Narrativa: «Discesa agli inferi»
Lune d’Acciaio – I miti della fantascienza n. 9/2015
«Sta cominciando.»
La voce del capitano Morrison risuonò nell’impianto di diffusione dell’astronave Avenger e negli innesti neurali dei quindici astronauti.
«Sistemi di mantenimento: a posto.»
La Terra aveva i giorni contati. L’Avenger era partita alla ricerca di un pianeta abitabile.
«Velocità di avvicinamento: ok.»
L’astronave comandata da Morrison si stava avvicinando al pozzo gravitazionale di un buco nero. Per la prima volta nella storia dell’astronautica un vascello spaziale con degli uomini a bordo sarebbe entrato in una singolarità spaziale di quella classe.
«Controllo energia di balzo…» Un’occhiata agli indicatori. «…Nella norma.»
Erano state lanciate sonde automatiche a saggiare le profondità inesplorate del buco nero individuato agli estremi limiti dello spazio che separava il Sistema Solare da Alpha Centauri; ma non c’era stato tempo per un volo-prova con un equipaggio umano. Sarebbero stati i salvatori del mondo o i martiri dell’ultimo viaggio spaziale dei terrestri, i protagonisti di un’avventura irripetibile o le ultime tra milioni di cavie sacrificate sull’altare della scienza.
«Inizio approccio finale.»
La missione era uscire dal buco nero e ritrovarsi migliaia di anni-luce più avanti rispetto alla Terra. Possibilmente vivi.
«Pronti alla traslazione.»
La Terra era da tempo un puntolino luminoso nell’emisfero vetrato a poppa dell’Avenger. Era giunto il momento di rompere il cordone ombelicale con il pianeta-madre e proiettarsi nello spazio sconfinato.
«Partenza.»
…E furono dentro.
Grant Morrison spalancò gli occhi.
Li aveva chiusi d’istinto, solo per un secondo; quando li aveva riaperti, intorno a lui tutto era cambiato.
In realtà, stando agli occhi elettronici della sala situazioni, non c’era evidenza di danni alla crisalide d’acciaio che lo separava dal vuoto cosmico. All’interno, i sistemi vitali erano al 100%; le sezioni a scorrimento sembravano integre, così come i raccordi lamellari che le univano e le finestrature che s’affacciavano sullo spazio; gli alveari abitativi, posizionati nel ventre della nave, non avevano riportato conseguenze di alcun tipo. All’esterno, la strumentazione dava ugualmente riscontri confortanti: le schermature antiradiazione tenevano e le spine delle antenne di comunicazione erano ancora nel numero giusto.
Eppure, Morrison sentiva che qualcosa non funzionava.
«Signori, sembra che ce l’abbiamo fatta.»
Nessuno rispose. In realtà, l’unico dato certo era che, nella traslazione, l’astronave non era andata in mille pezzi. Per il resto, era da dimostrare che il viaggio fosse servito allo scopo per il quale era stato concepito.
«Secondo?»
Morrison interpellò Malamud, l’ufficiale in seconda, da cui non provenne risposta. L’unico suono era il costante ronzio di sottofondo degli apparati di ventilazione forzata. Problemi con gli impianti neurali?
Il capitano sganciò la fascia costrittiva di sicurezza e lasciò la cabina di manovra, sopraelevata rispetto alla restante parte della plancia di comando.
Una volta al piano inferiore, si avvicinò a Malamud, ancora intento a controllare il monitor di servizio.
«Allora, vecchio mio, l’abbiamo smarcata anche stavolta…» Rise, assestandogli una pacca sulla schiena.
La testa di Malamud ricadde sulla spalla, inerte. Gli occhi vuoti guardarono Morrison dal basso verso l’alto.
«Malamud!»
Girò intorno alla poltrona e scosse il secondo, senza ottenere reazione. Gli prese il polso, che non restituì alcuna pulsazione. Eppure, a un primo esame sommario, mancavano ferite o segni traumatici sul corpo dell’uomo.
«Sanità!» comandò d’istinto, prima di accorgersi che anche gli altri ufficiali di plancia erano alle loro postazioni, immobili, muti.
«Hansen! Rostov! Castro!»
Neppure uno rispose al suo appello drammatico.
Con il respiro che accelerava ogni secondo, passò in rassegna i presenti.
Erano morti. Tutti.
Ogni membro dell’equipaggio, lui compreso, prima della partenza aveva subito due innesti sottopelle: l’impianto neurale, per restare in collegamento con l’intelligenza artificiale che governava le varie funzioni logistiche e operative della nave, e il chip sanitario, che monitorava e registrava ventiquattro ore su ventiquattro – anche durante il sonno – le condizioni fisiologiche, per poi inviarle alla banca dati dell’infermeria di bordo.
Era lì che Morrison si stava dirigendo, a lunghi passi, l’affanno e il panico tenuti sotto controllo da esercizi di respirazione. Era un’armatura di muscoli, in cui le vene a fior di pelle affondavano come radici nodose. Il viso scabro era un intarsio di lineamenti virili, tirati all’inverosimile dalla tensione nervosa.
Lungo il percorso, forzò con il codice speciale i blocchi di chiusura degli alloggiamenti privati, nella speranza di trovarvi qualche superstite. Nessun elemento suffragava l’ipotesi che stava nascendo in lui, ma forse la morte dei suoi uomini era dipesa da un malfunzionamento degli impianti neurali: in tal caso, avrebbe potuto salvarsi qualcuno che fosse stato off-line. Ma chi avrebbe potuto pensare di staccarsi dal collegamento, proprio nella fase della traslazione? Inoltre, perché mai questo malfunzionamento non aveva avuto effetto su di lui?
