Il computer di Babele

Pierfrancesco Prosperi
Jorge Luis Borges – Il Bibliotecario di Babele n. 12/2017
Il computer di Babele

«L’universo (che altri chiama la Biblioteca) si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo bordati di basse ringhiere. Da qualsiasi esagono si vedono i pia­ni superiori e inferiori, interminabilmente.» (Jorge Luis Borges, La Biblioteca di Babele, in Finzioni, 1944)

Il motore della vecchia Panda non reggeva il minimo, ma la spending review governativa non permetteva al commissariato di Quarto Oggiaro l’acquisto di un nuovo gruppo farfallan­te, il dispositivo che da alcuni anni aveva sostituito la vecchia “farfalla” del carburatore e la cui caratteristica principale era di costare molto, molto di più. Il commissario Ingravallo, che da anni si era rassegnato a sentirsi chiamare da amici e colleghi Un­maledettoimbroglio, in omaggio al protagonista del racconto di Gadda e al film di Germi che ne era stato tratto, spense il motore dopo l’ennesimo singulto, parcheggiando dietro l’ambulanza, il mezzo dei Vigili del Fuoco e la pantera dei Carabinieri. Arrivava buon ultimo, ma con i capricci della Panda era già tanto che non avesse dovuto farsela a piedi.

Superò le transenne e le reti di plastica arancione che i pom­pieri avevano disposto attorno alla palazzina crollata giusto in tempo per vedere tre infermieri trasportare a braccia verso l’am­bulanza i resti sanguinolenti di un corpo schiacciato e maciulla­to. Gli venne in mente che tra i quattro veicoli disposti attorno al cumulo di pietre e mattoni ne mancava uno, il più utile: il carro funebre.

Mosse qualche passo incespicando fra i detriti e osservò ogget­ti di tutti i tipi, brandelli di un’esistenza distrutta, affiorare fra le travi di legno smozzicate e i frammenti di muratura e intonaco. Tra stoviglie di cucina, materassi e accessori da bagno c’era una tipologia di oggetti che attirò immediatamente la sua attenzio­ne. Libri. Decine, centinaia di libri che affioravano dappertutto. Libri strani, tutti uguali.

Ne prese uno a caso. Era come tutti gli altri, alto tre o quat­tro centimetri, in formato A4 – lo stesso dei fogli da macchina, o meglio da stampante – e rilegato in leggero cartoncino nero, senza titolo. Lo sfogliò, osservando perplesso la sfilza di parole senza senso che riempivano ossessivamente ogni pagina.

«Si chiamava Strano Concetto» lo informò più tardi, in omaggio alla collaborazione tra le forze dell’ordine, il tenente Lojodice dei Carabinieri. «Strano di cognome, Concetto di nome. Anni trentadue, originario di Messina.»

«Cos’è, uno scherzo?» borbottò Ingravallo, che quella matti­na si era levato con la luna di traverso.

«No, per niente. Quel giorno di trentadue anni or sono, il signor Strano senior si sentiva in vena di originalità, e invece di denunciare all’anagrafe un qualsiasi Filippo o Alessandro decise di marchiare a vita il suo primogenito con questo nome immaginifico.»

«Be’, da uno che di cognome fa Strano lo si poteva aspettare.»

«Non c’è limite alla perversione umana» aggiunse Lojodi­ce, togliendosi il berretto e accarezzandosi la nuca quasi calva. «Anni fa, quando ero in servizio ai Castelli Romani, in un co­mune famoso per la sua porchetta ho conosciuto una famiglia dal cognome doppio, che si chiamava, cioè si chiama, Russo Del Popolo, ma che tutti chiamavano Del Popolo Russo.»

«Ebbene?»

«Ebbene, un bel giorno il signor Russo Del Popolo decise di entrare a sua volta nel Guinness della coglioneria, perché il suo terzo figlio, dopo due banalissimi Giorgio e Andrea, lo volle chiamare Salvatore.»

«Non ci credo…» ribatté il commissario.

«Basta consultare l’anagrafe di quel comune» ribatté asciutto Lojodice.

«Salvatore Del Popolo Russo» recitò Ingravallo in tono medita­bondo. «Hai ragione, la mente umana è capace di qualsiasi cosa…»

«Quanto al motivo che ha mandato all’altro mondo Concet­to Strano, o Strano Concetto, che fortunatamente era l’unico occupante della palazzina» riprese il militare, «secondo i miei uomini – il caso vuole che fra loro ci sia un ingegnere civile neo­laureato che fa l’appuntato per assoluta mancanza di lavoro – il gas non c’entra nulla. Nessuna fuga di metano, né tentativo di suicidio.»

«E allora, le cause del crollo?»

«Cedimento strutturale, dovuto forse al sovraccarico.»

«Ma cosa faceva là dentro questo Strano Concetto?»

«Non è chiaro. Secondo i vicini era un tipo un po’ orso, non usciva quasi mai né dava confidenza a nessuno.»

«Parenti?»

