Una vita lunga un secolo...

Andrea Scarabelli
Il paradosso romeno – Eliade, Cioran e la «giovane generazione» n. 7/2014
Una vita lunga un secolo...

Negli ultimi tempi, la critica italiana ha mostrato un’attenzione particolare a quella singolare figura che fu Ernst Jünger. Dopo decenni di scomuniche aprioristiche e ideologiche, sembra che qualcosa stia cambiando. Gli ultimi anni hanno visto una fioritura dell’interesse verso uno dei Grandi Solitari del Novecento, con la pubblicazione sia d’inediti in lingua italiana sia di studi relativi al suo pensiero. Da La questione degli ostaggi (Parma 2012) a Guerra e guerrieri (Milano 2012), contenente anche testi di Friedrich Georg Jünger; dall’ottimo studio di Luca Caddeo L’operaio di Ernst Jünger. Una visione metafisica della tecnica (Milano 2012), contenente peraltro una sezione dedicata ai rapporti tra Evola e Jünger, alla collettanea La mobilitazione totale. Tecnica, violenza e libertà in Ernst Jünger (Milano 2012) curata da Maurizio Guerri. Nuove generazioni, finalmente libere dalle tare ideologiche di ieri, hanno iniziato ad approcciare in maniera scientifica e rigorosa una delle figure più significative del Novecento. È una stagione editoriale che dimostra quanto possa essere fruttuoso il lavoro degli studiosi, se liberato dall’operato di certa bassa giornalistica.

Tassello fondamentale di questa promozione è la monumentale biografia – una delle tre disponibili in tedesco – da poco pubblicata per i tipi della casa editrice Effatà e firmata da Heimo Schwilk, amico dello scrittore tedesco e attento esegeta del suo pensiero. Il suo nome non abbisogna di presentazioni per gli esperti dell’universo jüngeriano. Il pubblico italiano lo conobbe nel 1999, allorché la casa editrice milanese Herrenhaus diede alle stampe il suo volumetto Il sogno dell’Anarca, raccolta di conversazioni con il filosofo di Wilflingen, pubblicato un anno dopo la sua scomparsa.

Premio Goethe nel 1980, amico di Werner Heisenberg, Jorge Luis Borges e Martin Heidegger, Jünger si è distinto come sismografo – secondo la definizione del suo amico Ernst Niekisch, leader del movimento nazionalbolscevico a cui il Nostro fu vicino – del secolo breve, abile diagnosta di tutte le sue fasi e maschere. Il libro di Schwilk ne ripercorre l’itinerario storico, biografico ed esistenziale, dalle battaglie di materiali della Prima Guerra Mondiale sino alle “irradiazioni” della Seconda, dalla vicinanza agli ambienti della cosiddetta Rivoluzione Conservatrice (scrisse su molte delle riviste del tempo, tra cui «Die Standarte» e «Widerstand») fino alle attività del secondo dopoguerra, costellate di dialoghi a distanza con grandi protagonisti del Novecento, tra cui Martin Heidegger (Oltre la linea) e Carl Schmitt (Il nodo di Gordio). Ne emerge una personalità brillante ed eclettica, le cui svariate sfaccettature incarnano le stesse del XX secolo, in grado di occuparsi di storia con lo sguardo del letterato e di letteratura con lo sguardo del morfologo.

Una vita lunga un secolo si concentra in particolare sulla prima fase della sua vita, contrassegnata da una gioventù ribelle e anticonformista che lo condurrà all’esperienza nella Legione Straniera (trasfigurata narrativamente nel romanzo Ludi africani) e dalla frequentazione dei Wandervogel, gruppi di studenti che alla piattezza della vita borghese e all’acosmia delle metropoli preferirono le avventure nelle foreste, anticipando notevolmente quei “ritorni alla natura” che spopoleranno negli anni Sessanta. Di questi ambienti, sviluppatisi nel periodo chiaroscurale di Weimar, lo scrittore seppe cogliere i numerosi spunti e l’originalità propri a qualsiasi periodo di Zwischenreich, d’interregno, espressione che sarebbe diventata assai peculiare nella sua produzione.

Particolare attenzione è riservata dunque al cosiddetto “primo Jünger”, come ebbe a definirlo lo stesso Evola nei suoi scritti dedicati al suo pensiero, poi raccolti nell’edizione uscita per Mediterranee del suo studio pionieristico. Nella guerra totale, all’insegna del dispiegamento tecnico, Jünger vide aprirsi quel paesaggio che avrebbe poi caratterizzato l’interezza del Novecento, preda dell’irruzione dell’elementare all’interno della cittadella costruita dai sistematismi dell’Ottocento. Proprio in mezzo a quel cumulo di macerie fumanti, che sempre accostò ai crateri spettrali della superficie lunare, Jünger vide rinascere una nuova umanità, provata da una guerra sempre più tecnica e sovraumana. «L’Iliade sarebbe stata possibile con la polvere da sparo?» si domandava Marx nel 1859. Attraverso i suoi diari della Prima Guerra Mondiale – ma anche altre opere come Feuer und Blut, Il tenente Sturm e Boschetto 125, nonché Der Kampf als inneres Erlebnis (La battaglia come esperienza interiore), le cui ampie citazioni all’interno del volume di Schwilk mostrano come sia necessario approntarne una traduzione in italiano – Jünger cercò di elaborare un’epica della nuova forma assunta dal conflitto. E, di conseguenza, dal mondo moderno.

