Editoriale: la rivoluzione copernicana di H. P. Lovecraft
Andrea ScarabelliDi nuovo Lovecraft… Ebbene, sì. A due anni dal n. 0, «Antarès» torna a confrontarsi con il Solitario di Providence. Le ragioni di questa scelta sono molteplici. Anzitutto, l’ormai totale esaurimento del fascicolo, a fronte delle richieste dei lettori, interessati a conoscere qualcosa di più di Lovecraft, al di là del suo aspetto semplicemente letterario – un interesse che anima svariati altri progetti editoriali, tra cui i prestigiosi «Studi lovecraftiani» diretti da Pietro Guarriello. In secondo luogo, per così dire, la necessità di creare un numero più esauriente rispetto al precedente, applicando al soggetto trattato gli stessi criteri scelti per i fascicoli successivi, coinvolgendo cioè più studiosi, di fama nazionale e internazionale, nonché pubblicando svariati inediti, letterari e non.
Di nuovo Lovecraft… Il primo editoriale di «Antarès» si apriva con una domanda, che merita di essere riproposta in questo seguito: perché Lovecraft? Risponderemo con un aneddoto: tempo fa, a una presentazione della Teoria dell’orrore di Lovecraft, pubblicata per Bietti nel 2011, assistemmo a un singolare scambio di battute tra uno dei più importanti studiosi lovecraftiani italiani e un noto filosofo della scienza. A un’osservazione sul palese «antimodernismo» di Lovecraft, il secondo rispose: «Antimoderno? Macché! Lovecraft amava la scienza ». Perché dover scegliere tra le due posizioni?, ci siamo chiesti. Ebbene, è proprio dalla necessità di sviluppare tale apparente paradosso che è nato questo nuovo numero.
In quest’ambivalenza si cela una sapienza assai profonda e piuttosto preziosa, in particolar modo in un momento storico come quello che stiamo vivendo. Se Lovecraft si definì un «assoluto materialista e meccanicista », se fin da giovane si appassionò alla scienza – in particolare, all’astronomia – nondimeno ne criticò ampiamente le possibilità conoscitive e la pretesa di indagare il cosmo, nella sua totalità. Eppure, ben lungi dal rigettarla in toto, della scienza moderna arrivò a fare un mito, sviluppando, per così dire, una rivoluzione copernicana della letteratura. Perché, in fin dei conti, l’horror lovecraftiano, a differenza di quello psicologico di Poe, è orientato verso gli spazi infiniti aperti dalla scienza. Lo testimonia la sua stessa scrittura, che rompe con i cliché consolidati nella tradizione horror per spalancare le porte su dimensioni altre: «Il vero racconto sovrannaturale», scrisse il Nostro, deve contenere «una maligna e peculiare sospensione o sconfitta di quelle immutabili leggi di Natura che costituiscono la nostra sola difesa contro gli assalti del caos e i demoni dello spazio insondabile» (L’orrore sovrannaturale nella letteratura, ora in Teoria dell’orrore, Edizioni Bietti, Milano 2011, p. 317). È facile capire come lo spazio insondabile menzionato sia quello aperto dall’epistemologia moderna e come le leggi di cui sopra siano quelle della scienza materialista dell’Ottocento, totalmente scardinate dalle nuove scoperte, destinate a mutare la percezione dell’uomo del XX secolo.
A fronte di questo mutamento, la funzione assegnata alla letteratura è d’importanza capitale: essa ha la proprietà, sconosciuta ad altri generi letterari, di farsi mito moderno. Nella percezione antropologica si è verificato un mutamento, già realizzatosi in seno alle scienze. Ebbene, spetta allo scrittore trasfigurarlo narrativamente, simbolicamente, affinché acquisisca concretezza e tangibilità per l’uomo, animal symbolicum per eccellenza (Cassirer). La parola scritta, in questo modo, ricopre la funzione fondatrice del mito, permettendo di operare insomma un’autentica “uscita dal tempo”, per dirla con le parole dello storico delle religioni Mircea Eliade, che peraltro in più occasioni, come nella chiusura di Mito e realtà, affidò proprio alla letteratura fantastica il ruolo di “mito moderno”.