«Solo al mondo. Stiamo indagando fra conoscenti ed ex col­leghi di lavoro – fino a qualche anno fa faceva il commesso in una libreria di Milano – ma per ora non abbiamo messo assieme granché.»

«Ah, benissimo.»

* * *

«A ciascuna parete di ciascun esagono corrispondono cinque scaffali; ciascuno scaffale contiene trentadue libri di formato uniforme; ciascun libro è di quattrocentodieci pagine; ciascu­na pagina, di quaranta righe; ciascuna riga, di quaranta lettere di colore nero.» (Jorge Luis Borges, La Biblioteca di Babele)

«Il commissario Ingravallo?»

«E lei chi è?»

«Mi chiamo Loriano Lamberti» disse il giovane magro e oc­chialuto, con una testa folta di capelli scompigliati, sedendosi di fronte al poliziotto. «Lavoro presso il Centrocopia di Quar­to Oggiaro, il più fornito negozio di materiali per uffici della zona, e conoscevo abbastanza bene il signor Concetto Strano. Si serviva sempre da noi ed eravamo entrati in confidenza. Direi che eravamo diventati quasi amici.»

Ingravallo appoggiò i gomiti sulla scrivania e il mento sulle mani intrecciate. «Cosa può dirmi, dunque?»

«Ecco» riprese Lamberti, «da quel che ho potuto capire, il signor Strano, che era laureato in lettere moderne, nel periodo in cui lavorava in libreria è rimasto affascinato dalle opere di Jorge Luis Borges, il grande scrittore argentino. In particola­re, quel breve racconto, La Biblioteca di Babele, era diventato per lui un’autentica ossessione. Ne ha sentito per caso parlare, commissario?»

Ingravallo corrugò la fronte. «Vagamente. È un posto pieno d’infiniti volumi, no?»

«In sostanza, sì. Una biblioteca costruita da chissà chi, di estensione infinita, che contiene un numero infinito di libri. Infinito significa che, oltre a contenere tutte le opere in forma scritta, letterarie e non, redatte dall’inizio della storia umana, la Biblioteca comprende tutti i libri che possono essere compo­sti combinando in qualunque modo tutte le lettere dell’alfabe­to; vi sono contenuti quindi, oltre alla Divina Commedia, ai Promessi Sposi e al Decamerone, infiniti libri che differiscono da loro per una lettera, un punto e virgola, una parola in più o in meno. Quindi migliaia e migliaia di quasi-Divine Commedie, quasi-Promessi Sposi, quasi-Decameroni

«Pazzesco» commentò il poliziotto.

«È il termine esatto.»

Ingravallo ripensò al volume che aveva sfogliato, pieno di fra­si insensate. «Quindi la stragrande maggioranza dei volumi contenuti nella Biblioteca di Babele è priva di qualunque senso compiuto.»

«Proprio così. La loro esistenza è giustificata dal fatto che cia­scuno di essi è diverso dagli altri per un particolare, anche mini­mo. In altre parole, ognuno rappresenta uno dei libri possibili

Il commissario cambiò posizione sulla poltroncina. «E mi sta dicendo che Concetto Strano aveva perso la testa dietro a que­sta… astrazione?»

Il giovanotto annuì. «Per lui era diventata una passione di­vorante. Si era messo in testa di dare vita, di tradurre in realtà – anche parzialmente – quella che era una pura invenzione let­teraria, la cui impossibilità intrinseca è evidente per qualunque persona razionale.»

«Sennonché…»

«Si verificò un imprevisto; il padre, un imprenditore rampan­te con cui i rapporti erano quasi inesistenti, morì d’infarto la­sciandogli in eredità una piccola fortuna. Concetto interpretò questo fatto come un segno del destino. Lasciò il suo lavoro in libreria e investì la maggior parte di quei soldi in un super-com­puter che altrimenti non si sarebbe mai potuto permettere; un modello Storage System serie 9900 della IBM, con una memo­ria di 800 terabyte.»

«Un modello industriale, dico bene?»

«Sì, qualcosa che per un privato non avrebbe senso. Lo in­stallò al pianterreno del villino liberty in cui viveva da solo, e con un programma dedicato, in realtà molto semplice, riuscì a generare in modo automatico un numero impressionante di volumi.»

«Impressionante quanto?»

«Mi disse di essere arrivato a stivare nella memoria del com­puter un numero di libri pari a 10 elevato a 1.999.982; non infi­nito, ma qualcosa di molto vicino.»

«Sarà stato soddisfatto» commentò Ingravallo.

«Per niente. Stava perdendo ogni contatto con la realtà. Volle dare corpo fisico alla sua ossessione e pretese di stampare un primo lotto di quei volumi.»

* * *

«La Biblioteca esiste ab aeterno. Di questa verità, il cui corol­lario immediato è l’eternità futura del mondo, nessuna mente ragionevole può dubitare.» (Jorge Luis Borges, La Biblioteca di Babele)

Quella mattina Ingravallo avrebbe dovuto occuparsi di una quantità di piccole e grandi incombenze, ma non riusciva a sottrarsi al fascino un po’ sinistro di quell’ossessione libresca. «Avrà avuto bisogno di una super-stampante» commentò asciutto.

