Lo stile classico di Jorge Luis Borges
Fausto Gianfranceschi
«Che cos’è lo scrittore?» Risposta: «Lo scrittore non è una professione ma un destino. Una delle forme, non la più povera, del destino umano. Lo scrittore scrive innanzitutto per se stesso. Per una necessità». A parlarmi in questo modo è Jorge Luis Borges. Il grande maestro della letteratura ispano-americana, ormai vecchio e cieco, ha voluto “rivedere” l’Italia, già visitata nei suoi giovani anni, all’alba della Prima guerra mondiale.
Conoscitore inarrivabile di testi antichi e moderni, esplorati con lo scrupolo di un filologo curioso ed erudito, poeta raffinato e vitale cantore di spiriti e memorie della sua terra, egli rappresenta ancora, nella fauna chiassosa e volgare della cultura contemporanea, una stupenda eccezione. Cui tributare commossa reverenza.
«In quale epoca le piacerebbe vivere?»
«In nessun’altra» risponde, «perché sarei un’altra persona.»
«Ha paura della morte?»
«Non ho paura della morte. Ho speranza nella morte. Se mi dicessero che debbo morire ora, risponderei: Sono pronto.»
«Qualcuno ha definito Borges il maggior scrittore vivente. Lei è d’accordo?»
«Non sono il maggior scrittore vivente. Sono un buon lettore di classici. Sono migliore come lettore che come scrittore. Ho riletto dodici volte la Divina Commedia, all’inizio senza conoscere l’italiano.»(1)
«Crede nell’impegno dello scrittore?»
«Credo nell’impegno etico dello scrittore, non in quello politico.»
Siamo all’Istituto Italo-Latino Americano. Quel che Borges mi dice è spia di orientamenti assolutamente fuori moda, anzi del tutto controcorrente. Non a caso, una rivista di sussiegosi e saccenti intellettuali marxisti lo ha definito «uno scrittore coloniale», che privilegia «la cultura della metropoli, cioè dell’Europa, su quella autoctona». Chiediamo a Borges cosa ne pensa.
«Credo che la cultura occidentale, non esito a dire la cultura derivata dall’Impero Romano, sia un fatto capitale nella storia dell’umanità. In Argentina non esiste una cultura autoctona. Non ci sono né indios né barbari. La cultura del nostro Paese è europea. Noi siamo una periferia dell’Europa. E voi europei dovete contribuire a salvarci.»
È difficile immaginare qualcosa di più irritante, di più controcorrente, per l’intelligenza radicale e progressista che ha rinnegato o alienato la tradizione occidentale, quasi considerandola un’eredità di cui vergognarsi, un intollerabile peso. Eppure l’arte di Borges è così seducente, le suggestioni che provengono dalla sua opera sono così intense da far superare riottosità e pregiudizi altrimenti insormontabili. Non al punto, naturalmente, di fargli attribuire il Nobel. Il personaggio Borges desta complessi di odio-amore, emana fascino e suscita fastidio, o almeno perplessità. Un insieme di sentimenti che può rasentare un irrazionale feticismo come un’estrema curiosità fra il mondano e il culturale.
Borges è un mito che non si comprende interamente ma di cui si avverte la calamitante diversità, la sublime capacità di catturare anche chi tenta di replicare con esorcismi e dissacrazioni.
«Lei si ritiene un classico?»
«Posso dire soltanto che amo la letteratura classica, a cominciare dalla mitologia. Anche se scrivo di Buenos Aires o ambiento le mie storie in Oriente, raccolgo sempre l’eco della letteratura classica. Non faccio altro che rileggere i classici come se fossero contemporanei.»
E ciò ne fa un essere apparentemente anacronistico, una sorta di meraviglioso sopravvissuto. Borges non esita a definirsi individualista, uomo libero che cerca di opporsi alle forze del determinismo, profondamente scettico nei confronti di ogni ideologia, guidato da una persuasa adesione all’amor fati e al senso dell’onore come virile accettazione del proprio destino. È un modo di percepire la vita attinto dai libri, da quell’enorme biblioteca che racchiude tutti gli ineluttabili modelli della storia dell’uomo assai meglio delle opere di storia, condizionate dalle opinioni di chi le scrive al momento.
Per questo la letteratura di Borges è fatta anche di libri apocrifi che egli compendia con gusto inimitabile. Perché per lui la realtà non è che un riflesso, nelle sue costanti, di ciò che i grandi libri conservano e tramandano. Nella bruciata biblioteca di Alessandria forse era scritto il destino di ciascuno di noi. E il cittadino di Babilonia è nostro contemporaneo.
Borges ha partecipato a meetings culturali in suo onore, dove le sue opere sono state lette in italiano. Così commenta: «È strano udire queste pagine nella vostra lingua. Perché sono mie e allo stesso tempo non lo sono, toccate dalla stupenda musicalità italiana. Sono emozionato di trovarmi in Italia, che amo soprattutto attraverso la chiara ombra di Dante, e di accorgermi di avere anche qui tanti amici. Lo scrittore crede di essere solo. Non sa, fino a quando non lo sente così intensamente, che dalla sua opera si distaccano cerchi destinati a migliorare ciò che lui ha fatto».
Note
- L’amore di Borges per Dante è testimoniato, tra le altre cose, dai suo Nove saggi danteschi (ed. it. a cura di Tommaso Scarano, Adelphi, Milano 2001) [N.d.C.].