Il trionfo dello stile. Per un’esegesi di "La corta notte delle bambole di vetro"
Antonio José Navarro
Sensualmente malinconico e sinistro, La corta notte delle bambole di vetro (1971) è un film dal vigore stilistico non comune, a tratti surreale e barocco, altrove austero e realista. Al debutto come regista, Aldo Lado rinuncia volontariamente agli effettismi e ai cliché del cinema d’horreur coevo, col proposito di offrirci un film “fuori mercato”. Ossia un’opera personale, concepita quasi come un esercizio confessionale, esorcistico, attorno a temi e impressioni sul tempo storico che l’autore sta vivendo e su una maniera di pensare e fare cinema, capace di trasformare il genere fantastico in un linguaggio quasi esistenziale.
Lo slancio stilistico di La corta notte delle bambole di vetro serve a rendere coese le varie narrazioni che strutturano la storia, a mo’ di scatole cinesi. Thriller vagamente soprannaturale, racconto di orrore satanico, film poliziesco, pamphlet politico – inteso come un invito all’azione –, riflessione socio-filosofica che, curiosamente, oggi riceve una rinnovata forza alla luce degli eccessi del capitalismo neoliberista: Lado opta per un’esposizione non lineare dei fatti che, a poco a poco, si ramificano come realtà alternative a partire da una storia iniziale, per tornare alla fine al punto di partenza. Il rapporto tra lo spettatore e il narrato si stabilisce attraverso una soggettività disturbata, liminale, tra la vita e la morte: quella del giornalista americano Gregory Moore, in stato catalettico per avere sfidato la setta satanica che ha rapito la sua bella fidanzata, Mira, per soddisfare i propri oscuri appetiti. Prigioniero del proprio corpo, confinato nell’obitorio con altri (veri) cadaveri, Gregory cerca di ricordare cosa è accaduto per continuare a rimanere cosciente, vivo… o forse sta sognando? La sua mente terrorizzata e confusa stabilisce l’ambiguità e la complessità del narrato, moltiplicando i punti di vista che lui stesso sottolinea ed esplora. Il film è infatti una successione di storie che si strutturano attraverso altre storie, raccontate da altri personaggi al protagonista.
Lado combina elementi così diversi grazie a un’atmosfera stimolante, velenosa quanto elusiva. L’atmosfera è, lontano da ogni criterio scientifico, la connessione intima tra la tenebrosa essenza poetica dell’immagine e il suo pubblico, sottoposto a un torrente di emozioni e sensazioni che lo pervadono di disagio, ponendo la cosiddetta sospensione dell’incredulità oltre ogni aspettativa o ammissione, al di là di qualsiasi distacco scettico. L’atmosfera è ciò che scuote, che fa male, ma che non può spiegarsi a parole, e che ognuno di noi sperimenta in modo molto diverso, avvicinando l’esperienza artistica a quella mistica. E La corta notte delle bambole di vetro, ovviamente, sa come creare atmosfera.
Innanzitutto, occorre evidenziare che Praga1 è come se fosse un personaggio in più, e senza dubbio uno dei più importanti. Praga è stata, storicamente, una delle capitali europee dell’alchimia e dell’ermetismo, rifugio di maghi (Žito) e covo di fantasmi (il cavaliere senza testa di Via Liliova), nonché lo scenario dove è nato il primo umanoide artificiale, il Golem; una città piena di edifici stregati (il palazzo Mladotovský, la cosiddetta Casa di Faust) e di lugubri ricordi storici (le atrocità perpetrate dal capo della Gestapo, Reinhard Heydrich, Reichsprotektor di Boemia e Moravia). Lado lo sa e la sua messa in scena, il suo modo di filmare gli spazi, ce lo ricordano costantemente. I titoli di testa ci accompagnano attraverso un labirinto di strade e vicoli, piazze e ponti dall’architettura elegante e sobria, gotica e barocca, sotto un cielo grigio piombo: un luogo a metà strada tra il sogno e l’incubo…
Una volta immersi in questo mondo onirico ma al tempo stesso fisico, tangibile, vanno sottolineati il malevolo montaggio di piani medi sul pubblico che assiste a una soirée musicale nell’enigmatico Klub 99 – gruppo di spettri appassiti che sembrano non sentire né udire nulla, immobili, minacciosi – nonché le immagini subliminali, decontestualizzate, che punteggiano la discesa agli inferi di Gregory mentre cerca infruttuosamente Mira: le tremanti lacrime di cristallo di diversi lampadari e il cadavere nudo di una sfortunata ragazza rinvenuta nelle acque della Moldava si mescolano con il volto di Mira, il primissimo piano dell’occhio del maestro di cerimonie della congrega (il professor Karting) o l’inserto delle farfalle disseccate di un quadro a sfondo nero che Mira aveva regalato a Gregory. E ancora: il cappotto di pelle nera indossato dal commissario Kirkoff, simile a quello della polizia politica nazista, è tanto intimidatorio e aggressivo quanto il lugubre ufficio in cui Gregory è interrogato a causa delle sue indagini, come pure la tela espressionista che decora la casa di Karting e rappresenta il sacrificio di una donna su un altare, circondata da figure oscure e aggressive… Nessuno degli elementi iconografici e narrativi è utilizzato in funzione di un estetismo gratuito: si tratta invece di una scrittura calcolata nei minimi dettagli.
