Di eroi nazionali e leggi marziali. Breve storia del cinema filippino
Lav Diaz n. 3/2017
di Raffaele Meale
Nell’immagine, rimbalzata di rivista in rivista, che ritrae Lav Diaz sorridente mentre alza il Leone d’Oro ricevuto per The Woman Who Left (2016), si nasconde un universo che ai più, com’è inevitabile, resterà completamente ignoto. Lav Diaz, di cui in Italia si iniziò a parlare in maniera concreta a ridosso dell’omaggio torinese, nel tardo autunno del 2005, rappresenta la punta di un iceberg composto da anime artistiche diverse tra loro; per di più, trionfo veneziano a parte, le occasioni in cui Diaz è stato portato all’onore delle cronache si contano sulle dita di una mano – nonostante le vittorie a Locarno e Berlino, e sempre a Venezia nella sezione Orizzonti – e hanno quasi sempre a che vedere con i dati più immediati del suo cinema, a partire ovviamente dall’inusuale durata dei film. La verità, che scoprirete anche in altri saggi all’interno di questo volume, è che la cinematografia filippina di questi primi anni del terzo millennio sta dimostrando una vitalità insospettabile, e non solo per merito di Diaz o dell’altrettanto celebre Brillante Mendoza (miglior regia a Cannes nel 2009 con Kinatay; un anno prima, con Serbis, aveva riportato le Filippine in concorso sulla Croisette a ventiquattro anni di distanza da Bayan Ko di Lino Brocka). Giovani autori del calibro di Raya Martin, Gym Lumbera, John Torres, Sherad Anthony Sanchez, Pepe Diokno e Dodo Dayao, oltre a qualche nome delle generazioni precedenti (Khavn de la Cruz, Raymond Red, Kidlat Tahimik), irrompono sulla scena internazionale con le loro opere, attraendo lo sguardo degli spettatori più curiosi, e degli addetti ai lavori. Il rischio, se di rischio è legittimo parlare, è che questa “new wave” in salsa patis venga letta da coloro che vi si approcciano come il punto di partenza della cinematografia filippina; se è vero che Lav Diaz, in qualche modo, sta creando una Costituzione delle Filippine per e attraverso le immagini, è altrettanto vero che il cinema dell’arcipelago viene da una storia secolare, smarrita nella memoria cinefila ma testimoniata, rintracciabile, e soprattutto viva. Non si tratta solo di tornare indietro di qualche decennio, rimembrando le gesta di Lino Brocka e Mario O’Hara, o di uscire dal recinto autoriale (se qualcosa questo vuol dire) e citare Eddie Romero, eroe dell’exploitation movie di Manila con titoli come The Mad Doctor of Blood Island (1968) e il suo seguito Beasts of Blood (1971). La storia del cinema filippino si muove dal 1912, con la proiezione di La vida de Jose Rizal di Edward Gross, fino all’âge d’or degli anni Cinquanta, con registi come Gerardo de León, César Gallardo, Lamberto Avellana, Gregorio Fernández e Cirio H. Santiago; arriva ai decenni successivi con Brocka, O’Hara, Ishmael Bernal, per poi “rinascere” nell’epoca della prima indipendenza a basso costo.
Di cosa si compone, a conti fatti, la “storia del cinema” di una nazione? Di padri fondatori, primi sperimentatori spinti dalla curiosità (e dalle potenzialità economiche) a mettere le mani su tecnologie di nuova creazione, e poi di un’industria che sorregga le basi ed edifichi paradigmi espressivi e narrativi che il pubblico possa acquisire come tali. Le Filippine sono state e sono ancora una terra in crisi politica pressoché perenne, conquistata, persa e combattuta da Paesi vicini e lontani, assoggettata e liberata, protetta e minacciata in continuazione, all’esterno quanto all’interno, come dimostrano governi autoritari, forze militari in subbuglio, leggi liberticide e guerriglie nel cuore della giungla. Tutti argomenti, ça va sans dire, che il cinema filippino ha messo in scena, scegliendo di volta in volta un diverso punto di vista, o prossimo all’elogio del potere costituito e dello status quo e critico, destabilizzante, teso a un cambiamento dell’assetto politico che quasi mai a Manila e dintorni ha significato un deciso passo avanti verso una democrazia matura e consapevole.
