Nostalgia. Dagli esotismi bucolici alla riscoperta del passato
Emanuele MastrangeloIn principio c’erano le suggestioni di utopie agricole fuori dal tempo. Sia quelle reali di un Occidente lontano e bucolico, come la Svizzera di Heidi la ragazza delle Alpi (1974) o l’Isola del Principe Edoardo di Anna dai capelli rossi (1979), entrambe firmate da Isao Takahata (1935-2018), sia quelle immaginarie, dove un’Europa agricola pre-industriale diventava l’unica salvezza in un mondo distopico, come l’High Harbor di Conan, ragazzo del futuro (1978) e la Valle di Nausicaä della Valle del Vento (1984) di Hayao Miyazaki. Negli anni, la nostalgia verso un mondo agreste contrapposto alla vita cittadina rimane un elemento cardine dei due pilastri del cinema d’animazione nipponico, i primi capaci di coniugare pubblico ed elementi autoriali. Se Takahata predilige il realismo con Pioggia di ricordi (1991) e il successivo Pom Poko (1994), dove a combattere l’urbanizzazione selvaggia sono i tanuki, elemento del folklore nipponico, Miyazaki spazia nel tempo e nella geografia, in un percorso che lo riporterà alle origini.
Sono gli anni Venti di Porco Rosso (1992), sono i Cinquanta immaginari di Kiki, consegne a domicilio (1989) e realistici de Il mio vicino Totoro (1988). Nei primi due la nostalgia è più verso la suggestione, quasi si trattasse di esotismi: l’era dei biplani nell’Italia del Nord e un’immaginaria e serena Mitteleuropa in cui sembrano non essere mai arrivate le due Guerre mondiali e la Guerra Fredda. Nel terzo, col suo Giappone rurale del secondo dopoguerra, in particolare, c’è un ricordo d’infanzia (Miyazaki è nato nel 1941 e ha avuto la madre ricoverata, come le sorelline protagoniste).
Infine, il percorso di maturazione di questo sentimento si completa con il Giappone dell’era Shōwa di Si alza il vento (2013) e dell’annunciato E tu come vivrai?, tratto dal romanzo omonimo dello stesso periodo. Una nostalgia che non è per nulla politica – almeno, per come intendiamo il termine noi italiani – ma tutta estetica. È una nostalgia che si concretizza nel rimpianto per ciò che c’era di bello prima dell’arrivo della plastica, del caos sessantottino e della volgarità degli anni Ottanta, dei palazzoni di cemento armato dove non ci si conosce fra vicini e si muore in solitudine e di solitudine, dell’autismo generato dall’incomunicabilità – una nostalgia verso la natura divorata dall’asfalto e dal trionfo della volgarità. Una nostalgia estetica, appunto.
Se Si alza il vento non nasconde i lati oscuri dell’epoca, dalla polizia politica all’ottuso militarismo, la visione di Miyazaki, nel solco di questa nostalgia estetica, si propone anzitutto come comprensione di quello stesso mondo. Un atteggiamento forse impensabile fino a pochi anni fa – basti ricordare il ritratto spietato e cinicamente realistico del Giappone durante la Seconda guerra mondiale concepito venticinque anni prima dall’amico Isao Takahata.
Una tomba per le lucciole (1988) non offre alcun rimpianto per l’era Shōwa. Ne sottolinea gli aspetti più crudi e odiosi – dall’indifferenza alla crudeltà, dall’oppressione poliziesca all’inganno della propaganda –, quasi presentandoli come contraltare all’orrore delle bombe americane: sintomatica è la scena in cui il protagonista del film esulta in direzione dei B29 che attaccano la sua città, perché durante il bombardamento ha la possibilità di darsi allo sciacallaggio e dunque sopravvivere in quella società indifferente che l’ha condannato a morte per fame.
