West Side Avenue. Una geografia apolide della catastrofe
Lav Diaz n. 3/2017
di Donatello Fumarola
West Side Avenue è un film chiave. Gira. Capovolge la prospettiva e la filosofia di un regista che fino a quel momento aveva realizzato film tutto sommato tradizionali (nel senso in cui può considerarsi tradizionale il cinema di Lino Brocka, di cui Diaz è stato assistente) e prova ad aprire un percorso in un territorio a suo modo paradossale: nuovo rispetto al Paese di origine del suo regista e nello stesso tempo luogo comune di uno dei generi più classici del cinema (il noir americano). Un percorso inedito, in grado di sintetizzare e rilanciare le istanze narrative e quelle di una dialettica svincolata dalla macchina spettacolare, che possa far passare in quella macchina complessa e multiforme una qualche verità artistica, una necessità e una proposta d’alterità, una mappatura sentimentale di territori non consolatori.
La geografia apolide di un cinema che qui si divarica lungo la linea di demarcazione di un tempo sospeso, fatto d’aria (come si rivelerà magnificamente in tutto il suo cinema successivo), di spazi occlusi e falsi ritorni, apre a un’ipotesi di trasparenza che se da una parte passa per una riconoscibilità (il racconto noir appunto) dall’altra riplasma la materia di cui è fatto il film in modo straniante, come se si distaccasse da sé nel momento in cui si fa, sotto i nostri occhi, spiazzando, spostando l’attenzione, cercando una messa a fuoco continuamente differita, riformulata nella sua gradazione, nel suo essere peso che non vuole e non può essere persuaso (per dirla alla Michelstaedter). Forse proprio questo differimento, questa sua tensione verso qualcosa ancora di là da venire, al di là della bolla del tempo presente, lo rendono un tetro “ricordo del futuro”. A vederlo oggi infatti, a quindici anni di distanza, fa impressione per la sua sconcertante precisissima attualità: potrebbe essere il racconto di uno dei tanti assassinii perpetrati dal nuovo presidente filippino che con la scusa della droga sta eliminando fisicamente centinaia di persone.
Così come la New York sullo sfondo di West Side Avenue (2001) viene vista attraverso il buco di una serratura, in cui i punti di fuga e le strade del New Jersey prefigurano fantasmaticamente i panorami devastati delle Filippine dove è tornato a girare in seguito (Death in the Land of Encantos [2007], Melancholia [2008], Figli dell’uragano [2016]…) – che invece qui appaiono come vicoli ciechi, punti di rottura, interruzioni, o piuttosto intermittenze, quasar. Un’intermittenza (o un vicolo cieco?) è lo stesso film, unica escursione del regista filippino che in seguito tornerà nel proprio Paese a filmarne la catastrofe permanente, personale e collettiva. In West Side Avenue Diaz sembra riconoscere l’impossibilità di una libertà di vedute; ogni palazzo, ogni muro, persino le finestre (da cui nessuno sembra vedere nulla) chiudono la visuale, impediscono l’apertura, rivelando la prospettiva come segno puramente illusorio, o come bolla, camera iperbarica in attesa della catastrofe (curiosa coincidenza: siamo nel 2001, come viene chiaramente detto nel film, e sullo sfondo di un parcheggio che dà sul fiume New Jersey si vedono, stagliate al centro dell’immagine come due totem, le Torri Gemelle – è notte e tutto sembra in attesa di qualcosa che rompa quell’equilibrio felpato, sospeso su una lastra di ghiaccio sottile).
Il cinema successivo di Diaz prenderà una strada più ossessivamente precisa e più precisamente ossessiva, lavorando su una continuità che West Side Avenue non può trovare, mancando ogni corrispondenza possibile nonostante la trama poliziesca aiuti – sulla carta – una tessitura. Ma quello che il protagonista qui ricerca e trova sono i pezzi di un mosaico frantumato, disperso, come frantumato e disperso è, innanzitutto, il soggetto stesso che li ricerca e ogni altro soggetto a cui si rivolge. Ma non si tratta nemmeno di mettere in scena il dissolvimento del soggetto o di confrontarsi con i limiti di uno spazio indicato già dal titolo (in una curiosa vicinanza con altri grandi film che fanno proprio il nome di un luogo in cui girano – a vuoto? sul vuoto? – da Zabrinskie Point [1970] di Antonioni a Mulholland Drive [2001] di David Lynch, Twentynine Palms [2003] di Bruno Dumont o Manhattan by Numbers [1993], primo film americano di Amir Naderi che ha molte cose in comune con West Side Avenue). Qui è lo spazio stesso il fantasma filmato da una distanza che è essa stessa spazio (di riflessione, di attesa, di passaggio, di visione). Lo spazio dissolto dell’Occidente.
West Side Avenue è la soglia di quel cinema che da Evolution of a Filipino Family (2004) a The Woman Who Left (2016) ha rivelato un cineasta che lavora costantemente sullo spazio come un cartografo visionario, cercandone le riverberazioni umane, “sentimentali” verrebbe da dire se non temessimo di sminuirne la radicalità sostanziale (a suo modo formale), la portata filosofica, i riflessi politici. Una soglia che da lì a poco abbandonerà per inoltrarsi nel campo aperto dei territori incerti attraversati come sulle ali di una farfalla malinconica alla ricerca di uno squarcio liberatorio.
CAST AND CREDITS
Titolo originale: Batang West Side; regia: Lav Diaz; sceneggiatura: Lav Diaz; fotografia: Miguel V. Fabie III; montaggio: Ronald Allan Dale; musiche: Joey Ayala; interpreti: Yul Servo (Hanzel Harana), Joel Torre (Juan Mijares), Gloria Diaz (Lolita Fordham), Angel Aquino (Elvira Pareño), Priscilla Almeda (Dolores), Raul Arellano (Dindo), Arthur Acuña (Bartolo), Ruben Tizon (Abdon); origine: Filippine/USA, 2001; durata: 315’; distribuzione italiana: Zomia.