Oltre Raskolnikov. Prendere il largo dai misteri della mitologia

Lav Diaz n. 3/2017
Oltre Raskolnikov. Prendere il largo dai misteri della mitologia

di Marco Grosoli

«Una fase strana inizia per Raskolnikov; una rugiada l’ha avvolto in un’insopportabile solitudine da cui è impossibile fuggire»: è la citazione da Delitto e castigo che apre The Criminal of Barrio Concepcion (1998), esordio di Lav Diaz nel lungometraggio. Da lì in poi, Raskolnikov non smetterà mai di lavorare dall’interno la filmografia diaziana, fino ad arrivare al Fabian di Norte, The End of History (2013), palese riscrittura del giovane assassino dostoevskijano. Come lui, Fabian è un eroe tragico: agisce nel verso sbagliato per le ragioni giuste; cerca di raddrizzare non solo i torti ma, come richiede la logica narrativa della vendetta, la linea del tempo stessa, e di piegarla in un susseguirsi ordinato e “giusto” di cause e di effetti. Tutto ciò che ottiene, però, è di rimanere impantanato nello spazio, come impantanato nella rugiada che gli impedisce la fuga è Raskolnikov. Questo (anti)eroe dostoevskijano, tuttavia, non è solo tragico: egli intravede altresì la possibilità della resurrezione1. Giusto, allora, che uno dei tanti Raskolnikov diaziani si chiami Hesus, Gesù. Fantasia distopica ambientata in un 2011 pochissimo diverso dal 2002 in cui il film fu realizzato, Hesus Rebolusyonario vede un potere dittatoriale stabilmente insediatosi al comando della nazione e un gruppo di ribelli fronteggiarsi tra spie e talpe che minano entrambi gli schieramenti – i quali, dunque, oltre che scannarsi a vicenda tendono ad autodistruggersi sulla scia della paranoia. Hesus, uno dei rivoltosi, stermina l’intera sua cellula sobillato da un compagno che sospetta infiltrazioni. Il conflitto tragico (agire per il verso sbagliato sulla scorta di ottime intenzioni) viene dunque affrontato e compiutamente attraversato fino in fondo nel giro di una manciata di minuti. Il resto del film (di durata ancora contenuta) letteralmente sopravvive alla mancanza del tragico; orfano di esso, galleggia in una terra di nessuno piena di pause e vuoti narrativi, nell’impossibilità di articolare una linea di azione rettamente orientata, visto che Hesus dopo la strage non sa più cosa fare né quale direzione percorrere, e brancola nel buio.

È dunque nel segno dell’ambivalenza che il Mito è presente nel cinema diaziano. Imperniandosi su Raskolnikov, esso tiene un piede ancora nel Mito (attraverso la tragedia) mentre con l’altro è già oltre, nell’oltre-Mito che è il romanzesco e, in un senso diverso, la resurrezione cristiana (che riscrivendo il rapporto tra uomini e dèi segna la fuoriuscita dall’orizzonte del Mito).

La solennità figurativa con cui, gradualmente, il protagonista di Heremias (2006) viene individuato e sottratto all’indistinzione nelle primissime scene ci fa pensare, vista quest’insistenza sull’origine, al Mito (per definizione racconto dell’origine e/o del distacco da essa). Anche in virtù della sua totale linearità, Heremias suggerisce davvero una cristallizzazione mitologica (complice anche il nome biblico) dell’usuale personaggio diaziano perseguitato dal destino: appena messosi in proprio, al commerciante ambulante Heremias viene bruciato il carro e uccisa la mucca; tenta invano di sventare un rapimento… e incappa in altre disavventure. A opprimerlo è soprattutto la natura, che dilaga indisturbata fuori dai cardini del Mito, impossibilitato ad annodare insieme natura e cultura come invece, tipicamente, richiederebbe il suo ruolo. Lo conferma Death in the Land of Encantos (2007), partendo da un’occasione in cui la natura si è mostrata in tutta la sua spietatezza, impossibile da arginare: un’eruzione vulcanica che nel 2006 ha devastato la regione del Bicol. Anche fiction e documentario, come natura e cultura, sono fuori dai cardini, sostituiti da un piano orizzontale di coesistenza (non orientata cronologicamente) che insieme all’una e all’altro accoglie squarci lirici di imprecisa identificazione, sogni, ricordi, brandelli di un horror incompiuto… Niente articolazione verticale della narrazione: la catastrofe è assoluta, tanto naturale (l’indomabilità degli elementi, sempre pronti a seminare morte) quanto culturale/storica (l’impossibilità di una redenzione per l’irrimediabilmente corrotta e oppressa società filippina), e in questa micidiale coincidenza non può più esserci posto per il Mito e per la sua pretesa di mediare tra natura e cultura rappresentando azioni orientate verso un fine. Dalle sue ceneri, nasce però la possibilità di trasfigurare l’onnipresente orrore in bellezza.

