Contengo moltitudini. L’immagine e la parola nella carriera di Mike Flanagan
Matteo Berardini«We are all stories, in the end». Siamo nel giardino di Hill House ed è in corso il funerale di un gattino minuscolo, l’ultimo di una cucciolata consumata dalle forze mortifere che abitano la casa. La piccola Shirley Crain si confronta per la prima volta con la morte di tutte le cose, il momento per lei è un rito di passaggio. Presenti il padre e la madre, ed è soprattutto quest’ultima, Olivia, a incitare la figlia affinché dica qualcosa del piccolo animale; è importante raccontare, evocare un dettaglio, un momento, un frammento che dia senso a quel piccolo addio, perché siamo tutti fatti di storie, dentro, spettri che tornano in vita quando vengono raccontati, e se anche il nostro animo è colmo di schegge incoerenti, contradditorie e lontane l’una dall’altra, ciascuna di esse è una voce, un ricordo, un personaggio che attraverso una storia trova il suo posto nel mondo.
Sempre in The Haunting of Hill House – opus magnum che dentro di sé pone in abisso l’intero sistema-Flanagan – si fa riferimento nel finale alla casa come corpo, entità fisica dotata di sangue e organi e volontà, ma è altrettanto vero il contrario: il corpo è la prima casa che abitiamo, il primo luogo che può essere infestato e perseguitato dal passato, nel corpo convivono e trovano spazio quelle voci e quei racconti che disegnano i confini della nostra moltitudine. Non è un caso se buona parte delle opere realizzate da Mike Flanagan, a partire da quelle seriali, presenta un cast corale, voci diverse e punti di vista che si susseguono, l’uno sull’altro; il focus narrativo viene ricalibrato nel corso della narrazione, e quel che credevamo essere il o la protagonista emigra spesso ai margini del quadro, mentre altri prendono il suo posto al centro del palcoscenico. L’immagine di Flanagan è allora questione di moltitudini perché è dell’infiorescenza di queste voci che si nutre, ed è questione di autore, di sguardo e percorso, perché ciascuna di queste storie-personaggio sembra nascere da un frammento di Flanagan stesso, frammenti interpretativi di un autore che ha intrapreso una carriera volta a rievocare, attraverso le griglie del genere, i suoi spazi e abitanti interiori. In questo senso si spiega perché la sua sia una filmografia che muove per stratificazione e non per progressione, un processo che non prevede andamento lineare bensì espansione ondivaga, il cui motore primo è una riscrittura costante non solo di temi ma di situazioni e caratteri. Libero di muoversi tra cinema e serialità, grande schermo e piattaforma, Flanagan opera da sempre un processo di ripetizione ed estensione che rende il suo cinema (e le sue serie tv) un meccanismo complesso di frattali in crescita, sistemi narrativi che spiraleggiano ampliandosi in forma aumentata. Quel che abita le sue immagini è qualcosa di più che coerenza autoriale, sono echi i cui elementi si rivelano ogni volta sotto nuovi aspetti, pur rimanendo fedeli alle loro identità di fondo. È una moltitudine di fantasmi, e il fotogramma è il luogo in cui confrontarsi periodicamente con queste ossessioni, e farle parlare nel tempo che passa e ci cambia, e ascoltarle, in qualche modo accudendole.
Negli ultimi anni il cinema americano ha manifestato un interesse rinverdito per il genere horror, tornato al centro del dibattito critico e delle attenzioni spettatoriali sia dal punto di vista produttivo che artistico. Si pensi, nel primo caso, alla fortuna crescente del brand Blumhouse, e alla sua capacità di intercettare immagini chiave del contemporaneo per farne sistema industriale, grazie a un doppio passo che alterna lavori a basso costo e incursioni autoriali; o, nel secondo, al cosiddetto elevated horror, etichetta con cui si è fatto riferimento in tempi recenti all’approccio arthouse, esteticamente ricercato e strettamente autoriale portato avanti da registi come Jennifer Kent, Ari Aster, Robert Eggers, David Robert Mitchell e Jordan Peele, dei quali si sottolinea la capacità di impiegare i meccanismi di genere per affrontare temi nodali riguardanti l’individuo e la società, il contesto politico e i sotterranei dell’Io, scorgendo in questo talento una sorta di redenzione dell’horror, un’elevazione dall’altrimenti palustre dimensione terrigna dello spavento fine a sé stesso. È evidente che etichetta e ragionamento valgono zero per quanto riguarda etica e analisi del film, non c’è genere che necessiti di essere redento e le immagini sono sistemi autonomi e ben agguerriti di significato, senza che vi sia un processo vettoriale posto dall’esterno a glorificarle. Tuttavia resta il fatto che, pertinente o meno, la denominazione mette a fuoco l’esistenza di una stagione particolarmente vivida per l’horror, seppur esposta ai rischi endemici del tritacarne industriale indotto dalla produzione a catena di montaggio, da un lato, e dell’estetismo barocco, ombelicale e vacuamente presuntuoso, dall’altra (e di cui la casa A24 è incarnazione consapevole). All’interno di quest’orizzonte in fibrillazione trova la sua fortuna Flanagan, che dall’esordio con Absentia (2011) porta avanti una carriera che salta abilmente tra i poli industriale e arthouse dell’equazione senza restare imbrigliato in nessuno dei due estremi.