Quel che è certo è che il cinema filippino, fin dai suoi primordi, ha cercato di portare in scena la storia patria, facendo riferimento ora a figure del folklore locale ora – più spesso, per lo meno per quel che concerne la produzione “drammatica” – a fatti storici o eroi nazionali, magari in riferimento alla guerra di liberazione combattuta contro l’esercito spagnolo negli ultimi anni del XIX Secolo e chiamata generalmente “rivoluzione filippina”. Tra gli ispiratori di quest’ultima c’è proprio quel José Rizal alle cui gesta si ispirò il già citato film di Edward Gross, prima opera di finzione prodotta su territorio filippino, per quanto per mano di un manipolo di statunitensi. Rizal è uno dei personaggi chiave dei drammi storici filippini, e la sua figura politica attraversa per intero la produzione cinematografica, arrivando fino al 2014, quando è uscito nelle sale Bonifacio: The First President di Enzo Williams, dedicato alla figura del leader del Katipunan, Andrés Bonifacio, per molti il primo vero presidente delle Filippine – anche se la carica effettiva toccò a Emilio Aguinaldo.
Se La vida de Jose Rizal vanta il record di primo film di finzione prodotto sul suolo filippino, ma rientra comunque in un’ottica di colonialismo cinematografico – visto che la lavorazione è portata a termine da una troupe composta per intero da cittadini degli Stati Uniti d’America – è Country Maiden (1919) il primo film in tutto e per tutto “filippino”. A dirigerlo è José Nepomuceno, il principale tra i pionieri della settima arte di stanza nell’arcipelago del sud-est asiatico. Autore di decine di titoli, molti dei quali andati perduti – a partire proprio da Country Maden – a Nepomuceno si possono attribuire non pochi primati. Fu il primo regista filippino a mettere in scena una sequenza che comprendesse un bacio (tra Luis Tuason e Dimples Cooper1 in The Arrogant Three, 1926), il primo a dirigere un horror (Ang Manananggal, 1927, su una delle creature più mostruose del bestiario locale), il primo a tradurre in immagini nel 1930 il romanzo di José Rizal Noli me tangere, quasi un testo sacro per la popolazione filippina, il primo infine a dirigere un film sonoro che fosse parlato in tagalog. Sotto questo punto di vista Punyal Na Ginto, uscito nelle sale nel 1933, merita una considerazione a parte, che va probabilmente ben oltre i meriti effettivi del film. In una nazione frammentata anche solo sotto il profilo geografico, fare in modo che il cinema veicolasse un linguaggio unico, e autoctono, rappresentò una svolta non indifferente. Nepomuceno, nome pressoché sconosciuto alle platee internazionali, fu una figura chiave, in grado di attrarre accanto a sé il gotha della recitazione locale, da Gregorio Fernandez a Mary Walter, dalla “regina dell’urlo” Monang Carvajal a Rogelio de la Rosa, che negli anni Cinquanta entrerà nel parlamento di Manila in qualità di senatore. La maggior parte dei film della prima epoca d’oro del cinema filippino, come già scritto, sono andati perduti, e una ricostruzione filologica delle tematiche è possibile soprattutto grazie ai materiali pervenuti, a partire dai poster e dalle recensioni dell’epoca: sembra in ogni caso già evidente il predominio del mélo, genere prediletto dalle masse filippine e verso il quale tenderanno tutti i principali autori, a partire da Brocka per arrivare fino a Diaz e Mendoza.
Il 4 luglio del 1946, durante i festeggiamenti per i centosettant’anni dalla dichiarazione di indipendenza, gli Stati Uniti concedono la sovranità alle Filippine, con a capo il presidente Manuel Roxas, fondatore di quel Partito Liberale, nato dalle ceneri del Partito Nazionalista, che tanta parte avrà nel corso del XX e dei primi anni del XXI Secolo. Grazie anche all’apporto economico statunitense, che contribuì alla ricostruzione delle Filippine sotto l’egida di Washington, l’industria cinematografica si ridestò dal torpore, e Manila impazzì delle luci più disparate, tra avventure esotiche (Forbidden Women di Eduardo de Castro, 1948) e melodrammi, fantasy a metà tra il folklore e il racconto biblico e commedie spensierate, spesso inframmezzate da numeri musicali. Nel 1947 esordisce alla regia Eddie Romero con il dramma Ang Kamay ng Diyos, che ha per protagonisti l’attore e regista Gerardo de León, Carmen Rosales e Leopoldo Salcedo.
