Dalla contemplazione alla creazione. Quattro stati di vertigine
Lav Diaz n. 3/2017
di Michele Sardone
La prima vertigine che si prova dinanzi ai film di Lav Diaz è data dalla lettura della loro durata: 540 minuti per Death in the Land of Encantos (2007), 450 per Melancholia (2008), 485 per A Lullaby to the Sorrowful Mistery (2016)… Quote altissime, che magari si affrontano frazionandole in più tappe. Nel 2007 Death in the Land of Encantos (proprio quello di nove ore) fu posto a chiusura della sezione Orizzonti della Mostra del cinema di Venezia e, aprendo il catalogo, si rimaneva impressionati dalla sua presenza fisica nel palinsesto: la sua programmazione occupava la metà di un giornaliero, e già spaventava. Perché al decimo giorno al Lido si arriva con gli occhi carichi di visioni, stanchi e solo vogliosi di buio e riposo, e in più fiaccati nel corpo dall’attesa durante le code all’ingresso delle proiezioni, dal sole e dall’umidità, per poi subire la mal’aria condizionata nelle sale, l’inevitabile malsana alimentazione al chioschetto all’uscita, le susseguenti avventurose digestioni. Per arrivare quindi pronti alla proiezione del mattino bisognava regolamentare la propria condotta sin dal giorno prima: il corpo deve farsi trovare riposato, ben nutrito, vigile, depurato, per poter sostenere una così lunga durata.
Quando ci si ritrova dinanzi a un’opera di un autore mai visto prima, si tenta quasi istintivamente di ricondurla a qualcos’altro di conosciuto, per meglio appropriarsene e poterlo sottoporre all’analisi critica. Si possono ad esempio accostare le immagini iniziali di Death in the Land of Encantos ai primi lavori di Ciprì e Maresco: stesso grigiore brumoso, paesaggi desertici, apocalittici e cosparsi di rovine in campo lunghissimo, umanità postuma a se stessa, la morte di dio, il Vulcano Mayon, con le sue nubi, così simile al Monte Sacro di Santa Rosalia… Ma è un esercizio faticoso, e non può durare per nove ore. Il critico ritorna spettatore, e si concentra di più sulle sensazioni.
Il primo long take ritrae un uomo seduto che guarda il paesaggio devastato, seduto come lo spettatore che lo guarda. Pare di essere riflessi in uno specchio ingannevole: l’uomo piange dinanzi alla visione tragica, lo spettatore non può, non gli è ancora concesso, perché non è ancora iniziata l’immedesimazione. Ci si ritrova quindi a guardare il long take con distacco, nonostante la tragedia di quel che viene ripreso, come se fossimo turisti dinanzi a un quadro in un museo: siamo troppo presi a valutarne il valore artistico per poter comprendere a pieno il senso di quel che viene rappresentato. Prima dell’avvento delle immagini in movimento, gli uomini contemplavano le opere pittoriche per ore, commentando fra loro quel che vedevano e immaginando storie. Abbiamo perso questa capacità di osservazione e di compenetrazione e forse per abitudine e per eccesso di sollecitazioni visive siamo portati a credere di poter comprendere quel che c’è in un’immagine già nel giro di pochissimi secondi. Da Lav Diaz ci vengono concessi diversi minuti per osservare un’inquadratura nei suoi dettagli; quando poi siamo convinti di aver visto tutto quel che c’era da vedere e abbassiamo la nostra attenzione, ecco che ci accorgiamo della presenza di una figura umana in movimento, apparsa come una fantasma dal nulla: ma non può essere così perché a essere inquadrato era uno spazio aperto in campo lunghissimo. Evidentemente quella figura si muoveva lontanissima (e quindi impercettibilmente) già dall’inizio del long take, forse anche da prima che venisse posta la telecamera; il bianco e nero poi contribuisce a confondere i vari elementi del paesaggio, tutti fusi in un difficilmente distinguibile grigiore: la maceria si confonde con l’albero, l’albero con la donna, e questa con la terra dalla quale sembra emergere, la terra con il cielo e le sue nuvole, le nuvole con il fumo del vulcano o di un fuoco nel bosco; il bosco poi riaccoglie la donna, che scompare di nuovo così come era apparsa, lontanissima dal nostro sguardo.
Ecco, il femminile: questa la differenza con Ciprì e Maresco. Se nei due siciliani la donna è assente, in Lav Diaz riemerge sotto forma di fantasma: la rigenerazione rappresentata dalle madri in carne e ossa che salvano vite, in opposizione a madre natura, che quelle stesse vite si riprende… No, ancora sofismi critici fini a se stessi… Eppure quel grigiore persiste, come una nube che avvolge tutto, come una traccia della presenza di qualcos’altro.
