cercato di portare la nostra “armata Brancaleone” di amici che fanno film indipendenti in una serie tv industriale. Questo esperimento ci ha insegnato la velocità, certe cose tecniche, e poi lavorando a Rex abbiamo incontrato Carlo Macchitella, con cui abbiamo fondato la Mompracem e che sta dietro all’idea sia di Ammore e malavita sia di Diabolik.
Ecco, Diabolik. Mi racconti come è nato questo progetto?
Allora, come dicevo, fondiamo la Mompracem, insieme a Macchitella, e il primo film che produciamo con lui è Ammore e malavita. A un certo punto, prima di Ammore e malavita, lui ci dice una cosa: «Per fare il film più bello che potete dovete prendere un fumetto, un brand». Noi rispondiamo: «Sai, il nostro sogno, se dovessimo fare un film da un fumetto, è Diabolik, perché
lo desideriamo da sempre». Però Diabolik era complicato, c’erano problemi di diritti complessi, quindi non era alla nostra portata. Ma lui ci pensava, «perché secondo me è la cosa giusta che dovete fare», e ogni tanto ci insinuava questa idea. Che era nostra da quando eravamo bambini.
Così, dopo Ammore e malavita e premi vari ci siamo detti: forse adesso siamo abbastanza forti, abbiamo abbastanza forza per poterci provare. E ci abbiamo provato conoscendo Mario Gomboli, “Mister Diabolik”, l’erede delle Giussani, il direttore artistico della testata. È stato tutto in discesa, in un certo senso, perché spinti da un produttore ambizioso (a differenza nostra, che non lo siamo), da una forza rinnovata e dall’idea che questa cosa ci piaceva. Abbiamo chiamato Gomboli, con cui avevamo avuto occasione di conoscerci durante una giuria al Comicon di Napoli: «Ti ricordi di noi?»; «Certo, come no?»; «Vorremmo fare un film da Diabolik, ti posso mandare quattro pagine scritte con il tipo di film che vorremmo fare?». Lui ha letto queste pagine e ci ha risposto: «Sono vent’anni che aspettavo che qualcuno mi dicesse di voler fare
da “Diabolik” questo film qua».
La vostra più recente produzione “per altri”, invece, è Letto n. 6 di Milena Cocozza (2019).
Letto n. 6 è un film che noi stavamo facendo, pensando, e di cui avevamo a iniziato a scrivere il soggetto. È un film che volevamo fare prima di essere travolti da altro, nella vita, a partire da Rex. Questa storia rimaneva lì, ci piaceva, ma a bloccarci era la consapevolezza che avevamo acquistato nel frattempo, ovvero che l’horror non fosse proprio la nostra strada come autori.
Così abbiamo preferito farlo diventare la nostra strada come produttori.
E infatti lo è diventata…
E alla regia abbiamo messo Milena Cocozza, che ha fatto tanti film con noi da aiuto-regista. Abbiamo sempre lavorato insieme, è un’amica, non è una che abbiamo cresciuto noi. Faceva cinema già prima di noi, proprio come aiuto-regista, tutto un altro mestiere. Però era nell’ambiente, e quando le abbiamo proposto di provare a fare questo salto lei non sapeva se fosse veramente interessata a farlo. Strada facendo ha scoperto di sì, e ha realizzato un gran bel film.