
«Sfuggenti e vaghi sono i confini che dividono la vita dalla morte.
Chi può dire dove l’una termina e principia l’altra?
Vi sono morbi, lo sappiamo, che comportano un totale arresto di ogni palese funzione vitale,
e tuttavia si tratta propriamente di pause»
Edgar Allan Poe
Una fluttuanza fiabesca, in una sospensione temporale tra memorie passate, dipinte in tenui sfumature color pastello, che sembra emergere dalle tele di Félix Vallotton, per i movimenti di luce, e con le tonalità di Odilon Redon, con le sue evanescenze della consistenza del vento. Sepolta viva è un’ode alla seduzione. Conquistare senza violare, accarezzare senza toccare: una favola tra vedute arborescenti di un indefinito “C’era una volta”.
L’avvento della primavera, per consuetudine tramandata negli anni, viene festeggiato nel castello dei duchi di De Cambyse tra giochi, balli, acrobazie e danze, al cospetto della nobiltà e, soprattutto, del duca Philippe (Fred Robsahm) e della sua novella sposa Christine (Agostina Belli), bellissima ma di estrazione popolare. Ci si ritrova da subito immersi nell’animata vita del ducato: la corte infervorata da tutti i suoi maghi, giocolieri, addestratori di colombe, e poi il popolo e i nobili nel pieno dei festeggiamenti. La mdp si sposta sui bambini che fantasticano sul castello e sulla torre infestata dai fantasmi. Giocano dando libero sfogo all’immaginazione e lo sguardo si fa ingenuo, libero e innocente. Così la leggenda si rianima: «Nella torre si aggira il fantasma della duchessa De Cambyse, sepolta viva, e nelle notti d’inverno si ascolta sovente il fantasma gridare». La vita procede tra battute di caccia, corse a cavallo, chiacchiere e pettegolezzi, ma soprattutto si insinuano tra i familiari, nelle menti dei fratelli di Philippe, complotti per riportare il ducato al suo antico splendore, affievolito a causa del governo del fratello che, dopo le nozze, è diventato troppo benevolo nei confronti dei vassalli. Si trama e si cospira alle spalle di Philippe: l’unico modo per colpirlo è l’omicidio e la soluzione estrema è uccidere la giovane moglie, che attende il futuro erede del ducato. Una morte però indolore, per mezzo di un veleno che accompagni Christine dolcemente, senza patimento, tra le tenebre del sonno eterno. La perfidia è architettata e portata a termine dal duca Ferdinand (Maurizio Bonuglia), che dopo aver sedato la ragazza la rinchiude nella torre, facendola credere morta.
Tratto dal romanzo di Marie Eugénie Saffray, il film è un melodramma gotico e morboso o, come lo definisce lo stesso Lado, «un feuilletton lacrimoso» non privo di qualche sferzata horror. Come più volte dichiarato nelle interviste, l’operazione che il regista ha in mente è una provocazione alla società contemporanea – in cui imperversano i fotoromanzi e le novelle d’appendice – da compiere mediante una matassa filmica che, nel suo dipanarsi, esaspera una narrazione dai toni intenzionalmente kitsch. Il regista vorrebbe affidare la parte della duchessa De Cambyse alla surreale interpretazione al femminile di Paolo Poli, ma ci sono gli invalicabili limiti imposti dalla produzione e, di conseguenza, assegna il ruolo alla quasi esordiente Agostina Belli.
L’intento provocatorio è affidato all’impalcatura linguistica – volutamente sopra le righe, con toni esasperati tra dialoghi artificiali e affettati – che acuisce il senso illusorio di una oggettività chimerica e fittizia. Il racconto della finzione conduce l’occhio in una (ir)realtà lontana, in un Settecento sospeso nel tempo, i cui confini cronologici svaniscono per scivolare nella fiaba. Il fulcro della storia ha luogo nello spazio raccolto della carcerazione di Christine: il castello e la sua torre dove, come sovente accade nelle favole, ogni principessa viene rinchiusa. A rivelare la sua presenza nella torre è una stregonesca Laura Betti in un cameo particolarmente intenso nei panni di Giovanna la Pazza, personaggio splendidamente dipinto, fattucchiera folle che svela il mistero sulla presunta morte della duchessa ma è derisa dalla comunità, che non la prende sul serio; l’unico a crederle è il bambino che quel fantasma lo ha visto sul serio, «nel vento gridava forte e implorava aiuto». La follia e l’innocenza liberano la giovane dalla reclusione forzata e dalle tenebre di una morte fittizia. Il bimbo e Giovanna riescono a trovare il modo per fare luce sulla verità, salvare il primogenito che Christine porta in grembo e riconciliarla al suo sposo Philippe, l’amore della sua vita.