E i racconti di Lovecraft sono miti moderni, a tutti gli effetti – cosa che non dovrebbe stupirci, considerando la sua natura bifronte, un «materialista con gusti classici e tradizionali», «entusiasta del passato, delle sue vestigia, delle sue maniere» e fautore di «una vivida e fertile vita immaginativa». Un Lovecraft il quale, in modo ancora più esplicito, aggiunse: «Amando la libertà illusoria del mito e del sogno, sono devoto alla letteratura d’evasione; ma, amando in egual misura il tangibile ancoraggio del passato, tingo tutti i miei pensieri delle sfumature dell’antichità» (Parla HPL. Un abbozzo autobiografico, in Parola di Lovecraft, Società Editrice La Torre, San Marco Evangelista 2012, p. 113). Ma cosa cantano i miti del demiurgo di Providence? La tragedia di una modernità che ha spalancato all’uomo gli spazi siderali ma che non è stata in grado di accompagnarlo nella loro esplorazione, trovandosi così impreparata a incontrare i demoni dello spazio insondabile già menzionati. Quella lovecraftiana è l’epica di un uomo che ha perso il proprio luogo naturale, la cui posizione all’interno del cosmo – come scrisse in pagine illuminanti il fenomenologo Edmund Husserl – è sempre più periferica. Spetta all’umanità trovare il coraggio di specchiarsi in questo nuovo cosmo, ripetendo in pectore il passo compiuto dalla scienza: verrà finalmente colmato quel dislivello che rende i contemporanei esuli del proprio tempo.
Qui risiede il terzo volto di Giano, il denominatore dell’apparentemente contraddittorio atteggiamento di Lovecraft nei confronti della scienza – ma che può estendersi agli altri fenomeni della modernità. Se lo scrittore, da un lato, denuncia i limiti umani, troppo umani di una scienza che vorrebbe squarciare il velo della verità, dall’altro è ben conscio dell’essere la scienza stessa uno dei tratti distintivi della civiltà occidentale. Ragion per cui, è tanto inutile quanto sterile criticarla a oltranza o metterla alla berlina, rifugiandosi in luddismi o ritorni alla natura. Meglio affrontare ciò che è entrato in crisi, farne oggetto di un’epica. Solo a queste condizioni cesserà quel senso di estraneità che coglie i “profani” di fronte a stringhe di equazioni, linguaggio tramite il quale viene codificato il nostro tempo.
Ma un mito di questa sorta non può ignorare le lacerazioni che caratterizzano il mondo moderno. Non potendo più proclamarsi signore assoluto delle cose, l’uomo lovecraftiano è mutilato, tanto a livello spaziale quanto temporale. Il pianeta che occupa, infatti, non è che una piccola porzione di un universo privo di finalità e del tutto incurante delle pretese di onnipotenza della specie umana. Ma nemmeno la Terra gli appartiene del tutto: egli non è che una tappa all’interno di un cammino più ampio, che ha visto antiche razze apparire ed estinguersi, non senza prima aver giurato di fare ritorno, squassando quella razza parassitaria che, in fin dei conti, appena da poche migliaia di anni infesta la superficie del globo. Sono idee che quasi richiamano la vecchia “favola cosmologica” che Nietzsche inserì come incipit di Su verità e menzogna in senso extramorale (ora ne La filosofia nell’epoca tragica dei Greci, Adelphi, Milano 2006, p. 227): «In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più menzognero della “storia del mondo”: ma tutto ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire. Qualcuno potrebbe inventare una favola di questo genere, ma non riuscirebbe tuttavia a illustrare sufficientemente quanto misero, spettrale, fugace, privo di scopo e arbitrario sia il comportamento dell’intelletto umano dentro la natura. Vi furono eternità in cui esso non esisteva : quando per lui tutto sarà nuovamente finito, non sarà avvenuto nulla di notevole». Parole che potrebbero essere ben riferite al Solitario di Providence, in barba a chi crede di poterlo trattare da un punto di vista solamente letterario…
L’accostamento tra Nietzsche e Lovecraft non è solamente aneddotico. La visione del mondo dello scrittore americano presenta, infatti, sorprendenti analogie con quelle di altri critici della modernità (come abbiamo già tentato di dimostrare nel n. 0.) e questa analogia merita di essere studiata e discussa attentamente. Certo, sono in molti a liquidare taluni elementi della Weltanschauung lovecraftiana come una blague, come uno scherzo funzionale alla sua narrativa, come se fosse possibile distinguere i due momenti – in Lovecraft, come in altri scrittori. D’altra parte, quella che potremmo chiamare «strategia dello scherzo» sembra essere assai inflazionata in Italia. In pieno ossequio al politicamente corretto, per certa critica non è difficile scoprire dietro ad autori “classici” dei semplici «giocherelloni» che si dilettavano di miti e simboli perché a corto d’idee. Bastino i nomi di Fernando Pessoa e Gustav Meyrink come esemplificazione di quanto l’esegetica possa – specie nel Belpaese – sostituire i propri pruriti (teoretici, quando non proprio ideologici) alla volontà degli stessi autori.
