La sempreviva suggestione della porta chiusa. L’immaginario gotico nel cinema di Mike Flanagan
Nicolò ComenciniDagli omaggi più espliciti a Henry James e Shirley Jackson agli adattamenti cinematografici dei romanzi di Stephen King, Mike Flanagan non ha mai fatto mistero della sua ammirazione per il gotico, ed è anzi possibile affermare che abbia dedicato buona parte della sua carriera a riportare in auge una tradizione che, fino a pochi anni fa, sembrava relegata alle segrete dell’universo cinematografico dell’orrore. È però interessante chiedersi in che modo Flanagan riesca a maneggiare i topoi di un genere letterario così complesso e sfuggevole riproponendoli con successo allo schermo. Per rispondere a questa domanda bisogna fare un salto indietro nel tempo, cercando di definire le caratteristiche distintive della letteratura gotica al fine di poterle riconoscere e analizzare nelle opere del regista americano.
Nata in Inghilterra nella seconda metà del Settecento, la letteratura gotica incarna un primo esempio di frizione narrativa tra la razionalità illuminista e la poetica dell’immaginario. Per la prima volta nella storia della letteratura occidentale, gli scrittori gotici utilizzano infatti l’elemento soprannaturale non più come espediente allegorico per veicolare un messaggio morale, ma come strumento di messa in discussione del reale. L’aggettivo “gotico” ha inizialmente una doppia valenza, e si riferisce in parte a una forma di architettura medievale particolarmente evocativa e cara ai romanzi di questo genere, in parte alla natura stessa di questi romanzi, che, per la loro vocazione a impressionare i lettori, impiegano spesso tecniche stilistiche grandiloquenti: un abbondante utilizzo di climax, ossimori e iperboli — nonché il ricorso a narrazioni concentriche — permettono a questi testi di assumere strutture insolite, lontane dalla linearità di altri generi narrativi, forme che visivamente richiamano per l’appunto quelle delle guglie e degli archi rampanti delle cattedrali gotiche. Figlio ribelle dell’età dei lumi, il gotico anticipa ed espande diverse tematiche fondamentali del Romanticismo, tra cui l’individualismo, il gusto estetico del sublime e uno spiccato interesse per il Medioevo e il folklore. Nel tempo il termine acquisisce una propria autonomia nel campo della narrazione, sebbene la definizione del genere subisca una continua evoluzione, ampliandosi nei due secoli successivi alla sua nascita. Per lo studioso Maurice Lévy, questo progressivo espandersi del gotico è una «comodità che si concede la modernità, per dire […] le angosce diffuse che la abitano e l’irradiano nella sua interezza»1.
Fin dai suoi albori, la letteratura gotica presenta però una costante che potremmo definire “duplice trazione”: se da una parte si nutre del fascino per un passato sospeso, fatto di rovine e atmosfere misteriose, dall’altra incarna un impulso contestatario che sfida apertamente le convenzioni illuministiche. Come affermava Romolo Runcini, docente di Sociologia della letteratura riconosciuto come uno dei massimi esperti di letteratura fantastica in Italia, «il gothic romance nasce […] con una connotazione terminologica doppia, caratteristicamente ambigua: è insieme un oggetto inerte, un residuo di “cose fuori dal tempo”, e soggetto di una tensione poetica verso il possibile»2. Da semplice divertissement aristocratico, i romanzi gotici diventano in pochi decenni un vero e proprio fenomeno letterario, e grazie al genio di autori quali Ann Radcliffe e Matthew Gregory Lewis, oltre al vivo interesse dei lettori, riescono a inserirsi nel dibattito ottocentesco sulla natura del romanzo.
Queste premesse valgono alla letteratura gotica un lusso che pochi generi letterari possono vantare: ambire alla dimensione mitologica. Forse più di ogni altro genere, il gotico ha infatti prodotto opere elevate in seguito a patrimonio collettivo: basti pensare al celebre Frankenstein o Il moderno Prometeo di Mary Shelley, da molti considerato il primo mito della modernità. Il nucleo narrativo di questo romanzo ha permeato, nei secoli successivi alla sua pubblicazione, ogni sfera della cultura popolare, dal cinema alla televisione, dalla musica al fumetto, ripresentandosi in vesti sempre diverse, varianti più o meno riuscite che insieme costituiscono un universo narrativo dai confini fluidi, ben più vasti di quello dell’opera originale. Possiamo quindi affermare che, nel passaggio da genere letterario di nicchia a universo mitologico moderno, il gotico ha sviluppato veri e propri mitemi – termine coniato da Claude Lévy-Strauss per indicare nuclei narrativi caratteristici del mito, indivisibili e facilmente identificabili, che possono essere assemblati in infinite varianti senza alterare la natura di una storia. Proprio quest’aspetto ha reso il gotico un genere particolarmente appetibile per la settima arte. Da Le manoir du diable di Georges Méliès (1896) al Nosferatu di F. W. Murnau (1922), dai mostri Universal degli anni Trenta ai film della Hammer, il cinema sembra aver compreso rapidamente le potenzialità dei soggetti gotici. Questo interesse è rimasto vivo per buona parte del Novecento, ma a partire dagli anni Ottanta il gotico cinematografico è stato spodestato dal successo di altri sottogeneri quali slasher e gore; tuttavia, da qualche anno a questa parte, l’interesse di registi e pubblico nei confronti delle atmosfere gotiche sembra essersi risvegliato, e Flanagan ha giocato un ruolo cruciale in questo ritorno di fiamma.
