
Aldo Lado nasce a Fiume nel 1934. All’indomani della Seconda guerra mondiale, questa città italofona dei Balcani viene riannessa alla Croazia e ribattezzata Rijeka. La famiglia Lado, che ne viene espulsa, deve trasferirsi a Venezia. Così, una mattina, sbarca su una piazza San Marco piena di nebbia, come ricorderà il cineasta. Il quale, italiano dalla testa ai piedi, rivendicherà sempre una certa sensibilità mitteleuropea, da cui non a caso deriva l’atmosfera funerea e tenebrosa dei suoi film più conosciuti, i thriller La corta notte delle bambole di vetro (1971), Chi l’ha vista morire? (1972) e L’ultimo treno della notte (1975).
Viaggio al termine della notte
Eppure, La corta notte delle bambole di vetro si ispira a una realtà squisitamente italiana: il caso di quei procuratori che, dopo avere dato la stura a inchieste fastidiose per il Potere, vengono esiliati in regioni isolate, dove si riducono a morti viventi. Solo che il film prende l’idea alla lettera. A Praga, un corrispondente della stampa americana è vittima di una droga che gli dà l’apparenza di un cadavere nonostante sia pienamente cosciente. Trasportato all’obitorio, inizia a ricordarsi che, indagando sulla misteriosa sparizione della sua fidanzata, aveva scoperto l’esistenza di una strana società segreta capace di esercitare il suo potere sulla sfera politica… Il successo del primo lungometraggio di Lado deve molto al modo con cui ritrae Praga come una metropoli decadente e venefica. Tanto più che, nella Cecoslovacchia di allora, era impossibile girare quanto previsto in sceneggiatura. Lado ricorse a un astuto stratagemma: protetto dalla co-produzione con la Jugoslavia, girò gli esterni a Praga con la scusa di usarli per un documentario, e poi li raccordò con altre scene girate a Zagabria. L’illusione è pressoché perfetta.
Il regista si mostra ancora più a suo agio allorché gira Chi l’ha vista morire? nella sua cara Venezia. Ma anche in questo caso le modalità con cui mostra la sua città putativa sono decisamente particolari. Lado pianta la macchina da presa in anfratti certamente pittoreschi, ma quasi sempre estranei ai percorsi tipici da turista e cartoline. Il risultato è la creazione di un microcosmo soffocante dove si ritorna incessantemente nelle stesse stradine e piazzette, nonché sugli stessi individui più o meno sospetti. Tale atmosfera è molto importante, considerato che la storia parla di nuovo di un’organizzazione segreta, questa volta collegata all’assassinio di una bambina da parte di una vecchia dama con veletta nera. Il film anticipa in questo modo A Venezia… un dicembre rosso shocking, girato nella città lagunare un anno dopo da Nicolas Roeg.
Per L’ultimo treno della notte la situazione invece si capovolge. Nonostante affermi, contro ogni evidenza, di non avere mai visto L’ultima casa a sinistra (1972), Lado riprende alla lettera la trama del film di Wes Craven: due teppisti stuprano e uccidono due adolescenti ; si ritrovano per caso ospiti dei genitori di una delle loro vittime ; questi scoprono la verità, rinunciano a ogni principio morale e massacrano gli assassini della figlia.
La versione italiana apporta tuttavia elementi originali. Come indicato dal titolo, il supplizio subito dalle ragazze si svolge su un treno notturno, deserto. Soprattutto, il copione affianca ai delinquenti una borghese arrogante e ninfomane (egregiamente interpretata dalla francese Macha Méril) che li spinge al crimine per poi scaricare su di loro tutta la colpa, sfruttando il suo status sociale per convincere i genitori di essere innocente.
Lado insinua così l’idea per cui la vera sorgente del Male sarebbe l’alta società, che riesce sempre a cavarsela addossando comodamente le sue infamità sugli emarginati. Il tragitto in treno da Monaco a Verona (due antiche potenze dell’Asse) diventa allora un viaggio negli abissi della notte dell’Europa, infestata dai fantasmi dei massacri che hanno scosso il continente. L’inizio del film include peraltro una scena umoristica che non lascia spazio a equivoci: passando davanti a uno scompartimento occupato da due vecchi tedeschi che stanno cantando allegramente, uno dei due criminali apre di colpo la porta e urla un «Heil Hitler» al quale i nonni rispondono istintivamente, tradendo il loro passato nazista.
