"Il gatto dagli occhi di giada". Sopravvivere alle ombre
Marco Lazzarotto Muratori
Bisogna entrare a fondo in Il gatto dagli occhi di giada (1977). Bisogna andare oltre la pur affascinante patina anni Settanta in cui è calato, fatta di foschia, una città quasi deserta e isolata, interni che diventano improvvisamente fondali labirintici in attesa del prossimo omicidio. Bisogna andare oltre la definizione di “film argentiano”, perifrasi che, pur avendo una sua ragion d’essere in riferimento a questa pellicola di Antonio Bido, è stata francamente abusata nell’etichettare decine di opere cinematografiche italiane e internazionali, ed è tesa ad appiattire e ridurre – sotto il peso del grande nome che contiene – tutto ciò che presenta alcune caratteristiche del giallo in voga tra gli anni Settanta e Ottanta: una trama intricata, un animale nel titolo, una serie di omicidi efferati che diventano veri e propri protagonisti di scene particolarmente complesse, una o più rivelazioni finali che chiariscono il movente dell’assassino. Bisogna, dunque, oltrepassare la superficie, andare al di là del titolo e dell’intreccio di base e, sì, anche oltre gli omicidi, per cogliere le intenzioni di un regista che ha realizzato un dramma travestito da giallo, che si è servito cioè di alcuni stilemi codificati per fare il film che voleva, per riflettere su questioni delicate e sensibili che solo in superficie hanno a che fare con il macabro, e invece hanno come meta la natura umana, i suoi conflitti e la possibilità di utilizzare la vendetta come soluzione.
Si inizia a intuire qualcosa a due terzi di pellicola, quando il protagonista arriva in una Padova deserta, che sembra disegnata da De Chirico, e percorre in auto una via delimitata da portici oscuri e apparentemente disabitati; poche persone in giro e un’aria di provincia sonnolenta e isolata. C’è qualcosa di triste nel modo che Bido ha di guidarci in questa città, la sua città: un’atmosfera quasi luttuosa. Mentre l’indagine conduce Lukas verso lo scioglimento dell’intreccio, l’ombra prende progressivamente il sopravvento. È, in effetti, un film di ombre, Il gatto dagli occhi di giada: a partire dal primo omicidio che avviene all’alba, quando non è ancora del tutto giorno, fino all’attaccapanni scambiato per la sagoma dell’assassino nel buio di un corridoio, per arrivare alla splendida scena ambientata nel guardaroba. Le ombre che Bido utilizza non si riveleranno, procedendo con la visione: sono meri artifici per aumentare la tensione nello spettatore, ma anche indizi di un altrove, segnali che indicano un doppio fondo: ciò che davvero conta è sotto o, per meglio dire, dentro.
Gran parte dei gialli dell’epoca, considerando anche i migliori esempi del genere, fa dell’estetica il proprio pilastro costitutivo: la storia, convoluta e complessa, finisce spesso in secondo piano rispetto alla teatralità dell’omicidio, alla messa in scena della morte sovente dilatata all’inverosimile, arricchita da dettagli e (sovrac)caricata di colori, musica e movimenti di macchina. Di questo troviamo traccia anche in Il gatto dagli occhi di giada. Per esempio nella scena del delitto dell’usuraio nella vasca, calata in uno scenario che in qualche modo, sottilmente, richiama La morte di Marat di Jacques-Louis David. L’omicidio per strangolamento, caratterizzato da numerosi tagli di montaggio, avviene sulle note del Dies Iraedi Giuseppe Verdi. Si tratta di una sequenza piuttosto lunga, da manuale in quanto all’uso che Bido fa degli ambienti – avvolti in una semioscurità minacciosa – e al suo modo di amministrare la tensione, di suggerire quanto sta per accadere. L’estetica della violenza è tuttavia un sentiero percorso solo a tratti, in questo film, e in larga parte per ragioni di commerciabilità dell’opera. È chiaro quanto a Bido interessi soprattutto altro e lo sappiamo, appunto, perché si tratta di alcune scene girate quasi come set-pieces, frammenti che starebbero bene anche presi singolarmente.