Al contrario, nell’animazione contemporanea, complice forse un cambio di generazione rispetto a chi la guerra o il dopoguerra li ha vissuti di persona, la visione può diventare diametralmente opposta, seguendo la linea tracciata da Si alza il vento. Lo dimostra Sunao Katabuchi con In quest’angolo di mondo (2016). Pur mostrando in tutta la sua crudezza l’orrore dei bombardamenti aerei americani sul Giappone e poi l’occupazione straniera, il vero protagonista della pellicola, ambientata fra il 1940 e il 1945, è quel mondo che le bombe stanno incenerendo per sempre, ricostruito nel film con un dettaglio storico maniacale a partire da foto d’anteguerra, resoconti giornalistici, diari, ricordi dei testimoni dell’epoca ancora in vita. Un mondo che si reggeva su convenzioni oggi quasi incomprensibili, dai matrimoni combinati alle prostitute-reiette dei quartieri a luci rosse, che non era forse più giusto del nostro, ma probabilmente più bello.
Armonioso e delicato, quel mondo non rifuggiva comunque la modernità per rinchiudersi in un’Arcadia, come le utopie agricole del primo Miyazaki (di cui Katabuchi è stato vice-regista in Kiki). La visione della superba corazzata Yamato («la nave più bella di una bella donna») che solca le acque della baia è in perfetta armonia con le campagne coltivate e le case in legno dai tetti di tegole laccate, con i pini marittimi e i templi shintoisti. La nostalgia che traspare da In quest’angolo di mondo è diretta a un universo che sembrava capace di coniugare tradizione e modernità. Come ricordato nell’Editoriale, è la stessa idea che aveva colpito l’immaginario culturale italiano nel primo Novecento.
Ed è la sensazione che si ha guardando il Giappone degli anni Venti rappresentato in Si alza il vento di Miyazaki. Un breve attimo di splendore in cui potevano convivere tradizioni ancestrali – come un improvvisato matrimonio celebrato nel cuore della notte – e l’ingegneria aeronautica d’avanguardia. Su questo breve attimo di elegante splendore, poi, sarebbe arrivata la guerra, destinata a spazzare via tutto e ad aprire la strada al regno della volgarità.
A questo punto dobbiamo fermarci, facendo un passo indietro. Cosa c’è di tanto eccezionale in questo pugno di film legati fra loro dal tema della nostalgia?
C’è il fatto di aver rotto quello che era un quasi-tabù. Dopo la Seconda guerra mondiale, il Giappone non ha mai parlato volentieri della propria identità prebellica. Un misto di imbarazzo e invidia per non doversi confrontare con quelle che il mondo moderno ritiene “responsabilità storiche” e con le radici della propria sconfitta militare. Il Giappone odierno è pacifista e antimilitarista, ma non accetta di discutere il proprio passato “fascista”, né col mondo né con se stesso. In questo senso, in maniera molto… giapponese, si è preferito il silenzio.
Nel panorama dei manga e degli anime, le rappresentazioni del Giappone durante gli anni Venti e Trenta si contavano sulla dita di una mano. E si trattava per lo più di opere di critica manieristica al fascismo giapponese. Tutto questo, fino a qualche anno fa.
Improvvisamente, questo periodo tabù nella storia del Giappone comincia a essere ripreso anche dalla cultura pop dell’animazione, fino a ispirare opere impensabili altrove: è il caso di Zipang, manga e anime realizzato tra il 2000 e il 2009, dove un moderno cacciatorpediniere delle forze di autodifesa nipponiche si trova per caso rispedito indietro nel tempo, nel 1942. E la decisione iniziale di non alterare la storia si farà via via impossibile.
Dalla denuncia (orrori della guerra, del militarismo, dell’espansionismo, eccetera) si passa alla necessità di comprendere il proprio passato, arrivando infine al racconto di un “piccolo mondo antico” ormai perduto. Si tratta di un atteggiamento di tipo estetico, come abbiamo visto nel caso di Miyazaki e Katabuchi (nel cui lungometraggio, tuttavia, non manca una vena nazionalista, del tutto assente in Si alza il vento), ma anche di una forma di rivendicazione.