«Certo, e non è che di soldi gliene fossero rimasti molti. Ma riuscì a stringere un contratto di sponsorizzazione con la Hew­lett Packard. In vista di un ritorno pubblicitario, la ditta gli mise a disposizione una stampante laser ad alta velocità messa a punto appositamente, che Concetto installò al primo piano. E iniziò a stampare.»

Ingravallo scosse la testa. «Ma dove voleva arrivare?»

«Gliel’ho detto, era come posseduto. È stato allora che ci sia­mo conosciuti; ha iniziato a frequentare il nostro negozio per ordinare a getto continuo risme di carta, inchiostro e materia­le di consumo. Pian piano siamo entrati in confidenza e mi ha messo a parte del suo folle progetto.»

«E lei non ha cercato di dissuaderlo?»

«Certo, ho tentato di fargli capire che era un’impresa insen­sata, che soprattutto non poteva pensare di stivare tanti libri in quella palazzina, avrebbe dovuto cercare un posto molto più grande. Ma era divorato da un fuoco interno. Ogni tanto an­davo a portargli del materiale a casa, in genere risme di carta e cartucce per la laser, e trovavo il villino sempre più pieno di libri vomitati dalla HP e rilegati in cartoncino nero con una incollatrice a caldo. Nelle ultime settimane, per arrivare al suo studio bisognava percorrere dei cunicoli scavati in mezzo a pile altissime di volumi.»

«E poi?»

«Negli ultimi giorni sembrava aver ripreso un po’ il contatto con la realtà. Non era molto forte in matematica, ma aveva fatto un paio di calcoli e si era reso conto che, anche alla stupefacente velocità della HP (che peraltro cominciava a perdere colpi), per stampare anche solo il primo miliardo di volumi gli sarebbero occorsi 1.902 anni e sette mesi…»

«Perché, voleva arrivare a un miliardo!?»

«Inizialmente sì. Dopo aver fatto quei conti e soprattutto aver intasato di volumi neri ogni stanza, sgabuzzino e sottosca­la, decise di fermarsi a dieci milioni. Contattò la casa produt­trice della stampante per organizzare uno show pubblicitario al raggiungimento di quella cifra. Mi chiamò il giorno prima della tragedia. Era arrivato a 9.999.998 volumi, mi disse. Gli bastava una risma di carta, una singola risma per stampare gli ultimi due.»

«Perché, di quante pagine era composto ciascun libro?»

«Se avesse letto Borges saprebbe che ogni libro della Bibliote­ca di Babele è formato da quattrocentodieci pagine.»

«Ma, scusi, una risma non è di cinquecento fogli?»

«Certo, ma le pagine sono stampate sui due lati. Quin­di con una risma si fanno mille pagine. A lui ne mancavano ottocentoventi.»

«Quindi lei è andato a portargli una risma di carta. Una sin­gola risma.»

«Proprio così.» Loriano Lamberti appariva provato, esau­sto, come se il racconto lo avesse svuotato. «L’ho trovato cupo, smagrito, con gli occhi febbricitanti. Sembrava non mangiasse da giorni. “È finita, è quasi finita” mi ha sussurrato. Me ne sono andato in fretta, anche perché, salendo le scale, avevo sentito scricchiolii un po’ sinistri che provenivano dai solai. E, poche ore dopo…»

Tacque. Il commissario Ingravallo, detto Unmaledettoimbro­glio, tamburellò a lungo con le dita sul tavolo. «Dannato paz­zo» commentò alla fine. «Lamberti, quanto pesa una risma di carta?»

Il giovane rifletté un paio di secondi. «Due chili, o poco più… diciamo due chili e mezzo.»

«Sarebbero stati quelli a far venir giù tutto quanto. Sembra impossibile.»

Lamberti si passò le mani sul viso. «Chissà? Può essere stata anche una singola pagina a far collassare la palazzina. L’ultima.»

Ci fu un lungo silenzio.

«Dannato pazzo» ripeté ancora Ingravallo.

«Quando ho sentito del crollo al telegiornale» disse a un tratto Lamberti, come se si fosse ricordato all’improvviso di un particolare, «mi è tornato alla mente un passaggio di quel racconto di Borges. Lo vuol sentire?» Senza attendere risposta, tirò fuori dalla tasca un foglietto piegato in quattro e lo stese davanti a sé. «Ora che i miei occhi quasi non possono decifrare ciò che scrivo, mi preparo a morire a poche leghe dall’esagono in cui nacqui. Morto, non mancheranno mani pietose che mi getti­no fuori della ringhiera; mia sepoltura sarà l’aria insondabile; il mio corpo affonderà lungamente e si corromperà e dissolverà nel vento generato dalla caduta, che è infinita.»

Ripose il foglietto in tasca.

«Mi è venuto un gran mal di testa» dichiarò il commissario.

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