Così, La corta notte delle bambole di vetro elabora due linee di discorso che, anziché respingersi, si attraggono. La prima, di natura politica, è stata riassunta dallo stesso Lado: «Il film […] è una metafora di una società messa in “catalessi” in cui il potere (come d’altronde in tutte le società capitalistiche) si mantiene “con il sangue dei giovani”»2. Un’idea che, come detto, non ha perduto forza, a causa della globalizzazione economica dall’aggressivo taglio neoliberista (tagli in materia di diritti sociali, disoccupazione, precarietà lavorativa) e della conseguente crisi dei valori “civilizzati” occidentali. Un’idea, va aggiunto, che allude indirettamente all’interpretazione fatta da Karl Marx del capitalismo in relazione al mito del vampiro, palpabile nei suoi simboli tipici: figure malefiche che succhiano il sangue delle vittime per prevalere, per sopravvivere, e come esercizio spietato del Potere. Qui il vampirismo è sostituito da una congrega satanista composta da politici, banchieri, uomini d’affari, scienziati. Inoltre, Lado va molto al di là di quanto fatto da Roman Polanski in Rosemary’s Baby. Nastro rosso a New York (1968), che “modernizza” il satanismo infiltrandolo insidiosamente nella nostra quotidianità – le streghe e gli stregoni possono essere i nostri vicini di casa – e facendo entrare in collisione il religioso col mondano, il folklore con la cultura pop. Al contrario, Lado raffigura il satanismo come una “religione” politica, una questione di gruppo, cioè di Potere. Una “religione”, come qualsiasi altra, che erige una serie di barriere tra due entità mutevoli, ma sempre accuratamente definite: “noi” e “gli Altri”, i fedeli e gli infedeli, i dominatori e i dominati.
Siffatta metafora mancherebbe di densità e di forza, se non fosse che in La corta notte delle bambole di vetro il soprannaturale non è tanto uno scontro tra queste differenti forme di pensiero normativo quanto l’espressione caotica, forse inquietante, di un universo naturale che vive parallelamente al nostro, uno stato informale dell’esistenza che è ancora impossibile valutare con tecniche scientifiche, tra le altre ragioni, perché non si mostra mai apertamente. Il soprannaturale non è nient’altro che un’esperienza estrema in un universo situato al di là della vita; vale a dire un’esperienza trascendentale (“ciò che è al di là”). Lado lo sottolinea costantemente con annotazioni visive, due delle quali, perturbanti, sono situate strategicamente all’inizio della vicenda, avvertendo su quale sarà il suo tono. Quel corvo che becca la gamba di Gregory, nascosto tra i cespugli di un lussureggiante giardino pubblico, prima di essere trovato dallo spazzino – elegante riferimento all’universo letterario di Edgar Allan Poe, catalessi inclusa – e il suono simile a un cuore che batte, mentre l’uomo si china per sentire se Gregory è vivo: suono che corrisponde, come vedremo subito dopo, ai tacchi di legno utilizzati da un uomo senza gambe che avanza su una piattaforma con ruote come Johnny Eck in Freaks di Tod Browning (1932).
Note
1 Una Praga che, in realtà, è una costruzione mitologico-narrativa del regista. Alcuni esterni furono girati a Lubiana e Zagabria, all’epoca parte della Jugoslavia che offriva maggiori facilitazioni logistico-amministrative alle troupe straniere rispetto alla Cecoslovacchia sotto l’Urss.
2 Intervista in Luca M. Palmerini & Gaetano Mistretta, Spaghetti Nightmares. Il cinema italiano della paura e del fantastico visto attraverso gli occhi dei suoi protagonisti, M&P Edizioni, Roma, 1996, pag. 93.