Alla Blumhouse il nostro deve molto: dopo la forte visibilità ottenuta da Absentia – realizzato via Kickstarter in piena indipendenza ma aggiunto poi da Netflix alla sua offerta on demand – Flanagan vede il suo secondo film, Oculus. Il riflesso del male (2013), acquistato nel market del Toronto Film Festival da Jason Blum, e l’incontro tra i due è di quelli che crea una carriera.
Flanagan è da subito messo a lavoro nella factory e dopo un primo banco di prova (gli vengono affidati i consistenti reshoots di Ouija [2014]) arrivano per lui due film Blumhouse dal principio alla fine: Il terrore del silenzio e Ouija. Le origini del male, entrambi realizzati nel 2016. Il primo è un puro home invasion particolarmente gore, che riduce al minimo l’impianto narrativo puntando tutto sull’accumulo della tensione e le meccaniche di genere; il secondo, particolarmente raffinato e tra i migliori di Flanagan, è il prequel dell’omonima saga, un esercizio filologico tecnicamente ineccepibile che riesce a intrecciare in modo complesso e non scontato le necessità del franchise con temi di portata storica e universale. Flanagan del resto è il tipo di regista che Blum sta cercando, un equilibrio efficiente (e vendibile) di personalità e mestiere, autorialità e spettacolo; il loro avvicendamento genera solidi prodotti di genere, in cui l’impronta dello studio si fa sentire nell’impianto generale senza che ciò intacchi l’intima riconoscibilità del suo autore.
Tuttavia, nonostante il buon esito dell’incontro, l’approccio orrorifico di Flanagan, in questa fase della sua carriera, si sta via via codificando come qualcosa di sempre più lontano dalle necessità adrenaliniche, spaventose e ritmiche dell’horror industriale da cassetta. Se vuole crescere come regista e narratore Flanagan deve farlo adesso, fuori dalla scuderia Blumhouse.
Altrettante distanze separano il nostro dalla sfera elevated, che se è certamente utile al regista per affermarsi all’interno di un contesto e un momento storico che ben accoglie e ricerca autori impegnati in horror più ambiziosi e strutturati, dall’altra si fa sede di un approccio estetizzante davvero lontano dal modo in cui Flanagan intende il genere e l’audiovisivo in generale, che per lui sono sempre più questione di parola e dialogo. Il punto di fuga della sua carriera sta diventando la dimensione scritta della pagina letteraria, verso la quale l’immagine si addensa e rallenta, placandosi rispetto ai ritmi canonici del genere, e trovando nuovi equilibri di dissertazione nel rapporto tensivo tra i personaggi e lo spazio. Lontano dal congelamento barocco della linea elevated, come anche dal ricorso attrattivo al jump scare e alle tecniche dell’horror inteso come giostra e meccanismo di spavento, Flanagan è pronto ormai per mettere a sistema il suo approccio di stratificazione e circolarità narrativa, preferendo alla composizione geometrica dell’inquadratura o al salto sulla sedia una disposizione del racconto estremamente classica, le cui corde sottili e inquietanti risuonano nella gestione onirica degli spazi e nell’andamento ipnotico, spesso ciclico e corale, della narrazione.
L’immagine diventa sempre più sede di un confronto archetipico che mette in campo la Storia e la memoria, ma non c’è intento metaforico evidente, non c’è il ricorso retorico al simbolismo facile; Flanagan lavora piuttosto sull’evocazione, e per questo il fantasma è il suo strumento più efficace e la casa infestata il luogo d’elezione dei suoi racconti. Shining (1980) sembra per molti aspetti il grande referente del suo cinema, ma come dimostra Doctor Sleep (2019) – finora la sua opera migliore e più matura – Flanagan guarda al capolavoro di Kubrick, ne è figlio per molti aspetti, e contemporaneamente è altrettanto se non più vicino a Stephen King, che è un modo per dire che l’interesse per i suoi personaggi, i loro archi narrativi e viaggi eroici, le sfide mitiche e i conflitti archetipici restano il cuore pulsante di ogni sua opera. È attraverso l’umano e il sentimento che Flanagan adopera l’immagine come un dispositivo di riflessione sul passato, un meccanismo che a questo punto della sua carriera viene sempre più innescato dentro spazi chiusi, i quali sono anzitutto epitomi di dimensioni mentali e spirituali, in quanto tali onirici (tutto nei due The Haunting è reso visibile da una luce soffusa e sfuma nei contorni fumosi del sogno) e aperti alla ricombinazione della memoria, alla risemantizzazione del passato come eredità da riscrivere attraverso un nuovo uso della parola e dell’immagine.
