(R)evolution of concrete
Lav Diaz n. 3/2017
di Christoph Huber
Circa un mese prima di imbattermi per la prima volta nell’epico Evolution of a Filipino Family (2004) di Lav Diaz (al Rotterdam Film Festival, a inizio febbraio 2005), sono venuto a conoscenza per la prima volta – grazie a Dave Kehr – di un’affascinante informazione relativa alla versione originale di Rapacità (1924) di Erich Von Stroheim. King Vidor – una delle poche persone invitate dal boss della MGM a quella che poi è diventata la leggendaria visione-maratona del primo montaggio di Stroheim, considerato da molti il Sacro Graal perduto della settima arte – aveva confessato a Kehr, in un’intervista, che (come parafrasa lo stesso Kehr) «la maggior parte del girato era il risultato dell’insistenza con cui Stroheim descrive per filo e per segno ogni singola azione dei personaggi, come lasciare un appartamento, scendere le scale, uscire per strada, entrare in un altro palazzo, risalire le scale, bussare a una porta, entrare, etc.».
Pensando a Evolution of a Filipino Family mi sono inevitabilmente ricordato di questa storia per varie ragioni, la più semplice delle quali è la straordinaria lunghezza di entrambe le pellicole (dieci ore ciascuna) e una sottotrama del film di Diaz che subito fa venire in mente Rapacità: uno dei personaggi sviluppa una vera ossessione per l’oro, e se questa non conduce alla rinuncia sontuosa e fatale del Sogno Americano, nelle lande sconfinate della Death Valley, di certo causa un percorso di discesa verso miniere abbandonate, immagine che può ben adattarsi a metafora della tragedia filippina raccontata da Evolution. (Non solo il ritirarsi in uno spazio cavernoso e sotterraneo, in cerca di un’immediata gratificazione materiale, è il perfetto ritratto del rifiuto dei filippini di fare i conti con la propria storia – soprattutto con il periodo di legge marziale imposto dal presidente Marcos durante il quale è ambientato in larga parte il film –, ma c’è anche un’ironica e intelligente giustapposizione nel dialogo sull’oro effettivamente custodito nei caveau del presidente). Al contempo, in una recente intervista Diaz ha rilevato che questa sottotrama è stata l’ultimo, cruciale “filo” da lui inserito: «L’oro è metafora di tantissime cose nell’ambiente socio-culturale filippino». Abbastanza curiosamente, il primo esempio da lui proposto di questi vari significati è «oro sta per rapacità».
Ma questi paralleli, per quanto istruttivi, hanno sicuramente meno importanza di questioni come la fattibilità e la fatica, che sembrano rappresentare il vero punto di contatto tra questi due film, uno dei quali è un’invisibile/ipotetica pietra miliare della storia del cinema, mentre l’altro deve ancora lasciare un segno tangibile sulla cultura filmica contemporanea. Prima di tutto una parola sulla fattibilità, tralasciando volutamente il fatto che uno dei due film è stato realizzato con il supporto di una major, e l’altro è invece un prodotto indipendente nonché arte povera, entrambe le cose nel vero senso della parola. Se qualcuno volesse discutere su quale gesto sia più grandioso – convincere un grande studio a produrre qualcosa di gigantesco da un punto di vista commerciale o, in mancanza di tali mezzi, investire dieci anni della propria vita per realizzare la stessa impresa – faccia pure, perda tempo (spero sia altrove argomentato in questa rivista il motivo per cui dibattiti di tal genere rappresentino ciò che non va nella cultura cinematografica odierna). Quello che importa, in entrambi i casi, è che il lavoro mastodontico e il suo risultato verosimilmente scaturiscano da un impegno, dall’idea di estrapolare la “verità” (per usare un concetto di Diaz) senza compromessi, siano questi finanziari, estetici o anche solo dettati da quello che i più definiscono “buon senso” (e, spesso, non è che una velata razionalizzazione di ciò che è accettabile per una “maggioranza” compiaciuta).
