François Ozon è gay dichiarato. Il suo cinema è equamente popolato di figure etero, omo e bisex. A ragionar di numeri, questo bilanciamento è quasi un unicum. Non che voglia proporre una spinosa lettura alla luce della biografia, ma almeno non fare finta di niente, appellandosi alla vetusta scissione tra artista e uomo. Sono alcuni astri stessi evocati da Ozon a fasi alterne a suggerirlo. Rainer Werner Fassbinder, Pier Paolo Pasolini, Cyril Collard.
Anche perché la sensazione è che Ozon molto presto, da Sotto la sabbia (2000) in poi, si sia voluto liberare di qualsivoglia anelito a fungere da “autore gay”. La definizione “cinema gay” oggi può certamente suonare polverosa e sono molto le perplessità sulla liceità di questa etichetta. Non è questo il luogo dove parlarne, ma è necessario sottolineare che quando Ozon esordisce, le teorie queer applicate al cinema vivono una fase fervida, e l’emergere di festival a tematica GLBT genera focolai importanti di riflessione. Ancora di più l’affrancamento di Ozon da quella nuvola semi-ideologica, considerato il momento, suona netto. In Ozon conta pochissimo l’essere storico – anche se nei film rivolti al passato conta un po’ di più (Angel. La vita, il romanzo [2007], Potiche [2010]). Quel che andava conquistato è già un dato di fatto, quale che sia lo stato delle cose: con Ozon siamo al di là della soglia della “questione omosessuale” e identitaria. Si è davanti a sfide assolute, fuori dal tempo: la gravidanza, la malattia, la morte degli affetti, la verità.
Allora perché partire da questo, da Ozon uomo maschio gay dichiarato?
Perché quel che storicamente appare dato, a livello di rappresentazione intima dell’io maschile mi sembra più ribollente, quasi irrisolto. L’uomo Ozon, nei film del regista Ozon, sembra in un’apnea controllata, almeno quanto l’uomo Fassbinder emergeva e riaffondava nel proprio cinema, in modo vorticoso, a velocità crescente, rifuggendo ogni equilibrio. Come autore Ozon mi sembra tanto abile a manipolare la materia narrativa quanto come uomo, la sua visione di mondo, mi pare suggerire un conflitto costante. Un paradosso, considerata la natura risolta di certi suoi personaggi (non tutti).
A regolare questi timori sotterranei c’è la politeness borghese. L’eloquio pacato della madre di Louis, in Il rifugio (2009), a contatto con Mousse, ricopre con uno strato di buone maniere l’orrore del giudizio per «una tossica» che «gli ha ammazzato il figlio». È solo un esempio: genitori smorzati dalla coscienza di classe sono presenti ovunque, dalla madre noncurante del suicidio di Franz in Gocce d’acqua su pietre roventi (2000) all’intero albero genealogico di 8 donne e un mistero (2002). Questo strato di gomma middle class agisce come i respingenti laterali di un flipper: quando si tratta di corpi e carne funge da filtro, ma quando gli stessi istinti non riescono a essere contenuti scatena il capovolgimento di fronte, deviando la traiettoria. Costringendo loro a cercarsi ripari vari, possibilmente in assenza di sovrastrutture sociali.
È ampiamente condiviso l’uso del termine “desiderio” per identificare il mondo tematico del cinema di Ozon. A me questi corpi desideranti sembrano vivi ma raffreddati, i rapporti sessuali ammorbiditi nell’ovatta, pur nell’intimità delle molte Scènes de lit (questo il titolo di un suo cortometraggio del 1997) in cui ci si ritrova. Carnalità quasi impalpabili. Ragiono di suggestioni. Forse, radicalizzando il tutto, questa distanza è lo strumento necessario che consente a Ozon non solo di far distaccare il suo cinema da quel prestarsi a ragioni “di classe”, ma anche di celarsi, tenersi in una posizione cautelativa, più o meno consciamente. Come partecipare a un’orgia nel ruolo di uditori.
Di estrazione differente ma con un percorso professionale ricco di vicinanze, anche Pedro Almodóvar ha destato spesso il sospetto di una specie di “fobia interna” nei confronti della figura del maschio gay, che gradualmente scompare man mano che il suo cinema si “istituzionalizza”, salvo ritirare fuori forme scottanti e irrisolte quando la matassa vira verso l’autobiografismo (La mala educación, 2004). Questo processo in Ozon è certamente più sobrio. Non rifiuta il maschio, ma ne smussa gli angoli attraverso vari processi: generalmente ne rende essenziali le fattezze, mettendo in piedi una galleria di protagonisti belli e fascinosi ma non troppo perturbati, quasi non minacciosi, oppure in altri casi rappresentando l’uomo gay in forme al limite del cliché.