È quest’equilibrio di elementi a rendere Flanagan un autore unico nel panorama horror contemporaneo, e a condurre sempre più il suo lavoro dentro le maglie Over-The-Top delle piattaforme on demand. Netflix infatti, dopo aver accolto nel catalogo americano i suoi primi film (dopo Absentia è toccato a Somnia [2016] entrare nella grande library rossa) e aver acquistato da Blumhouse Il terrore del silenzio per renderlo un Netflix original, stipula con Flanagan un accordo pluriennale, che prima permette al regista di adattare finalmente un romanzo di King (Il gioco di Gerald [2017]), poi gli mette a disposizione risorse e spazi digitali tali da erigere un percorso che, al tempo, non ha eguali nelle logiche produttive di Netflix per identità autoriale e autonomia creativa. Ne risulta un giustapporsi, tuttora in corso, di installazioni seriali pensate anzitutto come spazi navigabili, grazie alle nuove potenzialità della spettatorialità on demand.
A settembre del 2021, poco dopo l’uscita di Midnight Mass (2021), Flanagan viene ospitato sulle pagine digitali di Bloody Disgusting per un saggio, particolarmente intimista, dedicato alla lavorazione della serie e al suo percorso d’autore1. Interrotta per mesi dall’insorgere della pandemia – per la quale lo show è stato un importante banco di prova in termini di protocolli di sicurezza e nuove norme sul posto di lavoro – Midnight Mass è un’opera particolarmente cara al regista di Salem, il suo progetto più antico e personale, che prima di trovare forma concreta appare come inside joke (e neanche troppo joke) in diversi punti della sua filmografia: in veste di romanzo Midnight Mass è il bestseller per cui è famosa Maddie, la protagonista sordomuta di Il terrore del silenzio, e lo stesso volume viene impiegato come oggetto di scena da Carla Gugino in Il gioco di Gerald, dove la sua Jessie è ammanettata alla tastiera del letto e cerca con tutte le sue forze di liberarsi.
Midnight Mass è in effetti il lavoro più autobiografico di Flanagan, dentro il quale convergono tutte le sue linee narrative e la sua galassia topica di personaggi, e protagonista parziale del racconto è il suo alter ego più fedele, Riley Flynn, ex chierichetto ora ateo, cresciuto e sfuggito a una comunità ristretta, alcolista. Quello della dipendenza, del resto, è uno dei punti cardine del lavoro di Flanagan, cartina tornasole che svela quanto sia stretto e personale il rapporto che questi detiene con i suoi personaggi e le sue storie: da Absentia a qui, passando per quasi ogni titolo della sua filmografia, il tema drammatico dell’addiction è una costante narrativa, come ricorrenti sono famiglie disfunzionali, accettazioni del lutto, traumi da elaborare.
Attraverso l’immagine, e sempre più attraverso la parola, Flanagan ha costruito una vasta impalcatura che ruota su sé stessa e riesce a presentarsi come tale senza ripetersi mai in forma meccanica, arida, ma soltanto ritornando, riecheggiando, espandendo ogni volta le sue traiettorie, alterandone i valori e gli output. La sua è in effetti una famiglia allargata di personaggi che si passano la staffetta del trauma, oltre che la luce della ribalta, e che di volta in volta cercano di portare più in là l’elaborazione collettiva di un sentimento che comunque ne definisce e rispetta i caratteri individuali, le specifiche, come fossero arricchimenti che ognuno di loro può portare sotto il tetto di una ca(u)sa comune.
L’approccio si riflette nel rapporto fedele e fiduciario che Flanagan intrattiene con i suoi attori, tendenzialmente gli stessi, progetto dopo progetto, con gli ovvi avvicendamenti e new entries, ed evoca un talento prettamente letterario, un bisogno di rincorrere sé stessi nei personaggi pur diventando altro in ciascuno di loro. Una moltitudine, appunto.
Note
1 Vedi bloody-disgusting.com/editorials/3684646/deeply-personal-horror-midnight-mass-guest-essay-filmmaker-mike-flanagan.