Senza il confortevole riparo del Mito, in età moderna il trauma originario viene lasciato scoperto, irredimibile. La narrazione si rivela impotente a linearizzarlo e quindi a dominarlo: è lei, anzi, a uscirne frantumata. Schiavizzata dal padre che la obbliga a prostituirsi e ad abortire ripetutamente, segnata da un trauma perenne, Florentina (in Florentina Hubaldo, CTE, 2012) vive un infernale eterno presente dove blocchi di realtà, di immaginazione e di ricordo si giustappongono in maniera non cronologica. L’unica, utopica oasi di redenzione è il ricordo dei higantes adocchiati da bambina: enormi figure di cartapesta a forma di baffuti coloni ispanici, che sfilano in periodiche occasioni festive. In sogno, Florentina tende invano la mano per toccarli: polverizzatosi insieme al Racconto, il Mito permane come pura tensione utopica verso un’Origine con cui ricongiungersi è impossibile, perché è impossibile articolare la distanza da essa (come fa il Racconto, come fa il Mito).

Che il Racconto sia impotente innanzi al trauma lo dimostra Melancholia (2008), in cui alcune persone vicine a ribelli morti violentemente anni prima tentano una “finzione terapeutica” per elaborare il lutto. Scelgono cioè di incarnare personalità alternative e fittizie, di reinventare da zero la loro vita inventandosene una finta. Loro falliscono; la messa in scena, invece, trionfa. La melanconia, ricorda Freud, consiste nell’identificarsi con l’oggetto perduto fino a incorporarlo affinché esso, in qualche maniera, continui a vivere in noi. Una tale incorporazione informa, letteralmente, la struttura stessa di Melancholia: il trauma della perdita dei ribelli viene incorporato dal film in corrispondenza del climax pre-conclusivo, momento in cui esso si riavvolge in un lunghissimo flashback dove non c’è articolazione narrativa, ma solo il brancolare nella foresta dei rivoltosi accerchiati. L’impossibilità del Racconto di superare il trauma viene rimpiazzato da una pura ripetizione del trauma, la quale non si dà affatto in senso narrativo, ma semplicemente come articolazione dinamica tra figura umana e ambiente. In una parola: messa in scena. Il trauma non si supera: tuttalpiù lo si ripete, fino a dissolvere i confini tra l’oggetto perduto e coloro che elaborano il lutto (e per estensione noi spettatori stessi) sulla scia di una comune appartenenza all’intreccio tra tempo e spazio che costituisce il trauma metafisico originario. Il trauma lo si supera solo riconoscendo che è sempre qui con noi, dappertutto, perché è la morte stessa, ovvero l’incessante farsi spazio del tempo, a essere sempre qui con noi, dappertutto.

È questo, innanzitutto, il Mito: semplice intreccio tra tempo e spazio. Lo dichiarò lo stesso Claude Lévi-Strauss: «La definizione più profonda che sia mai stata data del mito è un verso dal Parsifal di Wagner: “Vedi, figlio mio, il tempo qui diventa spazio”»2. E Diaz nelle interviste ribadisce spesso che i suoi film sono lunghi perché non sono governati dal tempo, ma dallo spazio, e lo sono perché per secoli l’arcipelago malese ha guardato allo spazio più che al tempo. «[I miei film sono così lunghi perché] il mio cinema non fa più parte del sistema industriale. È libero. Sto applicando la teoria per cui noi malesi, noi filippini, non siamo governati dal concetto di tempo. Siamo governati dal concetto di spazio. Non crediamo nel tempo. Se vivi nel nostro Paese, vedi i filippini passare il tempo. Non sono molto produttivi. Questo è il vero malese. È tutta una questione di spazio e natura… Nell’arcipelago delle Filippine, la natura ha sempre fornito qualunque cosa, fino a quando i colonizzatori spagnoli non hanno introdotto il concetto di proprietà. A quel punto il sistema capitalista ha preso il controllo. Ho sviluppato la mia estetica intorno all’idea che i filippini siano governati dalla natura. Il concetto di tempo ci è stato portato dagli spagnoli: dovevamo dire le preghiere alle sei, cominciare a lavorare alle sette. Prima, era tutto libero, era malese»3.