Nella sua diaristica della Grande Guerra si avverte già quanto caratterizzerà tutta la sua produzione a venire: l’elaborazione di uno stile che sia all’altezza del nostro tempo, che sappia interpretarne le sfide e le fascinazioni, senza ritornare a un passato ormai perduto né proiettare in avanti, verso un futuro sempre più lontano, la realizzazione delle insoddisfazioni del presente. Emerge da queste pagine una consapevolezza sempre più pronunciata: il nostro tempo è certamente preda di un nichilismo senza pari, ma quest’ultimo consiste in quello scarto che divide l’uomo dal proprio tempo. La fenomenologia del Nulla si articola in questa arretratezza dell’uomo rispetto al proprio tempo: affidandosi a un linguaggio la cui bancarotta è sempre più palese, egli misconosce l’hic et nunc. Sebbene il secolo abbia preso una direzione difficilmente interpretabile attraverso le categorie ottocentesche di scientismo, positivismo e progressismo – nonostante l’ostinatezza con cui questi autentici dogmi vengono tuttora ribaditi a pie’ sospinto in ogni occasione –, l’uomo moderno deve capacitarsene, facendosi protagonista del proprio tempo. Da qui, quell’invito alla responsabilità che è marca fondamentale, a nostro parere, del pensiero jüngeriano.

È a partire da questa necessità che lo scrittore tedesco prende le distanze da opere quali Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque e Il fuoco di Henri Barbusse, il cui pacifismo assoluto si rifiuta di comprendere come la guerra sia il dato primario della storia, come scrisse Spengler. Siamo forse di fronte a un atteggiamento meramente “guerrafondaio”? Null’affatto, e per tre ragioni: anzitutto, questo giudizio prescinde da una qualsiasi valutazione morale, indicando semplicemente la rilevanza del conflitto all’interno della storia mondiale; in secondo luogo, vedere nella guerra un semplice errore da epurare non consente di differenziare varie tipologie di guerra e, con queste, lo stile della civiltà che le compie; infine, se Jünger rifletté sempre sulla Grande Guerra, fu perché in essa vide all’opera nuove forze, in procinto di estendersi anche al mondo civile.

Sui campi di battaglia della Grande Guerra si tenettero, infatti, le prove generali di quella che lo scrittore chiamò “mobilitazione totale”, un mutamento del rapporto tra l’uomo e il suo mondo destinato a condizionare anche i tempi di pace: si affacciò la pervasività di una tecnica che non accetta freni o limitazioni, tendendo a inaugurare uno spazio totale.

E proprio dalle fucine della Grande Guerra emergerà, in tutto il suo cupo splendore, la figura dell’operaio, titano destinato a non soccombere al regno della tecnica trionfante ma a farsene signore e padrone, all’insegna di un nuovo stile in procinto di estendersi alla totalità del globo (aspetto che emergerà in modo più dettagliato nella continuazione del Der Arbeiter, anch’esso di recente pubblicazione italiana per i tipi di Guanda, Maxima Minima). Fu la risposta di Jünger al nichilismo: la creazione di un tipo umano in grado di rispondere alle domande poste dal Nulla all’uomo moderno. Questo atteggiamento, che si radica nel presente in vista di una sua trasfigurazione, è forse il trait d’union di tutta la sua biografia: dal realismo eroico del giovane combattente a quello fantastico delle pagine de Il cuore avventuroso, dal motto del ribelle – hic et nunc – a quello dell’Anarca della cittadina di Eumeswil, capitale trasfigurata di un Occidente trasfigurato.

Le pagine di Schwilk giungono poi al “secondo Jünger”, il quale, presa visione di un’Europa incendiata da quell’elementare tanto invocato nelle pagine de Il lavoratore, si muove in cerca di regioni sottratte alla distruzione. Dapprima cerca rifugio nelle Wildnis di Oltre la linea, poi passa al bosco: non è una fuga romantica, ma l’adozione di un punto di vista radicalmente differente sulla realtà stessa. Perché il bosco si trova anche nella metropoli, occorre solo saperlo individuare. Infine, decide di rimanere in agguato, come Anarca, accanto al potente, in attesa che questi cada, mantenendo un’apolitìa – analoga a quella evoliana di Cavalcare la tigre – quintessenziata da forti ascendenze metafisiche.

Qui risiede il nucleo pulsante di tutta l’opera jüngeriana, il sogno dell’Anarca individuato da Heimo Schwilk, che è nostro compito incarnare, trasformare in realtà: non si comprende il proprio tempo se non attraverso la sua trasfigurazione – non meramente letteraria, come vorrebbe certa critica, ma anzitutto metafisica. Una trasfigurazione della cui necessità la biografia di Jünger è indice e segnale.

Heimo Schwilk, Ernst Jünger. Una vita lunga un secolo, traduzione di Domenico Carosso, Effatà, Cantalupa 2013, pp. 718, € 22,00.

 

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