Shinkai, ricucire la distanza, ricucire la tradizione
Maurizio L'Episcopia
Makoto Shinkai è per il pubblico occidentale un cineasta fortunato. È bastato un solo film, Your name (2016), a farlo entrare nel cuore del pubblico e, soprattutto, a permettergli di essere riconosciuto come un maestro dai media italiani. Un successo tale che in Occidente si è parlato di lui come il nuovo Hayao Miyazaki. E a Miyazaki c’erano voluti trent’anni per essere apprezzato, nonostante le sue opere fossero sugli schermi occidentali dagli anni Settanta. Al di là dei titoli di stampa, tuttavia, le similitudini tra Shinkai e Miyazaki restano superficiali. Entrambi esplorano i dualismi città-natura e tradizione-modernità e le presenze tangibili del genius loci (gli spiriti per Miyazaki, le divinità Shinto per Shinkai), ma questi sono tratti che valgono per moltissimi altri autori nipponici, Mamoru Hosoda in primis. Il solo film di Shinkai assimilabile alle opere dello Studio Ghibli è Viaggio verso Agartha (2011), storia dell’incontro tra una ragazzina orfana del padre e uno strano ragazzo di nome Shun, proveniente da un mondo sotterraneo – Agartha, appunto. Nell’opera del regista, scrittore e sceneggiatore, però, Agartha è quasi un unicum. Più che mondi fantastici al confine del mondo reale, l’opera di Shinkai è da sempre una riflessione sulla distanza tra le persone: la difficoltà di comunicazione che causa il distacco. Ma a Shinkai non interessa l’incomunicabilità alla Antonioni o Bergman, bensì il modo in cui il distacco si riflette sull’essere parte di una comunità.
A delineare i capisaldi della poetica di Shinkai è un cortometraggio sci-fi del 2002: Voices of a Distant Star. Mikako e Noboru vivono una relazione intensa, ma all’improvviso lei si arruola per andare a combattere una popolazione aliena. La “comunicazione” via e-mail – che giungono a intervalli lunghissimi, di anni – tra i due diventa sempre più rarefatta quanto più la ragazza si allontana dalla Terra. Il finale resta volutamente aperto: non esplicita la fine definitiva del sentimento, ma sembra una metafora adeguata del senso di straniamento della società giapponese, in bilico fra tradizione e modernità. È altresì sottolineato il senso del dovere tipicamente nipponico, per cui l’egoismo personale viene sacrificato al bene “superiore” (la ragazza si arruola per la difesa della Terra, anche se ciò implica la separazione dall’amore nascente). Un’etica che difficilmente troverebbe posto nella narrazione occidentale, in cui ogni eroismo è bandito e il soddisfacimento individualista dei capricci personali è ritenuto preferibile ad ogni afflato comunitario. Della storia esiste anche una versione a fumetti, che reinterpreta e amplia la trama, scritta dallo stesso regista e disegnata dalla mangaka Mizu Sahara.
L’esordio cinematografico di Shinkai risale al 2004, con l’ambizioso Oltre le nuvole, il luogo promesso, dove l’autore gioca la carta dell’ucronia. Il Giappone post-bellico è diviso tra USA e URSS, e nell’area sovietica viene realizzata un’imponente torre, forse un portale dimensionale, che ossessiona tre amici all’ultimo anno di scuola media. Mentre la protagonista entra in un sonno inspiegabile, i due compagni cercheranno di carpire il segreto della torre, sperando di riportare tra loro l’amica.
Nel 2007 Shinkai firma 5 cm al secondo. Un capolavoro di perfezione stilistica in sessantatré minuti, un’animazione minuziosa accompagnata da una narrazione potente, intensa e struggente. È ancora la distanza “fisica” che si traduce in allontanamento delle persone, la solitudine metropolitana, la fedeltà interiore a determinati valori (come l’amore, inteso in senso più “estremo” e profondo rispetto alla visione occidentale). Takaki e Akari appartengono a famiglie spesso in viaggio da una parte all’altra del Giappone. Si avvicinano proprio per questo loro comune senso di spaesamento, questo bisogno di “radicarsi” l’uno nell’altra. Sono però costretti a separarsi, ragazzini in balia delle dinamiche degli adulti, impossibilitati a vivere una propria indipendenza per la giovane età. Con il passare degli anni, Takaki si rifugia in una solitudine impenetrabile per chiunque altro e nella caparbietà del proprio sentimento. Come per altre sue opere, Shinkai ne trae anche un romanzo, declinato in tono più “ottimistico”, nonché la sceneggiatura di un manga in due volumi.