Non solo l’immane e onerosa durata, ma anche questa dedizione rara (che è ovviamente la causa di queste durate) sono ciò che, in un certo senso, rende entrambi i film due oggetti impossibili. In senso letterale: il primo lunghissimo cut di Stroheim è da tempo perduto e, finché rimane tale, questo ne aumenta l’aura mitica – infatti viene da chiedersi, dando per vera la descrizione di Vidor, se sarebbe ancora considerato un simbolo della settima arte su così ampia scala nel caso venisse mai ritrovato. E ciò considerando anche l’affermazione dello stesso Vidor per cui la prima riedizione successiva, ugualmente perduta, di quattro ore (ancora da Kehr) «non ha minimamente perso in termini di incisività narrativa». E l’incredibile risultato di Diaz, per quanto si è visto sinora, è in qualche modo diminuito dalla vistosa mancanza di risorse finanziarie, tra i principali motivi della lavorazione durata dieci anni, portata avanti prima con il 16mm, poi con il più economico Digital Video: ora esiste soltanto in formato Beta, disturbato per problemi audio e video e per un orribile riversamento. (Ironia della sorte, probabilmente non sfuggita agli occhi di molti frequentatori di festival sfiniti dalle visioni in DV, i passaggi del film girati in digitale risultano molto migliori rispetto a quelli su pellicola).
Se è vero che sarebbe assurdamente idealistico sperare che un film come Evolution of a Filipino Family conquisti subito le prime pagine dei giornali, lo è altrettanto che avrebbe meritato un po’ più di attenzione di quanto accaduto finora. Certo la sua lunghezza ha un ruolo nel renderlo un film trascurato (film considerati epici e difficili vengono evitati a favore di molte proposte meno impegnative a ogni festival di cinema, tanto dal pubblico quanto dalla critica), ma questa, da sola, non dovrebbe porsi come una sfida estetica così grande, per una cultura filmica mondiale che venera Satantango di Béla Tarr come uno dei suoi riferimenti contemporanei (e ora deve gestire una moltitudine di imitatori del formalismo dei tempi morti privi di talento). La motivazione sembrerebbe molto più semplice, come evidenziato dall’indifferenza verso il precedente film di Diaz, West Side Avenue (2001), cronaca di cinque ore della diaspora filippina verso New York, la cui forma all’inizio è, ancora una volta, molto faticosa (perlomeno a un livello superficiale – che sfortunatamente è ciò che conta qui – ma non più che in un qualsiasi lavoro di Tarr): un ritmo deliberatamente lento che infine diventa ipnotico, piazzamenti insoliti della macchina da presa (che mai richiama l’attenzione su di sé per il desiderio tipico in Diaz di evitare tutte le cose appariscenti), e una struttura complicata, che pure si dipana accuratamente, essenziale per il suo potere catartico. (In effetti è solo durante l’ultima grande scena che tutti gli strati – emotivi, politici, storici e dialettici – si manifestano, e il risultato è travolgente). Ma, a differenza di Evolution of a Filipino Family, il capolavoro, questo film non soffre di un’evidente mancanza di fondi, perciò il fatto che sia considerato un qualcosa di marginale può essere spiegato solo dalla natura apparentemente “esoterica” del suo soggetto: le Filippine non sono percepite (almeno per ora) come una zona “calda” dell’Asia, perciò non c’è un pubblico da conquistare. E il fermo rifiuto da parte di Diaz di infarcire i suoi film con spiegazioni estemporanee, inclusi eventuali riferimenti storici, certo non aiuta, in una cultura del film così spaventata da concetti che sfuggano a una sua solida comprensione (sebbene chiunque abbia visto West Side Avenue possa testimoniare che non c’è bisogno di conoscenze particolari per comprenderlo, rende solo l’esperienza più profonda). Tutto ciò può sembrare ironico, dato che il grande tema di Diaz è apparentemente l’eredità della sua nazione (e mi vengono in mente pochi registi, vivi o defunti, così tanto votati alla causa), ma solo a un primo sguardo: scrutando più da vicino, quello di cui davvero si occupa Diaz è il rifiuto di una nazione di scendere a patti con il proprio travagliato passato.
