Century of Birthing. Il cinema come casa dell’essere
Lav Diaz n. 3/2017
di Giampiero Raganelli
La lunga sequenza di uno strano rito compiuto dentro un laghetto apre il film. Come un battesimo nell’acqua: un gruppo di adepti è radunato attorno a Padre Tiburcio, il guru di una setta. Da un lato Lav Diaz si muove in quell’humus di superstizioni e credenze popolari proprio della cultura filippina, come era stato raccontato in un’opera chiave del cinema dell’arcipelago, Himala di Ishmael Bernal (1982) – incentrato su una presunta apparizione mariana – opera che Lav Diaz considera tra le sue fonti principali di ispirazione (come già enunciato in uno dei suoi primi film, quel West Side Avenue [2001] che inaugura il suo stile cinematografico, dove nella stanza del protagonista campeggia una locandina proprio di Himala). Dall’altro il personaggio di Padre Tiburcio si rivela come una figura metanarrativa che permette di riflettere sull’ontologia del cinema di un Lav Diaz che, in quest’opera, mostra una matura consapevolezza del suo status autoriale, anche ironizzando su come ormai sia diventato un regista à la page nei festival internazionali. Il santone rappresenta la continuazione di Julian del precedente film Melancholia (2008) e, attorno alla sua figura, si sviluppa un ragionamento sull’arte e il suo ruolo nella società. Julian è stato di fatto un attore, quando nella prima parte del film impersona il ruolo di sfruttatore di prostitute, mentre in realtà è un editore, che peraltro potrebbe pubblicare un romanzo sulla storia del cinema filippino. Nel corso di Melancholia, Julian è anche fotografo, regista di teatro estremo e regista di spettacolini porno dal vivo, per diventare, alla fine, il carismatico fondatore di un movimento artistico che assume sempre di più i connotati di una setta fondamentalista. Julian cede qui il testimone a Padre Tiburcio, che accentra le stesse funzioni misticheggianti e artistiche. È infatti un ex-attore e, preparando i suoi sermoni, recita, applicando le tecniche apprese nella sua precedente professione. Quando il santone si suicida grida: «Viva il teatro!», come se il mestiere di attore fosse l’attività vera che ha svolto per tutta la vita, fino al suo epilogo, nello stesso gioco di mimesi attuato dai personaggi nella prima parte di Melancholia. Padre Tiburcio ha giocato da attore nel teatro del mondo, ha rivestito consapevolmente un ruolo, si è mimetizzato nella società. In questo senso, fa parte di quella galleria di doppiogiochisti e infiltrati che popolano la filmografia del regista filippino.
Lo stile tipico delle narrazioni fiume di Lav Diaz prevede una serie di sequenze iniziali tra loro apparentemente autonome, tra le quali, al dipanarsi della storia, cominciano a manifestarsi legami narrativi, fino al coagularsi delle tante microstorie attorno a due principali tracce. In Century of Birthing i due macrofiloni narrativi si raggrumano attorno a due figure, quella di Padre Tiburcio e quella del regista che ne rappresenta il contraltare, e che è palesemente l’alter ego dello stesso Lav Diaz. Il tema del doppio è ricorrente nella sua opera, lui che pure si è sdoppiato utilizzando pseudonimi come quello di Taga Timog. Il regista prova fastidio a rivestire lo status di filmmaker esotico che lo rende appetibile come fiore all’occhiello dai selezionatori di festival e lo vediamo, mentre è a una bancarella di scarpe, liquidare in malo modo il direttore di un festival francese che l’ha chiamato al cellulare. Questo regista, anche somigliante fisicamente a Lav Diaz, realizza film come se fossero dei sogni; il suo fare cinema consiste nel ricreare e reinventare i ricordi; persegue il raggiungimento della verità del cinema e la definizione di una sua personale “prassi” e un suo linguaggio. Se Padre Tiburcio, in una delle tante specularità del film, promette ai suoi seguaci di entrare nella casa della gioia, della felicità, della conoscenza, della libertà e della redenzione, e concepisce il mondo e l’universo come la casa dell’uomo e di Dio, e il ritorno alla casa del padre come destino ultimo degli uomini, il regista vede il cinema come la «casa dell’essere» di Heidegger. Il riferimento al filosofo tedesco può valere tanto per il suo primo periodo, quello di Essere e tempo, quanto per il secondo, quello di In cammino verso il linguaggio, quello della celebre forma del linguaggio come casa dell’essere, appunto. Diaz persegue quella purezza nel cinema che Heidegger identifica nella poesia, la prima forma di linguaggio che mantiene intatta la freschezza dell’essere. La purezza è quindi un ritorno alle origini, posto che tutta la cultura occidentale post-socratica, nel pensiero di Heidegger, sia occultamento/oblio dell’essere.
Nel macrofilone narrativo del regista si innestano e diramano altre storie secondarie. Nella sua stanza campeggia, come nel caso del protagonista di West Side Avenue, un manifesto cinematografico. È quello di Che ora è laggiù? di Tsai Ming-liang (2001), opera con cui il regista taiwanese getta un ponte verso la cultura cinematografica francese, Françcois Truffaut e il suo alter ego, il suo feticcio, Antoine Doinel/Jean-Pierre Léaud. Attraverso una serie di sdoppiamenti o transfer, Lav Diaz fa girare al regista il suo Vi presento Pamela, film nel film come in Effetto notte (1973). Ne è protagonista l’attrice Angel Aquino, che mantiene il suo vero nome nei panni dell’attrice-personaggio di Century of Birthing. Nel film nel film interpreta il ruolo di una suora, un ruolo presente anche in Melancholia. E Lav Diaz gioca anche sulla consistenza dell’immagine nell’era del digitale: alcune scene, all’inizio, denotano la bassa qualità tipica dei film scaricati, tanto da indurre gli spettatori a dubitare della correttezza tecnica della proiezione cui stanno assistendo. Si rivelerà solo in un secondo momento che quelle sono le immagini nel laptop del regista, che sta montando il film. La superiorità del grande schermo è sancita da una strizzatina d’occhi, apprezzabile solo dai quattro gatti che hanno visto il film in sala.
C’è poi un ulteriore personaggio che registra il reale nel flm. È un fotografo che insegue Padre Tiburcio per realizzare su di lui un documentario-reportage a base di interviste. Lo stesso lavoro che Diaz faceva in Death in the Land of Encantos (2007). Nella sottotrama dedicata al regista il cinema si moltiplica in una serie di matrioske, mentre in quella di Padre Tiburcio si scompone nel teatro, nella messa in scena orchestrata dal guru, e nella registrazione del reale del documentarista. Solo nel finale, in un paesaggio naturale in bianco e nero contrastato, con il regista che incontra la sciamana che partorisce all’aperto, avremo la ricomposizione dei due filoni, nella purezza della natura e del cinema, nella casa dell’essere.
CAST AND CREDITS
Titolo originale: Siglo ng pagluluwal; regia: Lav Diaz; sceneggiatura: Lav Diaz; fotografia: Lav Diaz; scenografia: Perry Dizon, Hazel Orencio, Dante Perez; montaggio: Lav Diaz; interpreti: Angel Aquino (sorella Angela), Perry Dizon (Homer), Hazel Orencio (donna pazza/vergine), Joel Torre (Padre Tiburcio), Bart Guingona (ex detenuto/dindo), Soliman Cruz (filosofo), Roeder Camanag (fotografo), Angeli Bayani (Ana/centralinista); origine: Filippine, 2011; durata: 360’.