No, Lovecraft va preso sul serio. D’altra parte, nel suo caso, è facile capire il senso di questa reductio. Se si considerasse, sulla scorta delle assai preziose osservazioni di S. T. Joshi, il più grande studioso lovecraftiano vivente, la sua narrativa non come «una produzione quanto piuttosto come una declinazione del suo pensiero filosofico» (H. P. Lovecraft: the decline of the West, Wildside Press, Mercer Island 1990, p. 5), emergerebbe uno scrittore assai sgradito a certi palati. Un Lovecraft ostile alla democrazia, alla modernità, alla glorificazione delle masse e al guénoniano regno della quantità. Se aprissimo il suo epistolario, punto di riferimento imprescindibile per comprenderne la visione del mondo, scopriremmo un Lovecraft assai vicino alle idee legate alla cosiddetta rivoluzione conservatrice, ossia antidemocratico, antiprogressista e avverso a quella riduzione dell’uomo a entità socio-economica che caratterizza tanto il capitalismo quanto il marxismo. Ragion per cui, ad onta della militanza di certa critica e della «tirannia della maggioranza e delle minoranze» (l’espressione è di Ray Bradbury), non troviamo imbarazzante occuparci di Lovecraft nella sua totalità, in modo anti-manicheo e critico, considerando tanto la sua narrativa quanto il retroterra teoretico che costituì il suo humus.
E lo facciamo nel segno della sua “rivoluzione copernicana”, analoga a quella operata nel campo della filosofia della storia da Oswald Spengler, che Lovecraft lesse, apprezzò e non mancò di criticare. In quest’ottica, gli incubi lovecraftiani che si aprono su gelidi mondi siderali, nei quali l’umanità non è che un errore, il ridimensionamento della civiltà umana, rapportata ai tempi lunghi delle ere astronomiche – ebbene, questi non sono che un primo tentativo di elaborare una letteratura copernicana, come notò Fritz Leiber, ricordato da Giuseppe Lippi nell’intervista in questo fascicolo. Va da sé che una tale letteratura non potrà più giovarsi dei pregiudizi antropocentrici della narrativa “tolemaica” moderna. «Tutti i miei racconti» è sempre HPL a parlare «si basano sulla fondamentale premessa che le leggi, gli interessi e le emozioni comuni agli esseri umani non abbiano validità né significato nella vastità del cosmo. Ritengo non vi sia altro che puerilità in un racconto in cui la forma umana – e le ben definite e limitate passioni umane e le condizioni e le valutazioni – sono descritte come proprie anche di altri mondi o di altri universi […]. Occorre dimenticare che concetti quali la vita organica, il bene e il male, l’amore e l’odio, e tutti gli analoghi attributi locali di una razza trascurabile ed effimera chiamata umanità, abbiano un’importanza di qualsiasi genere» (L’orrore nella realtà, Edizioni Mediterranee, Roma 2007, p. 100).
Oggetto del mito lovecraftiano è dunque il mondo moderno, faustiano e antropocentrico, in tutta la sua tragica grandezza – è contro di esso che Lovecraft mobilita la sua oscura teogonia. L’“ultimo demiurgo”, come lo definì Gianfranco de Turris, visse appieno lo spengleriano tramonto dell’Occidente ma non si arrese, vedendo nell’elaborazione di miti atti a trasfigurare la crisi del proprio tempo l’unico modo per frenare questo tramonto – come fecero anche altri scrittori, come Tolkien nel suo Legendarium e Jünger nei suoi romanzi, quali Heliopolis e Sulle scogliere di marmo.
Consegnando le illusioni della modernità – i suoi dogmi, il suo egualitarismo, il culto del progresso a tutti i costi, l’eccessiva fiducia nella razionalità – al ritorno del Grande Cthulhu, Lovecraft, ammiratore di scienza e tecnica ma al contempo conservatore e antimoderno, esteta incapace di incrociare lo sguardo della Medusa del presente senza far ricorso allo specchio del Mito, rivelò la crisi dell’Occidente, ma allo stesso tempo la sua grandezza. Il che, in fondo, è il medesimo.