In maniera abbastanza pertinente, Evolution of a Filipino Family inizia nel momento cruciale della storia che segna la grande rivelazione finale del film precedente, poco prima che il presidente delle Filippine Marcos dichiari la legge marziale nel 1972. Cronaca di una famiglia lunga sedici anni (dal 1971 al 1987, un anno dopo l’abbandono della presidenza da parte di Marcos), Evolution sfida non solo le abitudini di visione e i criteri di valutazione, ma anche la tendenza a rinnegare, da parte di una nazione, il suo recente, fosco passato. (Durante una conversazione privata, un Lav Diaz visibilmente seccato prese a esempio il successo dell’impostazione acritica [per dirla con un eufemismo] del documentario sulla vedova di Marcos [Imelda, 2003, di Ramona S. Diaz che ovviamente non è parente di Lav], ricordando come il pubblico ridesse spensierato di fronte all’elegante e stravagante atteggiamento della propria ex co-dittatrice). Se questo imperativo nazionale/storico è la prima fonte dell’urgenza palpabile e del fervore di Evolution, che permette allo spettatore di immergersi in un periodo storico a un punto tale da sentire di averlo vissuto, allo stesso tempo contiene varie lezioni di rilievo globale: per dirne una, dovremmo ricordarci che il regime di terrore e corruzione guidato da Marcos rimase al potere grazie al supporto degli Stati Uniti.
Incentrato sul destino dei Gallardo, povera famiglia di contadini, le cui vite già poco dignitose lo diventano sempre meno mentre si disperdono per tutto il Paese nel corso degli anni, Evolution dispiega, principalmente attraverso larghi campi lunghi e long take prossimi al tempo reale, scorci in dettaglio delle loro battaglie quotidiane, conferendo loro non solo un’aura iper-realistica che sconfina talvolta nel documentaristico, ma anche facendo dei devastanti ribaltamenti nella sorte subiti dai Gallardo, be’, ogni poche ore, non crocevia cruciali, come accade nella maggior parte delle narrazioni, bensì vette di sofferenza ragionevoli, persino inevitabili. È il risultato unico di questo metodo, una specie di pacata idea di verosimiglianza, che allo stesso tempo eccede superbamente qualsiasi nozione convenzionale di “realismo” e permette lo sviluppo di una narrazione eccezionalmente caleidoscopica, come doveva intenderla lo scrittore Henry Carr – altra persona presente alla visione privata di Rapacità convocata da Thalberg – quando paragonava la versione originale di Stroheim in 45 bobine a I miserabili e scriveva «Episodi che ti sembrano non avere importanza nello sviluppo della storia, 12 o 14 bobine dopo ti colpiscono con un pugno». Questi colpi sono resi più intensi dall’approccio ellittico scelto da Diaz per Evolution – e considerato il risultato finale, convincente e quasi organico, di tale struttura non-cronologica, è piuttosto sorprendente sapere che il film è stato concepito come una storia lineare e modellato nella sua versione finale solo nelle fasi conclusive della lavorazione.
La narrativa non lineare è uno di una ricca serie di moderni dispositivi drammaturgici che restituiscono il lento scorrere del tempo: Evolution contempla anche filmati documentari di importanti eventi politici e, più indirettamente, lunghe escursioni nelle soap-opera radiofoniche che per qualche tempo furono l’unica forma di intrattenimento ufficiale, negli anni Settanta, ansiosamente divorate da molti membri della famiglia, e ugualmente mostrate mentre vengono recitate dal cast sul set. Quest’ultima idea è particolarmente significativa, perché smaschera come anche le fantasie d’evasione fossero controllate dallo Stato, mostrando come le “vite” dei membri “invisibili” di quella che è una sorta di seconda famiglia finzionale per i Gallardo, altro non sono che costrutti vuoti interpretati con impersonale professionalità. È crudo, rivelatore, il contrasto con i veri componenti della famiglia Gallardo che davvero diventa invisibile (come molti degli “scomparsi” dell’era Marcos, di solito uccisi), ma è anche uno dei numerosi casi in Evolution in cui Diaz mostra l’acuta, dialettica relazione che intrattiene con la sua arte.