Secoli dopo, prima dell’avvento del pioniere locale José Nepomuceno nel 1917, furono soprattutto i coloni americani a impiantare il cinema nell’arcipelago, e a esercitare il controllo su di esso. Più in generale, le controverse vicissitudini coloniali delle Filippine tra Ottocento e Novecento si sono intrecciate assai strettamente con il cinema, con la sua nascita e con la sua affermazione. Per questo, fare un film sull’impossibile redenzione di quel paese significa fare un film autoriflessivo. Prima di affrontare questa questione in maniera dirimente e conclusiva in A Lullaby to the Sorrowful Mystery (2016), ambientato negli anni della rivoluzione (1896-97) e in quelli appena seguenti, Diaz mostrava di esserne ben consapevole già nel 2004, in Evolution of A Filipino Family. Già quella saga familiare, infatti, metteva in chiaro come le soap opera radiofoniche che anestetizzavano il popolo durante l’era Marcos erano allo stesso tempo lontanissime e vicinissime (d)alla resistenza contro il regime. La vera resistenza consiste non nell’affermare, né nel negare, bensì nel distornare le soap, quelle caricature del Mito che di esso prendono solo l’anima più banalmente narrativa, e riconvertirne l’arrendevole, melodrammatico fatalismo in negazione della teleologia, in un tempo che si dia non come una linea proiettata in avanti verso la sconfitta, ma come continua spazializzazione. È ciò che ha provato a fare Lino Brocka con la sua reinvenzione del melodramma, ed è ciò che, con mezzi completamente diversi, prova a fare Lav Diaz. Solo sostituendo alla narrazione la messa in scena, con tutta la capillare precisione contestuale della sua coreografia di corpi, oggetti, movimenti e ambienti, il popolo filippino può venire a contatto con se stesso, ovvero riappropriarsi della propria temporalità – che è essenzialmente una spazialità. Sarà poi la sublime e decisiva scena del parto di Century of Birthing (2011) a tematizzare con chiarezza questa maieutica del tempo in continuo procinto di diventare spazio dentro e contro la narrazione.

La struttura di From What Is Before (2014) non può non far pensare al Mito, poiché è un Racconto Della Caduta: ambientato nei primi anni Settanta, esso racconta i giorni che precedettero l’instaurazione della legge marziale da parte di Marcos, visti da un villaggio montano in cui accadono fatti sempre più strani. Cruciale è il prologo, in cui viene raffigurata una società, quella del villaggio, non lontana dall’essere primitiva, ma comunque immersa in una sorta di idilliaco equilibrio omeostatico, grazie all’efficacia apparentemente ancora intatta di quel fratello gemello del Rito che è il Mito. A venir raccontata è insomma la caduta dal regno del Mito a quell’inferno squisitamente postmoderno in cui Mito e Storia vengono relegati in soffitta insieme a qualsiasi speranza di cambiare le cose. E infatti la forma assunta dal racconto è quella che per antonomasia caratterizza la narrativa postmoderna: quella della cospirazione. Secondo Fredric Jameson, il segreto dei racconti postmoderni incentrati su qualche complotto è amaramente semplice: i cospiratori vincono perché sono uniti, mentre la società non lo è4. È esattamente quanto succede in From What Is Before: la società si dimostra profondamente frammentata, e il regime ha dunque buon gioco ad attecchire in profondità. La mitica comunità organica cui si sarebbero voltate le spalle non è mai esistita; l’unico modo di opporsi all’infernale regime postmoderno è guardare a quell’innocenza originaria senza crederci nemmeno un secondo. Il film, dunque, non è allineato con il poeta troppo ansioso di cantare odi alla sua terra, ma con Sito, che nel dialogo finale lo contesta eppure decide di rimanere, unico abitante residuo di un villaggio ormai sventrato. Proprio come il dottore di Satantango di Béla Tarr (1994), autentica opera gemella di questa.

La lucciola, micrometraggio di una novantina di secondi commissionato nel 2013 dalla Mostra del Cinema veneziana in occasione del suo settantesimo anniversario, è il film più corto che il cineasta successivamente insignito del Leone abbia mai girato. In esso, Diaz pronuncia in voce over questi versi di sua composizione: «Arriverà il giorno in cui prenderemo il largo dai misteri della mitologia. Allora canterò delle canzoni che ti renderanno libero». Le immagini, intanto, mostrano l’incedere claudicante di un anziano, ripreso dall’alto della finestra di una camera d’albergo di Cannes. Le canzoni che ci renderanno liberi sono quelle che, con e contro il Mito, lo riconvertono in quello che non ha mai smesso di essere: tempo che diventa spazio, ragnatela coreografica di corpi, oggetti, movimenti e ambienti.

 

Note

1 Possibilità che, nel romanzo, è il personaggio minore Nikolaj Dementev ad incarnare; in Norte, il suo corrispettivo è Joaquin, la cui linea narrativa, invece, scorre parallela alle vicende di Fabian lungo tutto il film.

2 Lévi-Strauss C., Lo sguardo da lontano, Il Saggiatore, Milano 2010 [1983], p. 223.

3 Dichiarazione di Lav Diaz citata in www.filmcomment.com/entry/from-what-is-before-lav-diaz. Traduzione di Ilaria Floreano.

4 Jameson F., The Geopolitical Aesthetics, Indiana University Press, Bloomington 1992, p. 66.

 

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