Editoriale: un appuntamento sempre rimandato
Andrea ScarabelliPer anni questa rivista ha rimandato l’appuntamento con Jorge Luis Borges. L’idea di dedicare un numero a questo geografo dell’immaginario nasce praticamente insieme ad «Antarès», essendo uno degli autori che più ne hanno incarnato le linee guida, dal 2010 a oggi – lasciamo ai lettori la curiosità di coglierne le analogie… Ebbene, dopo anni di titubanza il momento è giunto. Speriamo di esserne stati all’altezza. Compito arduo, se non impossibile, ché Borges è un autore oceanico, un crocevia di esperienze e piani dell’essere, un caleidoscopio nel quale il passato si fa futuro e il futuro si rispecchia continuamente nel passato, riscrivendolo e reinventandolo. Un autore dotato di una profonda ironia, che crea mondi e li dissolve, materializzando i sogni dell’umanità in imponenti costrutti estetici. Un autore per cui il sogno è tutto. La vita è sogno. La storia? «Un lungo sogno che si svolge attraverso i secoli.» E, pensate, è anche probabile che non ci sia nessuno a sognarlo. Ma chi se ne importa del sognatore! Ciò che conta è che, se la storia è ininterrotta attività onirica, questo non toglie che vi siano sogni ricorrenti. Molto ricorrenti. Ebbene, suggerisce Borges, questi ultimi sono quelli che comunemente chiamiamo simboli, archetipi. Dietro all’artista agisce un sostrato profondo, un nugolo di metafore, immagini e allegorie, a esaurire la storia. Lo scrisse nelle sue Altre inquisizioni: «Forse la storia universale è la storia di alcune metafore». Queste non vengono “inventate” da qualcuno ma attraversano le ere, in cerca di chi possa dotarle di un’architettura estetica. È il lavoro dell’artista: «Si ricevono doni misteriosi e poi si cerca di dar loro una forma».
È sempre la Parola a compiere il miracolo, evento anzitutto simbolico e non solo mentale o sociale, come una pessima filosofia del linguaggio ci ha fatto credere. Se gli analisti ingabbiano il linguaggio in fantasie biologiste degne di Mengele, spetta al poeta «restituire alla parola la sua primissima e oggi nascosta virtù». Parola del borgesiano Robert Browning: «Come gli alchimisti / che cercarono la pietra filosofale / nel mercurio fuggitivo, / farò che le comuni parole / – carte segnate dal baro, moneta della plebe – / rendano la magia che fu la loro / quando Thor era il nume e lo strepito, / il tuono e la preghiera. / Nel dialetto di oggi / dirò a mia volta cose eterne».
Da qui la difesa borgesiana dell’estetica, assai vicina a quella di autori come Kant, Nietzsche e Spengler: prima di essere ingabbiato nelle morali e nelle filosofie, prima di essere inciso su tavole di pietra o martirizzato in dottissime trattazioni, religioni o teologie politiche, il mondo accade come fenomeno artistico. Art happens, ripetendo ogni volta il prodigio della genesi.
Al diavolo, dunque, le scuole letterarie, al diavolo l’arte impegnata, ancella di morali o politiche: «È un’ingenuità», lo scrittore «deve essere leale verso la propria immaginazione e non verso le ovvie, effimere circostanze di una supposta “realtà”». Meglio cogliere nella storia ciò che non vi si esaurisce, «il miracolo / che nonostante le infinite sorti, / che nonostante siamo / le gocce del fiume di Eraclito, / qualcosa in noi perduri, / immobile». L’autore di questi versi (giovanili, ma che lasciano già intravedere l’orma di un destino) venne ritenuto indegno del Nobel, per ragioni legate – ora sappiamo – alle sue idee e non alla qualità della sua opera. Poco importa: un vero onore per lui…
È insomma l’Immaginazione Creatrice il vero motore immobile della storia: «Gli antichi lo chiamavano la musa, gli ebrei lo spirito, e Yeats la Grande Memoria. La nostra mitologia contemporanea preferisce nomi meno belli, come subcoscienza, ma è sempre la stessa cosa». A Freud (che aveva definito, inconsciamente parafrasando Lovecraft, «un ciarlatano ossessionato dal sesso») preferiva di gran lunga Carl Gustav Jung. A patto che, ovviamente, venisse letto come un creatore di miti. Lo stesso dicasi per la Naturalis historia di Plinio o Il ramo d’oro di Frazer. Tutte enciclopedie dell’immaginario. Un immaginario – aveva aggiunto – il quale, molto probabilmente, nemmeno esiste. Come la realtà.
Il mondo, per fortuna, è ben più complesso, e molte sono le cose che non tengono conto della dialettica di esistenza e inesistenza. È il principio di quel piccolo capolavoro che è l’Antologia della letteratura fantastica, realizzata con Adolfo Bioy Casares e Silvina Ocampo, manifesto ideale di tutti gli antimaterialisti, di chi non si ferma alla superficie delle cose, di chi crede nella forza dell’immaginazione. Ed è un documento universale, che trascende le differenze tra civiltà ed epoche. Già, perché tutta la letteratura è fantastica. Lo è sempre stata, come Borges raccontò ad Alberto Arbasino, «è cominciata con le cosmogonie, con le mitologie, con i racconti di dèi e di mostri». Tutte le filosofie e teologie sono sue ramificazioni. Ne condividono simboli e archetipi, modulandoli in base allo Spirito del Tempo.
Il realismo? Un errore transitorio, destinato a scomparire. La grande letteratura, dice Borges, non è mai stata realista. Ha sempre parteggiato per i Don Chisciotte di ogni latitudine e longitudine. Non ha mai celebrato, sic et simpliciter, la realtà. E scrivere di letteratura fantastica significa «continuare quello che facevano gli arabi, che hanno inventato le Mille e una Notte, quello che faceva Shakespeare, e d’altra parte anche Dante». Più chiaro di così… Selezionando i testi, come disse una volta a María Esther Vázquez, scoprì che, «anche se molto diversi fra di loro e provenienti da diverse epoche e paesi, sempre ruotavano intorno ai medesimi temi». Gli archetipi.
Tutto si tiene, insomma, il reale e il fantastico. Senza soluzione di continuità. Fernando Savater ricorda come Borges, sul letto di morte, tenesse una selezione delle lettere di Voltaire e i Frammenti di Novalis, che l’infermiera gli leggeva di continuo. L’illuminista e il mago, il reale e l’onirico, Platone e Aristotele… Tra mythos e logos Borges scelse di non scegliere, avventurandosi in una realtà dalle continue contaminazioni magiche. Non si conosce il mondo se non lo si affronta nei suoi frangenti magici. La vita è sogno. E l’Aleph può trovarsi ovunque, anche nei sottoscala.
E così procedette, labirinti e biblioteche, Oriente e Occidente, miglior antidoto a quello scontro di civiltà che è l’esito ultimo e unico del capitalismo globale, sbozzando l’immaginario collettivo intorno a un centro e lasciando come caput mortuum un segno su un foglio di carta, a delineare un’immagine cangiante ma eterna, che troviamo nell’epilogo de L’artefice: «Un uomo si propone di disegnare il mondo. Nel corso degli anni popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di vascelli, di isole, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto».