Death in the Land of Encantos. Gli uomini sasso e il poeta furioso
Lav Diaz n. 3/2017
di Mariuccia Ciotta
Si scrive Lav e si pronuncia Love, distillato del nome Lavrente, scartato per il suono più poetico che si addice al regista filippino, immerso negli affreschi dell’isola di Bicol con le sue palme scheletriche scolpite nel 2006 dal tifone Durian e dal vulcano Mayon dal cono perfetto. Due furenti protagonisti che dominano Death in the Land of Encantos (2007), opera totale di Diaz arrivato sull’isola di Luzon per riprendere l’immagine del disastro e lasciar libera la videocamera che per empatia va fuori fuoco, annebbia e ingrigisce il bianco e nero mentre il rombo del vento si amplifica nel microfono e rende i dialoghi impercettibili.
Long take e profondità di campo, quadri a ripetizione su devastazione e morte, filippini accucciati tra i sassi, diventati sassi, polvere, lava, 400 vittime seppellite dal fango, e il poeta Benjamin Agusan (Roeder Camanag) di ritorno dalla Russia per vivere il lutto. Il documentario e il suo doppio fantastico.
Ed ecco il punctum barthesiano in un film che non studia l’ambiente per catalogarne le rovine ma “punge” e trafigge, sgretola il realismo, anche quello “traumatico” alla Warhol, e tutto il cinema del reale, pre e post-moderno.
Death in the Land of Encantos è un romanzo di nove ore, il tempo impiegato dal tifone per distruggere tutto, e il tempo per leggere Delitto e Castigo di Dostoevskij, 695 pagine, come sa il giovane Lav nato a Datu Paglas nella regione di Mindanao e cresciuto vicino a un padre affascinato dalla letteratura russa e capace di vedere film per otto ore di seguito.
Il “documentario” senza fine si anima in un montaggio interno di materiali d’arte, dipinge e suona, scava nell’inquadratura e scopre movimenti remoti, qualcosa spunta laggiù e segna la linea dell’orizzonte, un uomo e il suo mulo, una donna trascinata da una personale follia… Il reportage sul tifone Durian entra nell’atmosfera paranoide, nella febbre delirante del poeta Agusan che diventa dramma e melodramma, nostalgia per la donna amata e perduta, paura di una doppia persecuzione, quella della sua stessa mente e quella di un misterioso inseguitore, il mastino delle squadre della morte, che nella post-catastrofe braccavano giornalisti e militanti dell’opposizione. Agusan è un rivoltoso, un sovversivo e scrive versi sul disamore per la patria, la terra dell’incanto e della rassegnazione, e sui filippini subalterni alle dittature, remissivi di fronte agli assalti della natura e dell’umanità feroce.
Il racconto segue altre tracce russe, le riflessioni morali e polifoniche di Sonata a Kreutzer con le voci degli abitanti di Bicol che convergono in una pièce corale, brandelli di verità e di invenzione. Ed è Tarkovskij a evocare gli ectoplasmi del suo cinema sempre più sospeso nel tempo, immobile nel quasi bianco e nero, presente nel cinema di Lav Diaz, che al contrario del regista di Solaris ama il suono delle parole. I dialoghi di Death in the Land of Encantos nella pietrificazione dell’inquadratura danzano su motivi politici e filosofici, denunciano l’ego sterile dell’artista compiaciuto dei suoi sonetti e contemporaneamente beato delle liriche fluttuanti nel cielo nuvoloso. I poemi (scritti da Diaz) hanno il compito di risvegliare i sottomessi e di vincere il disincanto.
In conflitto con l’immagine inerte, le parole corrono interrotte da silenzi profondi, un altalenare di velocità e pause, un prendersi gioco del tempo, a differenza di altri registi che dall’immagine-azione, dal cinema classico e mainstream, passano all’immagine-tempo con un occhio burbero e, direbbe Beniamino Placido, quaresimale. Lav Diaz no, i suoi film sono infiltrati di un certo malizioso humour, forse carpito agli amati fumetti filippini dal gusto romantico-melodrammatico. Sono fermi e in moto.