Sempre un mediometraggio è un altro dei suoi capolavori: Il Giardino delle Parole, del 2013. Uno studente quindicenne, Takao, ha un sogno: diventare calzolaio. Nei giorni di pioggia incontra una donna “misteriosa”. Parlano, dividono momenti preziosi, si aiutano l’un l’altra in un periodo psicologicamente delicato per entrambi. Così si avvicinano, eppure la donna sembra non voler chiarire del tutto il proprio passato e il motivo dei suoi problemi. Anche in questo caso, l’animazione è di una meticolosità che toglie il respiro. I colori della città nei vari momenti della giornata, l’effetto della pioggia che avvolge ogni cosa: sembra quasi di respirare e vivere direttamente quanto si vede sullo schermo. L’atmosfera è nostalgica, malinconica, tormentata come in altri suoi film. Eppure, il finale aperto lascia spiragli ad una “lieta conclusione”. Per Shinkai la solitudine acquista una valenza positiva e importante, come ribadirà in un’intervista: «In quest’opera la solitudine non viene rappresentata come un errore a cui rimediare. Ma anche l’amicizia, i legami, gli affetti sono essenziali. Ovviamente penso siano importanti la formazione di gruppi sociali e i legami tra persone. Penso siano fondamentali, ma lo sia altrettanto il tempo trascorso da soli. È questo tempo che permette di approfondire i propri pensieri, e penso sia un elemento importante per diventare adulti».
Nel 2016 torna al cinema con Your name, il film che lo porta al successo internazionale. Centosette minuti esplosivi in un’opera stilisticamente e tecnicamente perfetta, che incorpora svariati elementi fantastici. I protagonisti sono Mitsuha e Taki, due studenti. La prima vive in una cittadina di montagna, il secondo a Tokyo. Improvvisamente le vite dei due si “scambiano” per qualche ora. Ed entrano, letteralmente, l’uno nei panni dell’altra, sviluppando un legame profondo che li porterà a tentare di impedire una tragedia legata all’arrivo di una cometa e, ovviamente, a innamorarsi.
Di questo meraviglioso film esistono anche un adattamento a fumetti (in tre volumi, sceneggiato dal regista) e ben due romanzi (il primo scritto dallo stesso regista, il secondo da Arata Kano). I romanzi ben chiariscono la “visione del mondo” dell’autore, profondamente intrisa di “nipponicità”. Rilevante è la costante rappresentazione dell’immanenza delle sensazioni connesse alla natura come pure alla città – trasfigurata in qualcosa che si spinge ben oltre il vetro, il ferro e la skyline dei grattacieli impersonali, donando un’aura profondamente spirituale alla narrazione. La protagonista, così come la sorellina, la mamma (defunta) e la nonna, è la sacerdotessa del tempio. Tutte e tre sono testimoni del rito della divinità locale, che nonostante tutto viene tramandato: «Anche se il significato è scomparso, la forma non deve assolutamente svanire. Senza dubbio alcuno, un giorno il significato inciso nella forma ritornerà». Questo mentre il padre abbandona il tempio, dopo la morte della moglie, per darsi alla politica con cinico pragmatismo. Un padre che rappresenta la sterilità di ogni costruzione sociale se resta “materia” priva di spirito. Ottusità formale che non può, a lungo, portare bene. La “rivolta” della protagonista a un padre assente ma “severo” non è volta alla rivendicazione di meri desideri adolescenziali ma allo scongiurare una catastrofe che rischia di investire e cancellare tutto il Paese.
Uno dei principali amici della protagonista ribadisce il suo dovere etico di restare nel Paese natio, resistendo alla tentazione di scappare e migliorando la propria comunità, il luogo della propria radice prima. Il senso del dovere porta, ancora una volta, al sacrificio degli istinti egoistici per il bene dell’impresa di famiglia, degli operai ma anche del piccolo Paese. Senza rimpianti. Senza per questo mortificare aspirazioni personali e attitudini individuali, la meta da raggiungere è sempre l’equilibrio comunitario in cui ognuno riveste un ruolo, un posto fondamentale. La sottrazione dell’individuo al bene comune non produce mai risultati positivi, senza però voler tendere alla “massificazione” cieca e robotizzata.
L’importanza della “radice”, il calcare la descrizione sulle sensazioni più profonde della natura e del legame sovramondano tra l’uomo e ciò che lo circonda, il senso del dovere e della comunità come motori primari, la spiritualità dei legami, la fedeltà a se stessi e a chi si ama, la pregnanza di riti e tradizioni: sono valori impensabili e indigeribili per un Occidente che invece sceglie sempre e solo le fragilità, le viltà, l’assenza di eroismo e coraggio, l’avversione all’identità – propria e altrui –, l’irrisione per ogni forma di amore verso le tradizioni, che in Giappone sono indispensabili affinché un’opera conquisti davvero il successo. Una cultura, questa, che si misura sempre con le grandi tragedie personali, che mette costantemente al centro la morte (senza fingere, in modo infantile, che non esista) e non cerca sempre e solo il rifugio nell’edonismo sfrenato come fuga dal “reale” o meta definitiva.