Ma in che modo i mitemi del genere vengono riproposti nelle opere del regista americano?
Interessiamoci in primo luogo alla questione architettonica, che come abbiamo visto è endemica nel gotico. Da Walpole a Jackson, da Radcliffe a King, dimore ed edifici sinistri ricoprono un ruolo di primo piano all’interno della narrativa gotica, poiché, come vedremo, entrano in risonanza con gli oscuri labirinti dell’inconscio di chi li abita. Una delle tecniche a cui gli autori di romanzi gotici ricorrono per perturbare il lettore è infatti quella di sovvertire l’equazione secondo cui la casa è per definizione il luogo più sicuro.
Flanagan sfrutta appieno le potenzialità destabilizzanti di questo ribaltamento: l’apparato architettonico – oscuro, labirintico e minaccioso – ricopre un ruolo di primo piano nei suoi film, e subisce lo stesso genere di personificazione che traspare in ambito letterario. Se i romanzi gotici costruiscono castelli e dimore dall’aria sinistra ricorrendo a figure retoriche quali iperboli e ossimori, Flanagan riesce a sfruttare il linguaggio cinematografico per rendere sullo schermo la perversità di questi luoghi, che si negano a qualsiasi tentativo di cartografia. Tramite il ricorso a giochi di luce e piani sequenza, il regista porta lo spettatore a perdersi nei meandri di questi vasti spazi interni insieme ai protagonisti della narrazione.
È inoltre interessante notare che né il tempo né la distanza sembrano in grado di allentare il legame che viene a crearsi tra i luoghi in questione e i protagonisti delle pellicole. Fuggire è impossibile: in Oculus (2013) i fratelli Russell fanno ritorno alla casa d’infanzia per affrontare l’oscura forza sovrannaturale che ha causato la morte dei genitori; in Doctor Sleep (2019) l’Overlook Hotel torna a occupare un ruolo centrale per la risoluzione del plot, contrariamente a quanto avviene nell’omonimo romanzo di Stephen King; l’inquietante Hill House attira a sé, a distanza di anni, tutti i membri sopravvissuti della famiglia Crain. L’arco narrativo dei personaggi è indissolubilmente legato all’esistenza e al richiamo di questi luoghi, che non concedono scampo, se non al prezzo di affrontare i propri demoni.
Laddove il primo mitema è di natura spaziale, il secondo riguarda invece la sfera temporale: verità lapalissiana, dietro ogni ghost story che si rispetti si cela (almeno) un fantasma. E un fantasma non è in fondo che un’immagine residuale che crea un ponte tra presente e passato. Per sua stessa natura, minaccia quindi la linearità del tempo. Sempre Runcini afferma che «la dimensione del passato fornisce […] il vasto orizzonte narrativo per un itinerario nel vissuto che porta alla riappropriazione della soggettività. Ma entrare nella cerchia del passato è un’impresa difficile, dolorosa, che impegna al confronto col mondo dei morti. La ricerca di una esperienza autentica nel tempo trascorso equivale a immergersi nel magma dell’inconscio dove mostri lungamente sopiti possono risvegliarsi all’improvviso»3.
Poco importa che questi mostri siano realmente manifestazioni soprannaturali, come nel caso della entità demoniache di Ouija (2014) e di Oculus, o si rivelino “umane mostruosità”, come il Moonlinght Man di Il gioco di Gerald (2017): l’effetto destabilizzante prodotto sul protagonista e sulla narrazione è lo stesso. Oltre che al ricorso a questo dispositivo del perturbante, Flanagan accentua il paradosso temporale attraverso strutture narrative spesso non lineari. Racconti paralleli tra passato e presente e un abbondante ricorso a flashback e flashforward sottolineano una cronologia fluida e circolare, un cortocircuito nel tempo della narrazione che toglie stabilità ai protagonisti intrappolandoli in un loop e obbligandoli a fare i conti con un passato infestante.