Come molte altre cinematografie dell’Estremo Oriente, in primo luogo quella giapponese, anche per le Filippine arrivò il momento di superare i confini nazionali per confrontarsi con il panorama internazionale. L’occasione giunse, come spesso all’epoca, alla Mostra di Venezia del 1952, dove in un concorso che ospitava tra gli altri Le Roi et l’oiseau di Paul Grimault, Un uomo tranquillo di John Ford, Vita di O-Haru, donna galante di Kenji Mizoguchi, Europa ‘51 di Roberto Rossellini e Giochi proibiti di René Clément, fece la sua apparizione anche il monumentale – e un po’ ingenuo – Genghis Khan, diretto da Manuel Conde, anche protagonista nei panni di Temujin.
Proprio Conde, in qualche misura, può essere considerato uno dei punti di riferimento di Lino Brocka, il primo vero autore filippino in grado di condensare all’interno dei suoi film un immaginario prolifico, un profondo senso della narrazione e dell’epos e una stratificata lettura politica della propria nazione. Prima dell’apparizione sulla scena di Brocka e di Mario O’Hara (appare davvero difficile slegare le due figure, nonostante lo script che il secondo aveva scritto per Bona [1980] uno dei capolavori del cinema filippino, sia stata snobbata durante la lavorazione del film da Brocka…) c’è però da segnalare la dura e drastica legge per la censura che venne promulgata dal governo nel 1962, di fatto spezzando le gambe a uno studio system già in gravi difficoltà economiche. Da allora il cinema a Manila ha continuato a essere prodotto con estrema continuità, anche se in condizioni di indigenza, di fatto però staccando con sempre maggior forza le operazioni più coraggiose – recluse in uno spazio asfittico – da quelle commerciali, in particolar modo dedite al genere. I film di Brocka e O’Hara, da You Are Weighed But Found Wanting (1974) a Insiang (1976), da Three Godless Years (1976) a Bakit Bughaw ang Langit? (1981), vivisezionano una nazione allo sbando, fatta marcire nella cupa atmosfera della presidenza di Ferdinand Marcos, liberticida al punto da proclamare la legge marziale e rendere pressoché nulla la libertà di stampa e di pensiero.
Pur senza fondare alcun manifesto programmatico, e senza mai venire meno a un senso della narrazione popolare che permise loro di mantenere uno stretto rapporto con il pubblico, Brocka e O’Hara furono i fari di una nuova strada da intraprendere, e segnarono così in profondità l’immaginario cinematografico filippino da ispirare autori tra loro diversissimi, come Diaz e Mendoza, ma perfino alfieri del cinema underground di Manila quali Raymond Red e Khavn de la Cruz. Esiste un cinema pre e post Brocka, su questo oramai non si possono avere dubbi, e tutto quel che si è sviluppato produttivamente nel post risente con forza dello sguardo autoriale di un regista in grado di coniugare uno sguardo morale rigoroso e privo di compromessi a una messa in scena non dimentica di suggestioni espanse, prossima al melodramma, grondante umori. Gli stessi umori che tracimano nel panorama indie degli anni Novanta, quella terra di nessuno in cui viene a formarsi il cinema di Lav Diaz. Quando esordisce alla regia, con The Criminal of Barrio Concepcion, nel 1998, le Filippine festeggiano il primo secolo dalla fine della rivoluzione, e il cinema dell’arcipelago ha quasi novanta anni. Una nuova rivoluzione, dell’immagine, è in atto, ma porta su di sé questi novant’anni di storia, senza mai rinnegarli. Anche se fuori dai confini della nazione in pochi se ne sono accorti. Ma c’è sempre tempo per rimediare…
Note
1 Dimples Cooper, più nota come Elizabeth Cooper, fu protagonista di una storia tragica, e che all’epoca ebbe non poco spazio sulla ribalta internazionale. Nel 1930, quando aveva appena sedici anni, divenne l’amante del Generale Douglas MacArthur, comandante delle truppe statunitensi nelle Filippine. MacArthur aveva divorziato dalla moglie nel 1929, ma aveva cinquant’anni e decise comunque di tenere nascosta la relazione con la giovanissima Cooper. Quando sul finire del 1930 il Generale fu richiamato a Washington, decise di portare con sé l’amante, le comprò un biglietto per il viaggio in nave e le trovò alloggio a Georgetown. Non si fece mai vedere in pubblico con lei, ma lo scandalo esplose in ogni caso nel 1933. Per risolverlo a MacArthur bastò comprare un biglietto di ritorno a Manila per la Cooper, donandole anche 15.000 dollari; la ragazza decise però di rimanere a vivere negli Stati Uniti, e dopo aver cercato senza alcuna fortuna lavoro a Hollywood, si adattò a fare la parrucchiera. Nell’estate del 1960, a quarantasei anni, si uccise procurandosi un’overdose di barbiturici.