Una prospettiva che Shinkai conferma nel successivo La ragazza della pioggia – Weathering with you, anche se qui l’autore sembra a prima vista ribaltare i suoi temi cardine. Questa volta la storia ha una sua centralità e una trama più lineare: meno poesia, “emotività” e sentimentalismi. Lo spettatore trova per la prima volta un vero “lieto fine” anche se, come da tradizione orientale, è un lieto fine strano, stridente rispetto a ciò cui siamo abituati. E appare un autentico “rovesciamento”: ora il sacrificio per il bene collettivo lascia il posto alla scelta “egoistica”, con conseguenze previste e inevitabili. Ma Shinkai non tradisce se stesso: anche in Weathering with you si palesa un sacrificio per la comunità. Se questa volta le divinità intercederanno a favore dei singoli e dell’amore da “lieto fine”, è solo per una prospettiva più ampia: è un ordine superiore, la natura, che deve compiere il proprio percorso.
Si parte dal consueto “spaesamento” che la metropoli tentacolare causa in chi vi è appena arrivato, in questo caso un ragazzo in fuga da casa, su un’isola di cui non sapremo mai l’esatta collocazione. Anche la sua famiglia non ci verrà mai mostrata. Questa volta, però, la Capitale nipponica accoglie. Un’accoglienza che è fatta da “irregolari”, fuori posto nella città ordinata che all’inizio soffoca e fa tremare: sono queste anime bizzarre e ambigue (costrette all’ambiguità dalla sopravvivenza urbana) a dimostrarsi umane e collaborative. Il protagonista capirà grazie a loro che basta poco per essere felici, nonostante l’estate di Tokyo sia funestata da piogge quasi quotidiane.
Lavorando per uno sconclusionato giornale dedito a sensazionalismi pseudo-esoterici, il protagonista entra in contatto con una ragazza capace di “portare il sereno” e far cessare per poco le piogge. Un dono meraviglioso che diventa un lavoro per entrambi ma ha, a sua volta, un prezzo terribile e doloroso. Eppure, nonostante tutto, questo è forse il film meno malinconico, nonostante l’infinita pioggia asfissiante e le vite decisamente disfunzionali di tutti i personaggi che, però, non scadono mai nella disperazione e nello scoramento.
Gli ingredienti di Shinkai sono sempre gli stessi, è la formula a cambiare: la natura è, in questo caso, più matrigna che madre. Le manipolazioni artificiali dell’uomo hanno una conseguenza che, se può sembrare nefasta e apocalittica, nella concezione orientale fa parte di un corso naturale e ciclico. La natura si riprende ciò che le è stato strappato dall’essere umano, a causa dell’urbanizzazione forzata. Lo spirito nipponico riesce però ad estrapolare il senso naturale di accadimenti anche terribili. Così dev’essere, e il giapponese lo accetta. Senza lamenti o strepiti, essendo capace di leggere un disegno divino e naturale anche nelle cose peggiori.
Ma senza battere la grancassa del moralismo o del pessimismo. Concentrato sui personaggi principali e sull’affresco della storia, non approfondisce le psicologie. Stavolta a contare è il ritmo, non le esperienze intime e personali. L’amore è presente, ma in punta di piedi. C’è poco tempo per concentrarsi su questo versante, gli avvenimenti si susseguono vorticosi: non importa comprendere a fondo la psicologia di ogni protagonista. L’animazione concede tutte le emozioni di cui lo spettatore ha bisogno. Lo prende per mano e lo catapulta al centro, attraverso gli occhi dei personaggi. Probabilmente, questo è il film dove questi ultimi sono meno centrali che mai, sebbene la storia sia la meno “astratta” (stante le venature fantasy preponderanti). È il rapporto tra uomo e natura, probabilmente, il vero tema. L’uomo deve accettare ogni sua manifestazione, soprattutto dopo averne “artificiosamente” alterato confini e paesaggi. Non siamo di fronte, però, a una tirata moralisteggiante tipica dell’ecologismo occidentale, più moda che convinzione reale.
La narrazione giapponese ha sondato varie volte il rapporto, spesso conflittuale, tra uomo e ambiente circostante, tra natura e urbanizzazione. Brecht sintetizzava alla perfezione ciò che siamo diventati – o che ci vorrebbero far diventare: «Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi» (anche se la sua frase, com’è segno dei tempi, è stata decontestualizzata e fraintesa). Al contrario, per i giapponesi rimane fondamentale pensarsi come popolo ed esaltare i piccoli ma grandi eroismi del vivere comunitario, essendo comunione di Storia, destini e appartenenza.
E il successo di questi anime anche in Occidente dimostra che sotto una patina di nichilismo arde – sempre e di nuovo – la voglia di entrare in contatto con quanto vi è di profondo e infinito. Senza le censure del politicamente corretto e oltre un sentimentalismo patetico che resta fine a se stesso – un altro, ennesimo inno alla fuga.