L’arrivo a Padova, si diceva, cambia le carte in tavola, come accade nella sequenza ambientata sul Po in La casa dalle finestre che ridonodi Pupi Avati (1976) in cui l’orrore, bizzarro, si insinua languido nella vita di provincia, in pieno sole. Siamo più da quelle parti che in zona Argento e Bido, è bene ricordarlo, arriva assieme ad Avati, non dopo, a intuire che la quiete apparente di un paesaggio, di uno scorcio avvolto nel torpore, può nascondere orrori inediti e inesplorati, lontani anni luce dalle tensioni metropolitane tanto care al giallo classico. Forse perché Il gatto dagli occhi di giada, in fondo, non è nemmeno un giallo, anche se ne ha le sembianze, sembra mostrarsi come tale e sa muoversi allo stesso modo. Ma, a proposito di omicidi, la scena in cui Esmeralda Messori viene cotta al forno nella teglia con lo spezzatino e le patate, non è una fiera rivendicazione di autonomia creativa? Un tentativo di sfuggire a certa estetica ritualizzata e dominante? Un modo quasi beffardo e grottesco di ritrarre la morte? La Messori muore ustionata come Amanda Righetti in Profondo rosso di Argento (1975), ma a differenza sua non gode di un decesso scintillante, di una messa in scena avveniristica: viene rosolata, se possibile, in modo ancora più crudele, senza il filtro di un’estetica codificata. Un delitto scarnificato, ridotto ai minimi termini: Bido indica con chiarezza che a lui non interessa l’esibizione di uno stile, la canonizzazione della morte. Gli sta più a cuore, invece, la bestialità disperata della provincia dimenticata, ancora avvolta, suo malgrado, in una coltre polverosa di orrori rimossi.
Il rimosso o, più propriamente, l’opposizione al rimosso, è proprio la questione centrale del Gatto. Rimuovere è possibile: lo facciamo tutti i giorni ed è ciò che ci consente di sopravvivere alle sventure, ai mali che ci accadono. Rimuoviamo persino, in automatico e senza accorgercene, i sogni più perturbanti poco dopo esserci svegliati, al mattino; svaniscono progressivamente, lasciandoci addosso solo una sensazione vaga di malessere. Si può rimuovere tutto: è necessario per andare avanti. Talvolta, però, è importante ricordare, non dimenticare. Bido ci racconta il tentativo di un figlio di fare giustizia attraverso la vendetta e ristabilire un ordine ideale, nel tentativo di evitare che alcuni tragici crimini passati restino impuniti. Quel figlio, legato a doppio nodo al proprio padre da sentimenti di rabbia e disperazione, uccide perché è l’unico modo, per lui, di compiere quella giustizia che proprio il padre, illustre giudice, non era riuscito a portare a termine con gli strumenti della giurisprudenza ordinaria. È il figlio, dunque, a sottrarsi alla Legge costruendone una nuova, la propria, per cui i colpevoli devono morire. Lo sfondo è quello dell’Olocausto: la famiglia dell’assassino, di origini ebraiche, era stata consegnata ai tedeschi durante la Seconda guerra mondiale. I responsabili di questa segnalazione devono pagare con la loro vita, allo stesso modo: questo il piano di Carlo, che decide di vendicare i familiari morti diventando una sorta di propaggine paterna, animato dal proposito di riuscire laddove il proprio genitore aveva fallito. Nel tragico epilogo, in cui l’intreccio giallo si sfalda e rivela la reale consistenza del progetto di Bido, l’impianto che anima l’opera, Carlo dice al padre che deve essere proprio lui (in quanto padre ma soprattutto in quanto giudice, soggetto investito di un potere superiore, incarnazione della Legge) a uccidere gli ultimi rimasti, rendendosi finalmente conto di quanto costi uccidere; di quanto sia costato a Carlo, sia in quanto figlio – investito fin da bambino dalle angosce e dalla rabbia di un padre frustrato e accecato dal dolore – sia in quanto giustiziere spietato, che ha agito seguendo un mandato paterno, sacrificando la propria vita a questa missione.
Non è un atto di amore estremo, questo? Talmente estremo da avere un costo proibitivo, che equamente Carlo chiede al proprio padre di condividere. «Uccidi anche tu, così saprai quanto costa uccidere», vale a dire: ho compiuto la tua missione, ho seguito il tuo mandato, realizzato la tua vendetta, ma adesso devi assumerti le tue responsabilità (di padre, di uomo, del tuo progetto vendicativo). È straordinario (e rivoluzionario), a questo punto, quanto avviene in scena: il giudice uccide suo figlio e se stesso, dopo avere messo a fuoco la deriva terribile della propria rabbia e gli effetti che questa aveva avuto su Carlo e sulle persone assassinate.