Nelle ombre incerte vide soli corpi riversi, simili a larve, dai visi pallidi e deformati.
Rimase saldo in petto e proseguì. Negli oscuranti dell’astronave vide costellazioni diverse da quelle a lui familiari, ma non era il momento di studiare con i marcatori di posizione il punto di arrivo dell’Avenger. Una pista di quadrati luminosi lo condusse fino al vano dell’infermeria, uno degli accessi riservati del vascello.
Inserì il codice d’ingresso e, superato lo snodo di decontaminazione, entrò nella cellula sanitaria vera e propria. La prima cosa che gli balzò agli occhi fu la figura di Tanizaki riversa sulla piattaforma che fungeva da lettino da visita e, all’occorrenza, da tavolo operatorio. Trascurò il dottore, ormai certo di trovarlo nelle stesse condizioni degli altri, e, mosso da un’urgenza superiore, accedette alla banca dati e scaricò il referto clinico delle ultime ventiquattro ore.
Registrazione dopo registrazione, ebbe la conferma di quanto sospettava.
I suoi uomini erano morti d’infarto, come colti da un terrore inesplicabile. Tutti, nessuno escluso.
Si trovava su un cimitero spaziale.
Era il capitano di una nave infernale.
Morrison era precipitato in uno stato di catalessi.
I divisori dei condotti di collegamento si aprivano al suo passo rigido, automatico. I pavimenti flottanti assecondavano il suo peso, ma non davano la sensazione di poterlo sostenere a lungo. Gli avvisi luminosi che identificavano le varie camere stagne sembravano scritti in un alfabeto sconosciuto.
Infine, tenendosi ai corrimano che innervavano gli snodi di congiunzione, fece ritorno alla plancia. Aprì il portellone…
…E scoprì di non essere solo.
Un uomo era seduto alla poltrona di comando.
Un uomo vivo. Un uomo – lui sì! – che avrebbe dovuto esser morto.
«Papà…»
Il viso di Grant Morrison Sr., simile a una carta geografica, era ragnato di rughe. Sotto le sopracciglia spioventi, gli occhi semiciechi lo cercavano, mesti. Una barba incolta e canuta gli pendeva dal mento. Il corpo scheletrico, che ballava dentro una sorta di tuta di volo, dava l’impressione di potersi dissolvere in polvere al primo tocco.
«Sto impazzendo…» si disse Morrison Jr., ad alta voce.
Era addestrato a sopportare i più spaventosi stress psicofisici; ma, evidentemente, anche un superuomo come lui aveva un punto di rottura.
«Non può essere…» ripeté a se stesso, avvicinandosi cautamente alla figura, come a sincerarsi che non fosse una specie di ologramma.
«Grant, figlio mio…»
La figura, svuotata di sostanza, tese entrambe le braccia: sembrava un’ombra fra le ombre, i cui occhi prendevano colore solo per effetto di un gioco di luce proveniente dalla strumentazione.
«Tu non puoi essere qui. Non puoi esistere» disse Morrison, trepidante. Non osava toccarlo, per timore della risposta terrificante che avrebbe potuto riceverne.
«Non cedere» l’ammonì il simulacro di suo padre.
Morrison avrebbe voluto abbracciarlo, ma il timore era che l’immagine sfuggisse tra le sue mani con la levità delle visioni oniriche. Una lacrima rigava il suo viso duro.
«Il tuo compito è cercare una nuova patria per l’umanità» continuò il padre, o quello che appariva tale agli occhi dell’astronauta. «Non desistere dalla ricerca, per quanto incerti siano i vostri approdi e per quanti pericoli possiate affrontare.»
Morrison strinse le labbra, innanzi a quell’apparizione che gli svelava la gloria che l’avrebbe atteso.
«Ora devo andare» annunciò il vecchio. «Il mio tempo è breve – il tuo, eterno.»
E su Grant Morrison, vivo fra i morti, si fece buio.
«Traslazione effettuata!»
La voce giunse al suo orecchio con l’effetto di un’eco.
«Capitano, ce l’abbiamo fatta!»
Una nota trionfante filtrò a fatica nella coscienza di Morrison. Impiegò qualche secondo a riconoscere la voce di Malamud.
Fu a quel punto che si scosse, come percorso da una scarica elettrica.
«Cosa sta succedendo?» chiese, ad alta voce.
«Capitano, abbiamo completato la traslazione. Siamo all’estremità del buco.»
Morrison aprì gli occhi, cautamente.
Si guardò intorno.
Rimase senza fiato e spiegazioni.
Nella sala situazioni dell’Avenger l’attività ferveva. Gli ufficiali di plancia erano indaffarati a controllare i dati sciorinati dalle rispettive postazioni. Una febbrile eccitazione era dipinta sui loro visi.
E, soprattutto, erano vivi.
Morrison non si capacitava di quel che stava succedendo. L’unica spiegazione plausibile era che fosse stato vittima di un’allucinazione indotta dal passaggio nel buco nero. Ma perché solo lui? E perché il chip sanitario non ne riportava traccia?
Fu tentato dal condividere la sua esperienza con l’equipaggio, ma si bloccò: c’era una missione da compiere, una missione che dipendeva dall’autorità che poteva esercitare sui suoi uomini e dalla fiducia che questi riponevano in lui.
La Terra era lontana, l’Avenger era la sua ultima speranza. Questo aveva detto l’immagine di suo padre. Era il primo e l’ultimo dei suoi doveri.
«Avanti tutta» disse, sorridendo.
E il buio non gli fece più paura.