È il caso, per esempio, di Mirai (2018) di Mamoru Hosoda, il cui piccolo protagonista – Kun, un bambino di tre anni – inizia a viaggiare nel tempo grazie all’intervento prodigioso di una sorta di genius loci domestico (qui, tra l’altro, si potrebbe aprire un altro capitolo sul prepotente ritorno dello shintoismo nelle ultime opere di animazione giapponese, che però esula dal tema di questo articolo) e ricuce i fili dell’esistenza con il bisnonno, marinaio durante la Seconda guerra mondiale, ferito e mutilato durante un bombardamento nemico. Kun non ha mai conosciuto questo antenato; incontrandolo nel suo viaggio temporale, riceve un’affettuosa lezione di vita, trasparente metafora di come le generazioni del passato lascino un’eredità preziosa per quelle future.
È significativo che il piccolo Kun, rappresentante del nuovo Giappone proiettato verso il futuro, riannodi i fili dell’esistenza proprio con un esponente di quella generazione dimenticata (e nel film si rimarca questo oblio), una generazione che ha urlato di dolore – come fa il nonno di Kun, sopravvissuto per miracolo alle bombe americane – non tanto per le ferite fisiche, ma per quelle morali, derivanti dalla sconfitta e dalla distruzione del proprio mondo, perduto per sempre.
Sempre Hosoda con Summer Wars (2009) aveva raccontato – con la scusa della trama principale (lo scontro fra un adolescente introverso e un’intelligenza artificiale che vuole conquistare internet, causando così disastri globali) – l’incontro fra uno sconosciuto e una famiglia – i Jinnouchi – che oscilla fra bizzarria e tradizione. La vicenda si snoda nella grande dimora di questo casato – ispirata alla reale residenza dell’antico e nobile clan Sanada a Ueda – e le sottotrame raccontano dei diversi membri di questa famiglia, discendente da un samurai feudatario del clan Takeda (uno dei più importanti del Giappone medievale). I Jinnouchi sono oramai retti da una matriarca novantenne, custode del ruolo del defunto marito, che in una scena non esita a imbracciare una naginata, una tipica lancia giapponese considerata arma d’elezione per le donne dei samurai. Un filo, insomma, che non si deve spezzare: la famiglia tradizionale è il pilastro attorno alla quale si rinsaldano le parentele e si dimenticano i dissapori.
Il ricordo di un passato comune d’onore, lotta e gloria è la spina dorsale per vincere una battaglia totalmente nuova – quella nella rete –, ma che viene affrontata armati di valori antichi. Il protagonista, entrando a far parte di questi valori, supererà la propria introversione paralizzante.
Idealmente, il percorso culturale di anime e manga sembra ricalcare quello della visione di uno dei suoi principali esponenti: stiamo parlando proprio di Miyazaki, passato dalle utopie agricole occidentali delle prime opere alla riscoperta del passato prossimo giapponese. È indicativo delle attuali tendenze del mondo dei manga il fatto che, tra le serie trainanti del «Weekly Shonen Jump», magazine settimanale da quasi due milioni di copie (prima di essere pubblicati in raccolta, in genere i manga escono sui periodici), vi sia, come fumetto di punta, Demon Slayer. Si tratta di un manga horror fantasy che, a differenza dei classici di altro genere che lo hanno preceduto (Dragonball, Naruto e One Piece, tutte opere di ambientazione completamente immaginaria), è collocato nel Giappone rurale dell’era Taishō, l’epoca fino al 1926, che precede la Shōwa.