Il tempo di Diaz non è mai statico, anzi è teso e impaziente in attesa di un’esplosione o di una raffica di vento, e mai si compiace dei poverissimi protagonisti che in Death in the Land of Encantos sono quasi tutti poeti erranti tra le macerie, statue incoronate di alloro, da seguire, ipnotizzati, nel fuori-campo.
L’immersione nel tempo-Diaz non è contemplativa, è una condizione di inquietudine e furore, di fronte alla natura bellissima e crudele e all’aguzzino che perseguita Agusan, colpevole di suggestionare i filippini e spingerli all’odio per la patria. Eppure Agusan-Lav Diaz fa lievitare ad alta quota emozionale l’arcipelago del Pacifico tanto quando il connazionale Brillante Mendoza lo schiaccia tragicamente tra i rigagnoli melmosi di Manila con la sua disperata Ma’ Rosa (2016).
Tormentato dall’idea di una pazzia genetica, il protagonista del film traccia percorsi obliqui, ombre/luci trasversali, plot indecifrabile, sequenze allucinate come la Zagabria di notte – interferenza improvvisa, magica e incoerente – dalle luci affilate che spingono verso l’estetica del Mostro di Düsseldorf (1931), l’Espressionismo tedesco amato follemente da Diaz, e parte importante del suo mosaico di piaceri. Il regista, però, non vuole “manipolare la realtà” e così la trascende per restituire la “verità della vita”, converte il girato a colori in post-produzione e gli dà cinquanta sfumature di grigio, “sporca” suoni e immagini al di là del low budget e rende omaggio nello zoom sul cataclisma alle sue fantasie di scrittore e musicista.
«Godere del proprio tempo» è per Diaz viaggiare nello spazio espanso, in un entanglement quantistico che collega passato e presente, immagine analogica e virtuale, fotografia del luogo massacrato e cinema di genere. Come si vedrà nel Leone d’oro The Woman Who Left (2016), 3 ore e 76 minuti di avventura, spy-story e melodramma, con il ricordo di Chaplin e del kung-fu movie visto nella giungla di Mindanao, supereroi anarchici in lotta.
Benjamin, il poeta filippino, con i suoi passages muta il “tempo morto” in protagonista e capovolge il rapporto tra noia e azione.
Death in the Land of Encantos allunga le sue nove ore nella forma del feuilletton, racconto a puntate, serie, è un organismo vivo, penetrante e onnivoro come una creatura ibrida di Cronenberg. E se la ricerca del tempo (perduto) è il leitmotiv delle nouvelle vague da Pedro Costa a Wang Bing, drammaturghi del reale, in Lav Diaz la dimensione etico-estetica va a propulsione politica, i suoi film sono specchio del mondo, e ci ricordano che il cinema trasforma e rigenera.
Accade in questa opera del 2007, quando il seducente regista filippino era ancora un “fenomeno” e vinceva nella sezione Orizzonte della 64ma Mostra di Venezia. Ora le sue piogge torrenziali, gli spettri vaganti nel nulla, l’avvicinamento progressivo dell’occhio all’oggetto sfocato del desiderio, la grande narrazione in uno spazio-tempo infinito, la potenza rivoluzionaria delle sue ombre inquiete non sono più frammenti interminabili di un artista eccentrico, ma il solo cinema possibile.
CAST AND CREDITS
Titolo originale: Kagadanan sa banwaan ning mga engkanto; regia: Lav Diaz; sceneggiatura: Lav Diaz; fotografia: Lav Diaz; scenografia: Dante Perez; montaggio: Lav Diaz, Jay Ramirez; musiche: Lav Diaz; interpreti: Roeder (Benjamin Agusan), Angeli Bayani (Catalina), Perry Dizon (Teodoro), Dante Perez (Mang Claro/intervistatore), Sophia Aves (Amalia), Soliman Cruz (torturatore), Gemma Cuenca (Carmen), At Maculangan (padre); origine: Filippine, 2007; durata: 540’; premi: menzione speciale Orizzonti alla 64ma Mostra del cinema di Venezia (2007).