Sembra che a essere morta sia la possibilità dell’incanto: dinanzi alla devastazione non è più possibile un’innocente, o incantevole, contemplazione delle cose. L’essere spettatore di una tragedia richiama alla responsabilità dell’inazione, dell’essere passivi testimoni. Se accettiamo questo presupposto, la compartecipazione non è data dall’esistenza di un presunto senso del mondo, un senso ulteriore, metafisico, ma dall’incredibile varietà delle cose e da come la capacità creativa dell’uomo riesca a rendere percepibile questa moltiplicazione; moltiplicazione che non è dispersiva, ma al contrario è la migliore testimonianza di come le cose possano essere collegate fra loro. A questa intima comunanza, questa essenza che pervade e unisce e connette tutto, nebulosa e grigia nei film di Diaz, azzardiamo il nome di “anima di ogni cosa”. L’esistenza dell’anima è funzionale alla migrazione di forma in forma, perché una donna possa diventare albero e viceversa, in un molteplice ciclo di trasfigurazioni di cosa in cosa. E in questo processo viene coinvolta anche l’anima dello spettatore (ammettendo per un attimo che esista, e vedendo cosa accadrebbe). Proviamo quindi a descrivere le percezioni che quest’anima potrebbe esperire dinanzi alla visione di Death in the Land of Encantos e le relazioni con altre facoltà che vengono chiamate in causa durante la visione, quali volontà, immaginazione, memoria, intelletto.
Affrontare un film di Lav Diaz comporta certamente uno sforzo fisico e intellettuale, uno sforzo di volontà: una risoluta costrizione a tenere il proprio corpo legato alla poltrona e una non meno ferma disciplina a tenere gli occhi aperti e attenti, fissi sullo schermo, sono indispensabili. Può sembrare paradossale, ma soltanto fiaccando il corpo e l’intelletto si può avere il controllo su di essi e raggiungere la quiete indispensabile per liberarsi dei loro affanni. Un meccanismo simile accade per la lettura di un libro di mille pagine: solo agendo sulla volontà si potrà non cedere alle defaillances del corpo e dell’intelletto; accade infatti che a un certo punto della lettura non si fa più caso al numero delle pagine cui si è giunti, né tantomeno si calcolano quelle che mancano alla fine; si raggiunge uno stato di quiete e di serena spossatezza, e si prova addiruttura rammarico, se non dolore, a dover interrompere la lettura; e con trepidazione si aspetta il momento di riprenderla.
Allo stesso modo, nel bel mezzo della visione, ci ritroviamo in uno stato di attenta e partecipe ipnosi. Le digressioni mettono a dura prova le resistenze della memoria: il tempo non è lineare, il passato è ancora presente e si manifesta irrisolto, contraddittorio, confuso; il tempo non è neanche imprigionato in un immoto istante presente; si inizia a pensare che il tempo non è e basta. Ci siamo liberati del suo cadenzare e del suo frazionamento in ore minuti secondi, e ci teniamo stretta questa condizione con pochissima fatica perché l’intelletto lavora molto piano, seguendo cioè il ritmo lento e atemporale della visione.
Passiamo quindi da uno stato di quiete a uno di sollievo e sperimentiamo una piccola seconda vertigine, ben diversa da quella che avevamo provato prima leggendo la durata del film. Il sollievo ci viene dato dallo sgravarci delle paturnie del presente, dall’inquietudine per un futuro incerto, dalle recriminazioni legate al passato. In questo stato cambia la percezione della visione tragica: si passa dall’angosciata indifferenza (l’essere troppo concentrati sulla propria condizione inaridisce, e non riusciamo quindi a sentirci coinvolti in quel che vediamo, nonostante questa nostra indifferenza ci faccia sentire vagamente in colpa) al partecipe distacco (il nostro corpo ha un limite, e se riusciamo a superarlo staccandoci da esso ci accorgiamo della caducità di quel che ci circonda: non siamo colpevoli di quanto accade, ma questa posizione privilegiata di distacco ci permette di guardare meglio le cose). I pericoli da vincere in questo stato sono dati però dall’immaginazione: un’anima distaccata tende a vagare nelle sue fantasie e a perdersi dentro di esse; per questo viene in soccorso il pensiero, sotto forma di dialoghi e riflessioni, con cui Lav Diaz, come un suddetto romanziere, tiene fermamente legata la sua opera alle cose. La dialettica, la teoria, l’analisi critica e storica degli eventi tengono unite le opposte tensioni che pervadono il suo cinema: da una parte la rappresentazione di quel che è, la sua pura riproposizione come appare e come si esprime; dall’altra la trasfigurazione dell’esistente, attraverso l’analogia e le sue spontanee associazioni figurative. In questo modo, la memoria e l’immaginazione particolari dello spettatore vengono ricondotte in memorie e immagini generali: la storia individuale si riconosce in quella universale dell’uomo attraverso l’immedesimazione in un comune destino.