Giocando con i cliché del periodo, l’opera non è avulsa da momenti di morboso erotismo, condotti in porto secondo le finalità irridenti del regista: non passa inosservata la scena dove Ferdinand allestisce nelle stanze del castello una moscacieca orgiastica, con tanto di musicisti che suonano dietro i paraventi.
La fotografia, affidata a Mario Vulpiani, contribuisce a regalare all’opera la sua aura fiabesca e sospesa: accende di fuoco i capelli rubino della duchessa e dona alle immagini una patina pittorica che spazia da Johann Heinrich Füssli – nella scena in cui, ripresa dall’alto e stesa nel suo letto, Christine è ritratta come l’addormentata di L’incubo, immagine iconica di rohmeriana rimembranza in La Marchesa von… (1976) e usata anche da Ken Russell per il suo Gothic (1986) – fino a Velázquez dove, tra le oscurità degli interni, i ritratti corali si illuminano con gli acquerelli evanescenti degli abiti. La luce si accende di tonalità mortifere e gelide, il volto diafano della duchessa rispecchia il colore della notte e al contempo della luna. Algidi blu che ricordano quelli baviani di La frusta e il corpo, irradiando la pelle della Belli come facevano, nel 1963, con quella di Daliah Lavi.
Il tappeto musicale che accompagna il filmico, firmato da Ennio Morricone e diretto da Bruno Nicolai, contribuisce a ricreare una mappatura immaginifica incantata e ovattata, tipica delle storie di fantasia.
In un’intervista rilasciata a «Close Up» nel 2004, quando gli viene chiesto quale sia il pubblico di riferimento per Sepolta viva, Lado risponde che è rivolto «a un pubblico popolare, ma non solo. Era molto interessante vedere in che modo cambiava la percezione del film, in relazione alle sale e al pubblico che le frequentava. C’erano le signore che in quel mondo vivevano o che lo sentivano a loro prossimo, e che avevano una sorta di immedesimazione nel personaggio. C’erano, invece, i giovani che di quelle storie ridevano cogliendone il lato (volontariamente) kitsch».
Sepolta viva, quarto lungometraggio ladiano, è un’opera che tra duelli, omicidi/suicidi in convento e morbosità varie, in modo originale e con ostentata autoironia, arricchisce il corpus cinematografico di un autore che è riuscito a spaziare tra i generi e ha felicemente contribuito, come aveva recentemente sostenuto il compianto Andrea G. Pinketts, «a rendere il cinema di genere alto».
CAST & CREDITS
Regia: Aldo Lado; soggetto: Marie Eugénie Saffray (dal suo omonimo romanzo); sceneggiatura: Aldo Lado, Claudio Masenza, Antonio Troiso (come Antonio Troisio); fotografia: Mario Vulpiani; scenografia: Fiorenzo Senese; costumi: C. Cantini & C.; montaggio: Alberto Gallitti; musiche: Ennio Morricone; interpreti: Agostina Belli (Crhistine), Maurizio Bonuglia (Ferdinand), Fred Robsahm (Philippe), Dominique Darel (Dominique de Fontenoy), Monica Monet (Odette), Francois Perrin (Gael), Arturo Trina (Dany), Daniele Dublino (Abate), Laura Betti (Giovanna “la pazza”), José Quaglio (Morel, come Jose’ Quaglio’); produzione: C.A.P.A.C., Euro International Film; origine: Italia, Francia, 1973; durata: 107’; home video: vhs Avo Film, dvd inedito, Blu-ray inedito; colonna sonora: Spalax.