Non solo cartoni animati
Massimiliano Gobbo
Anime, un nome esotico ed evocativo che rimanda a un universo immaginoso e mirabolante, quello della fantasia nipponica elevata al massimo grado. Non solo cartoni animati: così potremmo definire questi prodotti pop. Eh sì, perché anime vuol dire tante cose, un insieme difficilmente definibile e ancor meno classificabile di suggestioni ed emozioni dal soma avventuroso e romantico, fantastico e mitico. La stessa cultura nipponica si basa sul mito, sulla leggenda, sulla fede nei kami, spiriti regnanti sulla natura selvaggia e spesso ostile di questo lussureggiante arcipelago perduto nell’Oceano Pacifico. Fieri e indomiti, i giapponesi da sempre hanno lottato contro ogni avversità: la furia del mare, quella plutonica dei numerosi vulcani, dei terremoti più distruttivi. I poeti e i pittori, come pure gli uomini di lettere di queste isole meravigliose hanno da sempre avvertito la necessità impellente, quasi fisiologica, di popolare il mondo che vedevano con occhi trasognati e meravigliati di esseri sovraumani, divini.
La stessa religione principale del popolo nipponico, lo Shintoismo, abbonda di storie fantastiche ed eroi dal cuore impavido. L’etica giapponese, poi, è tra le più straordinarie. Il culto del senso del dovere, detto giri, l’appartenenza a una nazione cui sacrificarsi in caso di necessità, la fedeltà assoluta alla figura divina dell’Imperatore e, per le caste guerriere, al Bushido… Lo stesso codice d’onore dei famosi e temuti samurai era strettamente legato all’osservanza di regole rigidissime che prevedevano assoluta abnegazione e, in caso di fallimento, il ricorso al suicidio rituale, il cosiddetto seppuku.
Questa premessa d’ordine storico e sociologico vuol dire che parlare degli anime senza far riferimento alla storia millenaria del Giappone e alla sua cultura, basata sul mito e l’eroismo individuale e collettivo, significa fallire completamente il bersaglio, o quantomeno peccare di superficialità. Ciò spiega, almeno in parte, la ragione per cui in apertura si asseriva che paragonare gli anime a semplici cartoni animati è quantomeno riduttivo, se non del tutto improprio. Sia come sia, è impresa ardua rendere a parole lo spirito giapponese, la particolare concezione del mondo che i nipponici manifestano con ogni gesto e pensiero. Ecco allora che gli anime si configurano come la cristallizzazione, in ambito fantastico e immaginifico, dell’identità di questo popolo. Parlavamo di eroi, di simboli e quindi di tradizione. Ebbene, negli anime ve ne sono in gran quantità.
Citati in modo diretto o in maniera indiretta e sfumata, in parecchie occasioni allo spettatore occidentale tali elementi sfuggono completamente. In altri casi, invece, il loro simbolismo risulta intellegibile, se non evidente. Tuttavia, occorre effettuare un’operazione di natura intellettuale, una rielaborazione di contenuti ed idee, senza la quale si rischia di non cogliere l’essenza della narrazione. Da ciò si comprende come per un occidentale possa apparire in qualche modo familiare un personaggio come Capitan Harlock, prototipo futuristico del ribelle o del fuorilegge che lotta per difendere gli oppressi, un personaggio che non sarebbe spiaciuto al nostro Emilio Salgari e che trova una certa corrispondenza con Robin Hood. Allo stesso modo – ma per motivi diversi – Heidi, Remi o Anna dai capelli rossi hanno polarizzato l’interesse di milioni di bambini sparsi per il mondo.
Ciò è dovuto all’universalità dei temi trattati e alla magnifica caratterizzazione di personaggi tanto affini alla sensibilità dei più piccoli. Ancora una volta, il grande successo di questi anime è dovuto al loro linguaggio, comprensibile anche in Occidente, e soprattutto al fatto che sono tutti tratti da capolavori della letteratura per ragazzi di matrice europea o americana, mentre in altre circostanze la mentalità e la morale schiettamente giapponesi rendono meno comprensibili alcune scene o situazioni. È il caso dei soggetti basati sulla figura del samurai o delle narrazioni in cui emerge prepotentemente l’etica buddista. Altrove sono la forza dei personaggi e le loro psicologie ad assumere un ruolo centrale. Per rendersene conto basterà pensare alla caratterizzazione formidabile dell’istrionico e spassoso Lupin III (omaggio alla creatura letteraria di Maurice Leblanc) o a quella post-apocalittica del fantascientifico Conan il ragazzo del futuro.
Insomma, gli anime hanno rappresentato – e, per certi versi, rappresentano ancora – uno straordinario caleidoscopio d’immagini ed emozioni che ci ha permesso di gettare uno sguardo un po’ più ravvicinato su una cultura prima del tutto sconosciuta; la cultura di un popolo giustamente orgoglioso delle proprie tradizioni e del proprio retaggio millenario.
Ed ora, diamo uno sguardo ai racconti che «Antarès» dedica agli anime. In questo numero vogliamo presentarvi due storie molto particolari, scritte con occhio attento al mondo dell’animazione giapponese. La prima, di Alessandro Bottero, grande conoscitore del pianeta manga, è intitolata Dalle ceneri. Si tratta d’una storia fantascientifica velata da una satira arguta e puntuale sul modo del fumetto e dei fenomeni legati al fandom. Ambientato in un mondo distopico che ricorda da vicino quello del capolavoro di Ray Bradbury Fahrenheit 451, ci proietta in una società in cui i manga sono messi all’indice e finiscono sul rogo.
Il testo di Carlomanno Adinolfi appartiene invece a un particolare sottogenere di fanfiction: è un crossover che vede la presenza di protagonisti ispirati agli immaginari di due autori che ben rappresentano le due facce della medaglia delle produzioni nipponiche. È risaputo che gli antenati del pirata spaziale volassero fin dalla Grande Guerra sugli aerei con la Croce di Ferro. Mentre, relativamente al cacciatore di taglie che solcava i cieli dell’Adriatico, intorno al 2010 fu annunciato un possibile sequel, da ambientare proprio nei cieli di Spagna.
Due variazioni sul tema, insomma, che danno veste narrativa a un argomento tra i più affascinanti per capire il rapporto fra Oriente e Occidente e fra tradizione e modernità.