A questo punto l’immedesimazione è totale, siamo nel centro della vertigine, senza accorgercene. Questo terzo stato vertiginoso ricorda il “paradosso di San Gregorio” nel modo in cui ci viene raccontato da Raoul Ruiz in Ruiz faber: «L’anima è allo stesso tempo a riposo e in movimento, girando vorticosamente su se stessa, come un ciclone attorno al proprio occhio, mentre gli eventi passati e futuri svaniscono nella distanza». Le immagini non ci sembrano più proiettate sullo schermo, e non sappiamo se vengono impresse direttamente sulle nostre iridi o se sono proprio i nostri occhi a produrle; o più semplicemente, non ci poniamo per nulla la questione, tanto profonda è divenuta la nostra adesione a quel che vediamo. Nessuna immagine più si imprime, tutte fluiscono, e noi con loro: memoria e immaginazione sono libere e alla deriva, la volontà (che tanto ci aveva aiutato all’inizio) non è più necessaria, il nostro pensiero è quello sotteso nel film (se ce n’è uno), le multiformi figure della nostra anima (se esiste) sono nella visione. L’elevazione provata prima lascia il posto a una docile esaltazione, al puro godimento percettivo che è dato dal vedere. È qualcosa di ben diverso dalla contemplazione, che spesso viene associata al cinema di Lav Diaz; piuttosto si ha la sensazione di avere nuovi occhi, e di incominciare a vedere per la prima volta. Un prolungato esercizio a vedere espanso nel tempo sembra avere il potere di espandere a sua volta la vista stessa.
Questo potere e questa esaltazione ci convincono che possiamo noi stessi essere creatori di nuove immagini. Il vedere contiene ora qualcosa in più del godimento, ovvero la possibilità di trasfigurare quel che si vede e quindi ricrearlo in nuova forma. Vedere non è più un atto passivo e contemplativo. Vedere una cosa significa già ricrearla.
E a questo punto il film termina e sfinisce. Un attimo dopo essere riusciti a far svanire l’idea di una fine, la fine arriva. Un qualcosa di simile dovevano provare le anime, nel tempo in cui ancora cadevano sulla terra, al momento del loro impatto. Dopo nove ore riveniamo alla luce in sala, e trasciniamo i nostri corpi intorpiditi e doloranti verso l’uscita. Fuori, siamo stupiti da quanto l’ultimo sole estivo possa far male agli occhi, nonostante sia al tramonto, e di come riesca a far fuggire i fantasmi apparsi sullo schermo. Ci muoviamo come spettri, e tali ci appaiono i nostri simili, partoriti, noi e loro, da chissà quali creatori. Pian piano ci abituiamo al mondo, sforzandoci di riconoscerlo. D’improvviso si è colti dall’orrore del vuoto che si ha dentro di sé, spalancatosi per la mancanza di quello che abbiamo lasciato in sala. Siamo presi dall’ultimo stato di vertigine, il quarto e il più angosciante: torniamo immersi nello scorrere lineare del tempo, al termine del quale il nulla ci attende. Vorremmo subito ritornare nel precedente stato di esaltazione, ma ci rendiamo conto di quanto sia futile, se non dannoso, provare un desiderio del genere. La quotidianità sta già ricolmando melliflua quel vuoto, ma forse riusciremo a resistere in parte e a lasciare un po’ di abisso dentro di noi. Questa piccola zona di resistenza, vuota, ha anche una sua fascinazione. Facciamo ricorso all’intelletto, alla memoria, all’immaginazione e alla volontà per trattenere quella sensazione di potenza che ci è stata data dal possedere i nostri occhi. Con essi abbiamo visto come la devastazione possa distruggere il creato; il deserto che ne consegue è una possibilità di ricostruzione. Con consapevole distacco sappiamo che il ciclo delle creazioni e delle distruzioni durerà fino alla fine della terra. E quella piccola zona vuota, resistenziale dentro di noi, appare quindi così necessaria per ripensare una nuova creazione, per contemplarne almeno la possibilità.