L’attrazione di Ozon per i suoi opposti è palpabile, ma non è detto che si traduca in un rapporto concreto. È certamente attratto da Fassbinder, che invece nella brutalità primigenia del maschio proletario aveva riposto un motore del suo cinema febbrile. Ma subisce il fascino anche di Collard: Il tempo che resta (2005) pare una versione al negativo (quindi, al positivo) di Notti selvagge (1992). Dove in quest’ultimo il percorso di redenzione e accettazione della malattia passa da una sorta di immersione in vari stadi di “auto-degrado”, seppur teneri, nel gemello di Il tempo che resta questo processo si attua proprio con la presa di distanza da quell’universo.
Più frequentemente, è il semplice spostamento di fuoco dalla questione gay alla questione “umana” ad agire per conto di questa forma di distanza cautelativa. In questo, credo, che la spia più abbagliante sia la gestione unica e peculiare del concetto di bisessualità. In un’improbabile galleria del “maschio gay” in Ozon, è proprio il bisessuale il primo, l’onnipresente, il fuoco.
Etero-flexible
(Quasi) mai un personaggio omosessuale nei film di Ozon evita di trovarsi alla “prova” del sesso eterosessuale. Se eseguiamo un campionamento quantitativo, i risultati lasciano sbalorditi. Si escludano La petite mort (1995), corto “classicamente gay” sul conflitto con il padre, e X2000 (1998), scene di un post-millennium party dove è facile supporre sia successo di tutto. Le casistiche rimanenti sono tante: il protagonista di Une robe d’été (1996), il figlio nerd “liberato” di Sitcom – La famiglia è simpatica (1998), il killer-cappuccetto rosso di Amanti criminali (1999), il dominatore e il dominato di Gocce d’acqua su pietre roventi, l’etero “posseduto” di Cinqueperdue – Frammenti di vita amorosa (2004), il gay consapevole nella sua crisi di approccio alla morte di Il tempo che resta, il fratello del defunto di Il rifugio, i “due-in-uno-solo” David/Virginia di Una nuova amica (2014). E stiamo escludendo tutta la questione femminile: avremmo potuto ragionare su Gaby/Deneuve di 8 donne e un mistero, su Swimming Pool (2003), o ancora su Laura di Una nuova amica e persino sui dubbi della vedova non accettata in Sotto la sabbia.
Siamo lontani anni luce da una bisessualità «usata per nascondere o legittimare l’omosessualità» o «qualcosa da cui i nevrotici si allontanano di tanto in tanto per andare a fare un giro», come la definiva Vito Russo1. Sembra persino riduttivo parlarne, di questa bisessualità: a soli 18 anni il Sébastien di Une robe d’été, non pone la questione del “cosa si è”. Con naturalezza spiega a una giovane donna che è con un amico, ma che non disdegna il sesso femminile, un po’ le stesse cose che Franz dice a Leopold in Gocce d’acqua su pietre roventi prima di cedere al suo trabocchetto. Sembrano atti di tenera affermazione della virilità tutti adolescenziali, verosimili per l’età dei caratteri. Soprattutto ribadiscono la caducità di un’identità sessuale “certa”, fattore-grimaldello per scatenare le reazioni dei personaggi contro lo status delle cose. Come aprire l’anta specchiata di un mobile, passando dalla propria immagine riflessa a un intero contesto rivelato.
Giovani e belli
Soprattutto nella prima fase della carriera di Ozon, ricorre la figura del giovane aitante maschietto con caratteristiche liminali, di confine. Non effeminati veri e propri, piuttosto ragazzi appena sbocciati, prima che la loro mascolinità possa modellare il soma irremediabilmente. Non maturi abbastanza per rivelare una dimensione di maschi-machi, ma virabili verso una natura cangiante.