Anche se da nessuna parte finora s’è vista un’incondizionata rivalutazione dello spirito del kokutai, quel particolare concetto di nazione etnoculturale imperniato sulla figura dell’Imperatore che ha costituito la spina dorsale del Giappone prebellico, non c’è dubbio che le briglie imposte al Sol Levante dall’occupazione americana comincino a star strette. Così il remake di Corazzata Spaziale Yamato – Yamato 2199 (2015) – e il sequel Yamato 2202 (2018) riprendono la celeberrima space opera di Leiji Matsumoto (1974), sviluppando ampiamente temi che in qualche misura possono essere definiti “nazionalisti”, o comunque di esaltazione dei valori tradizionali e di un’etica guerriera e cavalleresca, presenti solo in nuce nell’originale. Depurata dagli elementi più truci che caratterizzavano la società giapponese prebellica e da qualsiasi riferimento all’Imperatore (figura che, peraltro, pochissimi manga e anime si permettono di inserire nelle loro storie), la comunità dei membri dell’equipaggio della Yamato sembra una versione idealizzata di quel mondo perduto, dove trionfano i valori tradizionali e l’armonia, portando i protagonisti verso l’obiettivo comune.
Una futura società retrò che viene ulteriormente approfondita nel manga (in corso di pubblicazione).
Nel sequel, vale a dire 2202, l’abitazione del dottor Sado, edificata sulla Terra dopo la ricostruzione, è peraltro un’elegante machiya, una casa cittadina in legno, di quelle che oramai stanno scomparendo ovunque, sostituite da abominevoli edifici in cemento rivestiti di mattonelle di clinker prive di qualunque armonia e identità.
Anche in questo caso, la scelta del personaggio non sembra secondaria: il medico di bordo era il miglior amico del vecchio comandante Okita, morto al termine della prima serie, la cui figura, fin dal manga originale di Matsumoto, era ricalcata su quella dell’ammiraglio Tōgō, vincitore di Tsushima nel 1905. Perfino la statua che rappresenta il capitano Okita ricorda, mutatis mutandis, quella innalzata in onore di Tōgō davanti alla corazzata Mikasa, ancorata come nave-museo dal 1926 a Yokosuka, nella baia di Tokyo.
Anziano e saggio, Sado è il trait d’union fra la vecchia generazione, che lascia il testimone, e la giovane, protagonista della vicenda. È significativa, dunque, la scelta di rappresentarlo come un “giapponese d’altri tempi”, decisione che peraltro crea un notevole parallelo con il citato bisnonno di Kun in Mirai: i nuovi cittadini del Sol Levante devono tornare a guardare ai loro antenati, quelli finora tenuti in ombra e dimenticati per la vergogna della sconfitta.
Un certo senso di revanche – per quanto mai sconfinante nel nazionalismo – si avverte anche in un’opera che in teoria non dovrebbe far parte di questa panoramica, Shin Godzilla (2016) di Hideaki Anno, che includiamo per la carriera del suo regista, finora sempre legata agli anime. Al di là della vicenda fantascientifica da kaijū-eiga (“film di mostri”), l’asse portante della pellicola è una sorta di rivincita morale della giovane generazione, un po’ nerd e impacciata ma animata da pensiero laterale e spirito di sacrificio, capace di rialzare la testa. Una rivolta generazionale che si contrappone tanto alla attuale sclerotica gerontocrazia del Giappone, egoista e prona agli stranieri, quanto alla tracotanza degli statunitensi, ingombranti alleati, di fatto padroni coloniali, che non esitano a pianificare un nuovo bombardamento nucleare del Giappone pur di distruggere Godzilla.
Nella chiusura del film, una battuta fra la co-protagonista americana e il protagonista giapponese sui rapporti di sudditanza fra Tokyo e Washington fotografa il governo nipponico come un burattino degli statunitensi. Una franchezza inconsueta, considerando l’abitudine tutta giapponese di far passare sotto silenzio tutto ciò che è percepito come “imbarazzante”.
Il fatto che l’allora primo ministro giapponese Shinzo Abe abbia espresso apprezzamento per il film di Anno (che, altrove, abbiamo descritto come un «film nazionalista senza che si veda una sola bandiera nazionale»), nonostante la critica nemmeno troppo velata alla politica nipponica, è un indice abbastanza interessante della direzione in cui lentamente potrebbe avviarsi il Sol Levante.