Visioni dell’impossibile
L’ultimo treno della notte culmina nella scioccante scena in cui una giovane fanciulla viene uccisa con una coltellata nella vagina, realizzata tramite un impressionante virtuosismo di montaggio: immagine del treno che imbocca un tunnel, qualche istante di nero, primo piano del viso stupefatto e sofferente della vittima. I tre thriller anni Settanta di Lado sono tutti caratterizzati da sequenze folgoranti di questo tipo. In La corta notte delle bambole di vetro è l’orgia dove i corpi avvizziti dei potenti assorbono l’energia dei giovani (sorta di summa concettuale della trilogia), o l’urlo di spavento finale del personaggio di Ingrid Thulin. Ma è Chi l’ha vista morire ? il film più straordinario in questo senso, viste la sensibilità e la delicatezza con cui viene trattato uno degli argomenti più difficili che ci siano, la morte di un bambino.
Innazitutto Lado riesce a ottenere da George Lazenby – effimero James Bond – una performance incredibile, utilizzandone le braccia troppo lunghe e l’andatura dinoccolata per farne un toccante paparino. Le scene che lo vedono insieme alla piccola Nicoletta Elmi – che avremmo poi rivisto in Bava e Argento – sono invero piene di fascino e spontaneità. E dopo l’assassinio della bambina, il regista realizza una serie di momenti a rischio retorica su cui molti suoi colleghi sarebbero scivolati. Il triste ritrovarsi dell’eroe con la madre della piccola è descritto con grande dignità, così come lo è una scena pressoché impossibile da rendere sullo schermo: dopo il funerale, la disperazione li spinge uno verso l’altra e fanno l’amore con lentezza. È così che, seguendo la ricerca del/i colpevole/i, il film racconta in parallelo anche la ricostruzione di una coppia a cui la tragedia dimostra che non avrebbero dovuto separarsi. Questo aspetto emozionale, raro nel cinema bis europeo, rende Chi l’ha vista morire? un caso piuttosto unico. E c’è chi arriva a considerarlo il migliore di tutti i gialli all’italiana.
Non si potrà dire lo stesso dei thriller successivi firmati Lado, frutto dell’entropia delle commissioni. Miniserie televisiva composta da episodi di 5 minuti – poi rimontati in un lungometraggio di un’ora – Delitto in via Teulada (1979) è comunque divertente, un intrigo giallo alla Argento che si svolge tutto negli immensi spazi della RAI: gli omicidi sono commessi dentro studi tv deserti e l’inchiesta si svolge in mezzo al caos delle riprese dei vari programmi, dove attori come Giuseppe Pambieri e Corinne Cléry intervengono nel ruolo di se stessi. Al contrario, si può passare velocemente su due film di inizio anni Novanta: Alibi perfetto (1992) è un bizzarro pastiche di poliziesco-gangster e storia di serial-killer con, nel finale, uno sbalorditivo cameo di Annie Girardot e una soluzione che ricorda Vestito per uccidere di Brian De Palma (1980); quanto a Dark Friday (1993), è un remake poco ispirato di L’ultimo treno della notte, che sostituisce la ferrovia con una villa vista mare dove due giovani e imprudenti fanciulle seguono dei ricchi depravati.
Anche per questo è grande la sorpresa provocata da Il Notturno di Chopin, che nel 2012 segna il ritorno alla regia di Lado dopo lustri d’assenza. Se l’incipit lascerebbe sperare in un remake squattrinato di Chi l’ha vista morire?, il seguito rovescia completamente il punto di vista e per tutto il film saremo in compagnia di una bambina rapita che si risveglia in una sudicia cantina, cerca invano di attirare l’attenzione dei rari passanti gridando attraverso una piccola finestra, sogna di evadere e… È tutto. Nessuna traccia di quelle grossolane spiegazioni psicanalitiche che accompagnano la risoluzione della maggior parte dei gialli. Al loro posto abbiamo soltanto oscuri frammenti di significato: nell’appartamento di sopra il pedofilo aguzzino suona incessantemente il pianoforte, mentre un gatto d’Angora se ne sta disteso sul tappeto.
Per resistere a questa situazione assurda, la bimba si ostina a restare attiva, a conservare il suo essere umana e l’ultima scintilla di vita, fino all’estremo limite del baratro. Il risultato è un’opera minimalista, lancinante, con cui Aldo Lado ancora una volta osa mostrare ciò che di solito il cinema lascia fuori campo.