Questa riflessività è visibile anche nell’evidente maturazione dello stile di Diaz (considerazione riguardante solo un lavoro che racchiude molti paradossi, e questo, mentre scrivo, è paradossalmente il suo primo e ultimo film), che mostra come il regista affastelli le lezioni imparate da altri autori, incluse fonti conclamate come Tarkovskij, Tati e Vigo – a cui il film è, in un certo senso, dedicato – senza mai incorrere nel rischio di fare il verso o, peggio ancora, imitare. (Come dimostrato dal fatto che non so quanta familiarità abbia Diaz con Stroheim, semmai ne abbia, ma come emerge da questo saggio, sembra che ci sia almeno un briciolo di familiarità, forse un insegnamento banale: tra i grandi cineasti sembra esistere un costante scambio spirituale). La complessità di questa maturazione dà concretamente forma al film: vedere i membri più giovani del cast crescere letteralmente davanti ai nostri occhi esercita un potente fascino. (Un’altra testimonianza della lunga, problematica lavorazione è la scomparsa di altri partecipanti al film, talvolta morti durante la produzione: altri uomini invisibili).
Senz’altro però, data l’insistenza di Diaz sullo scendere a patti non solo con la Storia, ma soprattutto con la storia del suo Paese, sono due filmmaker filippini a giocare il ruolo più importante nella cine-genealogia di Evolution of a Filipino Family, entrambi marcatamente presenti nel film e al contempo assenti (e immagino si possa considerare questo fatto come un altro pungente commento al tema dell’amnesia storica, in questo caso cine-storica). C’è un’interessante sottotrama relativa a Lino Brocka, che esprime le sue opinioni forti sul concetto di responsabilità in politica e al cinema, sulla relazione tra i due e su altri argomenti. Soltanto che non è Brocka, bensì il critico cinematografico filippino Gino Dormiendo (cosa che non viene mai esplicitata nel film), che è pressoché identico al compianto maestro e molto convincente nell’impersonarlo. E poi c’è Taga Timog, che era già l’unica persona (nel film) a conoscenza della confessione conclusiva di West Side Avenue: un personaggio di finzione, ma – soprattutto nel precedente lavoro – verosimilmente un alter ego dello stesso Diaz, il regista vivente che cerca il modo adeguato per raccontare lo stato dei fatti – e, per logica estensione, che cosa lo ha generato: la storia, di nuovo – alle persone. Egli ha anche l’ultima parola (o, più precisamente, l’ultima immagine) in Evolution, quella che porge al pubblico l’ultimo pezzo del puzzle, l’appropriatamente dialettica “Storia delle Due Madri” (per la quale è accreditato come regista). Siamo di fronte a un tenero prendersi gioco, qui, ma Diaz non sta giocando con i suoi spettatori, perché in entrambi i casi non è necessario saper riconoscere la differenza tra “realtà” e “finzione”, esattamente come gli inserti documentaristici di Evolution possono essere compresi pur non conoscendo nulla della storia filippina, e pur non essendoci commenti o spiegazioni. (Lo stile di Diaz è fedele alla volontà di illustrare una visione complessa del mondo, e per questo non risulta mai ermetico).
Sempre Taga Timog è accreditato per il documentario su Lino Brocka che lo sventurato zio Kadyo, dopo aver lasciato i Gallardo alla ricerca del loro “figlio perduto” adottato, guarda alla tv, in quella che forse è la sequenza più commovente di Evolution, anche perché il destino di Kadyo sembra collegare strettamente alle idee di oppressione nazionale e fallimenti storici quelle di resistenza e lealtà alla verità, che necessariamente riportano al cinema. Si tratta di una ripresa di 20 minuti quasi non montata, durante la quale Kadyo, morente, inciampa lungo le stradine vuote della capitale, e si ammanta di un valore epifanico perché non si può non pensare che egli sia la rappresentazione di una nazione da secoli in agonia – prima sottomessa al potere straniero, più tardi, e in modo ancora più devastante, a quello di un connazionale.
(testo raccolto da Ekran tradotto da Ilaria Floreano)