Il padre cade. La giustizia non viene ristabilita: anzi, ha fallito su ogni piano. Non c’è soddisfazione per nessuno, e solo apparentemente l’ordine viene ristabilito. In realtà siamo di fronte a un duplice fallimento, su piano umano e familiare. Bido ritrae, nello svolgersi di un racconto che progressivamente svela il proprio intento e la propria anima, il disfacimento di un sistema familiare e umano basato sull’incapacità di assumersi la responsabilità del proprio dolore, di farne qualcosa. Il dolore resta appiccicato come una concrezione peccaminosa, un punto di densità che può solo diventare morte. Non c’è redenzione per nessuno e il film si chiude fermandosi proprio sulla morte del giudice, sul suo fallimento come genitore e uomo.
Riflessione amarissima sulla natura umana, l’opra si discosta dunque enormemente dal giallo classico riuscendo più come dramma familiare, riflessione sui legami, sul tramonto del padre simbolico. Il giudice spara al figlio non tanto per scongiurare la possibilità che questi uccida ancora, ma per escludere dalla propria vista l’evidenza di una colpa, la figura di una prole che continuerebbe a rimandargli il fallimento, le sue intollerabili responsabilità. Nell’Antico Testamento si dice che le colpe dei padri ricadono sui figli; in questo caso la colpa del giudice è, in superficie, quella di non avere rinunciato alla vendetta, di averne trasmesso la necessità al figlio, coltivandola come una sorta di valore fondamentale, proposito necessario alla ricostruzione di un ordine ideale in cui le colpe non vengono dimenticate – in nessun caso – e i colpevoli pagano sempre, prima o poi. Più in profondità, la questione è quella dell’impossibilità di rimuovere, prima ancora che di perdonare: è giusto rimuovere un torto subìto? È giusto lasciare che la gente dimentichi, che non si assuma fino in fondo la responsabilità delle proprie azioni? Il padre ritratto da Bido ha fatto della vendetta e della lotta all’oblio la questione fondamentale della sua esistenza: dalla morte non può nascere nulla se non altra morte, altra distruzione. Sembra l’incarnazione di un giudice biblico, la personificazione di una legge archetipica, terribile. Carlo non è che l’involucro in cui tutto questo è stato depositato e fatto crescere, il ricettacolo di un meccanismo di distruzione, il braccio armato, la propaggine acritica di un padre incapace di creare, di costruire a partire dalle macerie di un passato tragico.
Nonostante il grande successo di pubblico che Il gatto dagli occhi di giada ha raccolto, non sono mancate alcune critiche rivolte proprio al contesto storico su cui si staglia la vicenda narrata; per alcuni il regista si è servito dell’Olocausto impropriamente, come mera giustificazione per la serie di delitti ritratta. In realtà è proprio il contrario: gli omicidi non trovano compimento né giustificazione (e al regista non interessa certo questo livello di riflessione) nel contesto storico, mentre a rivelarsi è una deriva sterile e disperata che getta una luce tragica sulla natura umana dei suoi attori. Il titolo di questo film doveva essere in origine Commissione omicidio: il riferimento al mandato è evidente, a questo punto, e il gatto c’entra poco, se non per qualche frame posizionato ad arte durante i delitti. Questa patina gialla, tuttavia, aumenta il fascino della pellicola di Bido, che diventa un percorso su un doppio binario: ciò che accade sulla scena rimanda a qualcosa di più profondo, a cui lo spettatore ha la possibilità di accedere se è attento, volenteroso e non scansa la possibilità di confrontarsi con le ombre: quelle dei protagonisti, ma anche le proprie.
CAST & CREDITS
Regia: Antonio Bido; soggetto: Vittorio Schiraldi; sceneggiatura: Antonio Bido, Roberto Natale, Vittorio Schiraldi, Aldo Serio; fotografia: Mario Vulpiani; scenografia: Gianfranco Ramacci; costumi: Gianfranco Ramacci; montaggio: Maurizio Tedesco; musiche: Trans Europa Express;interpreti: Corrado Pani (Lukas), Paola Tedesco (Mara), Franco Citti (Pasquale Ferrante), Paolo Malco (Carlo), Bianca Toccafondi (Esmeralda Messori), Fernando Cerulli (Giovanni Bozzi), Giuseppe Addobbati (giudice), Gianfranco Bullo (assistente di Dezzan); produzione: P.A.C. (Produzioni Atlas Consorziate);origine: Italia, 1977; durata: 95’; home video: Blu-ray X-Rated (import Germania), dvd Cecchi Gori; colonna sonora: Cinedelic.