Infine, un ultimo mitema rilevante per la nostra analisi è quello del labirinto psicologico. Sebbene alcune scuole del Novecento abbiano provato a dimostrare il contrario, la caratterizzazione dei personaggi rimane uno dei fulcri principiali della narrativa. Questo elemento risulta particolarmente rilevante per la letteratura gotica, che, insieme alla più ampia categoria del fantastico, ha per certi versi anticipato e/o fatto proprie le teorie freudiane, avventurandosi nei territori inesplorati della psiche. Affinché la macchina infernale del gotico si metta in moto, deve venire a crearsi un gioco di specchi tra le manifestazioni soprannaturali e l’inconscio frastagliato dei protagonisti. La rifinitura psicologica dei personaggi è inoltre l’elemento che più di tutti permette di attualizzare il genere, dal momento che consente di portare sulla pagina o sullo schermo le fobie individuali e sociali del XXI secolo. Lungi dal sottovalutare l’importanza di questa risonanza, Flanagan dà spessore psicologico ai propri personaggi, che condividono passati dolorosi e presenti vacillanti, abitati da tensioni familiari, lutti, dipendenze da alcol e droghe e ossessioni d’ogni sorta. Il dramma gotico si insinua tra le sporgenze e le rientranze causate dall’erosione del trauma.
Questo ci conduce a un’altra questione: quella della sospensione dell’incredulità e dell’esitazione dello spettatore. Seppur per molti aspetti superata, la teoria strutturalista di Todorov sul fantastico può rivelarci qualcosa di utile sulla letteratura gotica e i suoi adattamenti cinematografici: le storie più riuscite condividono un certo livello di ambiguità di lettura, poiché l’inaffidabilità della narrazione e la messa in discussione del reale creano un’esitazione tra la rassegnazione alle implicazioni del soprannaturale e un’interpretazione di natura psicopatologica. In altre parole, in molti classici della letteratura gotica si verifica un cortocircuito per cui il lettore è impossibilitato a tracciare una linea netta tra un’ipotesi che sovverte il senso del reale e un’altra che rende inaffidabile la narrazione – entrambe possibili e plausibili. Laddove la scrittura suggerisce, il cinema è invece tenuto a mostrare, e il gioco dell’ambiguità si complica ulteriormente. Ciononostante, Flanagan non esita a giocare con l’immagine, spingendo lo spettatore a dubitare di quello che vede, o per lo meno a interrogarsi sulla natura delle immagini che sfilano sullo schermo: le magie del montaggio riescono a trasformare una mela in una lampadina e viceversa, alterando drasticamente la percezione di un morso. Ci troviamo così immersi in un territorio burrascoso privo di certezze e disseminato di incongruenze, un terreno fertile per quella tensione di fondo che è forse la caratteristica più distintiva del gotico.
I tre elementi presentati non costituiscono evidentemente che una parte degli ingredienti necessari per dare vita a una narrazione gotica riuscita, ma sono particolarmente significativi per la comprensione dei rapporti che intercorrono tra quest’ultima e il cinema di Flanagan. Sappiamo che il cinema horror fa perno sulle paure sociali di un determinato periodo storico, ma la specificità del gotico è di sfruttarle in maniera più sottile e per certi versi più subdola rispetto ad altri sottogeneri, evitando o limitando jumpscares e altre “scorciatoie” a effetto tanto amate da un certo cinema dell’orrore, lavorando piuttosto con particolare attenzione sull’atmosfera, le ambientazioni e il ritmo della narrazione, elementi che convergono a dare vita a una suspense delicata, ma al contempo palpabile e crescente.
In un’intervista rilasciata al magazine «ScreenCrush», Flanagan, interrogato su come nascano i suoi adattamenti cinematografici, afferma di essere prima di tutto un grande appassionato di letteratura horror, e di affidarsi al proprio istinto di lettore e alla propria passione quando si tratta di portare un romanzo sullo schermo.
In fondo, l’operazione di adattamento cinematografico è un’operazione di traduzione, e una buona traduzione richiede due premesse: ottima conoscenza del territorio di partenza e padronanza della lingua di approdo. L’abilità di Flanagan nel dar vita al gotico, riaccendendo la fiamma di un genere che sembrava non destare più l’interesse del grande pubblico, risiede proprio nel fatto di essere prima di tutto un lettore attento – un super-lettore in grado di cogliere gli elementi perturbanti di questo genere narrativo, di individuare le unità minime che lo costituiscono e di preservarle nel processo di trasposizione, attualizzando invece gli aspetti circostanziali. Tutto questo converge nel mantenere intatta la “sempreviva suggestione della porta chiusa”, il brivido di una minaccia ignota ma percettibile di cui il gotico, letterario o cinematografico che sia, è l’espressione più pura.
Note
1 Lévy Marc, Le roman “gothique” anglais 1764-1824, Albin Michel, Parigi 1995, p. VIII.
2 Runcini Romolo, La paura e l’immaginario sociale nella letteratura, Liguori editore, Napoli, 1995, p. 49.
3 Ibidem, p. 160.