Si è detto tanto sulla persistente idea di relazione omosessuale che, assumendo i contorni della dinamica borghese, “costringe” il gay maschio a comportarsi come in una coppia qualunque. Questa struttura dei rapporti, cruciale in Fassbinder, ritorna nei primi film di Ozon, non saprei dire se come puro citazionismo o reale coscienza. Chiaramente in Gocce d’acqua su pietre roventi: nel primo atto, prima di essere plagiato, Franz è ritratto come un collegiale imberbe, alla Belli e dannati (1991), film che mi pare ispirare anche la fisicità di Luc in Amanti criminali. Nel secondo atto, quando la relazione ha già espletato a chi appartiene, citando il film del 1975, Il diritto del più forte (del resto, si chiama Franz anche la vittima incarnata da Fassbinder), il giovane è fluidamente virato verso una corporeità aliena, più David Bowie in Life on Mars? che Tadzio. E anche quando il ragazzo si rifugia nel rapporto eterosessuale come fuga da quell’appartamento-gabbia, si insiste su una rappresentazione del corpo che è al contempo femmineo e virile. Nella freddezza del rito del suicidio, Ozon mette in luce il corpo di Franz glabro e spoglio, ma con il pacco visibilmente consistente sotto gli slip. Una dualità che, a una lettura certamente irriverente, era proposta anche in Accattone (1961).
Il twink dotato, immagine in grado di scatenare il fuoco dell’uomo alla prova della mezza età Leopold, riunendo due “funzioni” in una, la dote e il culo, la sottomissione e, all’uopo, la virilità. Il teatrino ritmico che chiude ogni atto conferma la meccanicità di questa costruzione.
Ma il corpo del ragazzo passivo ma virile insieme è una ricorrenza frequente: il fidanzato di Romain in Il tempo che resta è un gingerboy dall’aura adolescenziale. Eppure Ozon non può fare a meno di assegnargli una vigorosa protesi per mostrarlo, iperdotato, durante il rapporto sessuale: e qui, più che Accattone, viene in mente, di Pasolini, la Trilogia della vita.
Sempre la fluidità: l’attrazione per il giovinetto è viva finché egli è in grado di dimostrarsi mascolino. Forse c’è in atto un processo di negazione dell’effeminatezza a vantaggio di una dimensione dettata ancora da un timore: l’inadeguatezza all’essere anche attivo e, per proprietà transitiva, procreatore, altro polo cruciale in Ozon. Gravidanza e omosessualità maschile non sono mai risultati così vicini nel cinema contemporaneo come nell’opera di Ozon (escludendo i film a tema femminile). Da queste parti i gay fanno figli, l’hanno sempre fatto.
Love in the dark
Come accennavo, la distanza dalle dinamiche “standard” della vita gay è nell’uso di una serie di cliché. In questo, è il Il tempo che resta il film che mi sembra rivelatore. Intanto la malattia: non è AIDS, come a non consentire alcuna collocazione dell’opera in un “filone sociale”, nonostante la sintomatologia resti volutamente nebulosa. Dopo aver appreso la notizia, Romain compie due passaggi fondamentali, che suonano come liberazione dal “côté gay” del suo essere gay: prima lascia il compagno, non senza averlo posseduto, ancora in sottolineatura macho, con un pene grossissimo. Poi il tour in un cruising gay: passate le varie aree della cellar, il punto d’arrivo è la sling2, iconico richiamo della sala operatoria, come ben interpreta uno dei passaggi più intensi di Camere separate di Pier Vittorio Tondelli3. Romain guarda negli occhi un altro masculin-feminin, nel punto di essere “usato” da un maturo attivo. In questo sguardo, senza contatto fisico, c’è tanto: liberazione, paura, condanna, dolce commiato. Non c’è eros, ma un distacco simbolico da una dimensione fisica, un attimo prima che il suo stesso fisico ceda, un distacco che trova sintesi nella ricorrente figura del fotografo: come accadeva in La petite mort, l’addio al desiderio fisico coincide con la decomposizione (o decoupage?) fotografica dell’ormai ex amato, elemento ripreso allo stesso modo in Il tempo che resta.
Questa “cautela” per gli stereotipi gay diventa parodia – e quindi ancora distanza – in Sitcom. L’orgia domestica organizzata dal figlio raccoglie un campionario vastissimo di “maschere”: il punk, il leather, il muscled, il s/m, il daddy, persino il minore (in uno dei momenti più uncorrect di tutti i film di Ozon). Eppure Francois(e) (personaggio esclusivamente telefonico, alter ego del regista, al femminile) resta ben lontana da quella stanza, che vediamo dallo spioncino. Affetta da ipocondria, Francois(e) rinvia per telefono tutti gli inviti a prendere parte a quella bolgia infernale e omicida.
In Amanti criminali il codice gay viene distanziato e filtrato attraverso una strana gelatina fiabesca, che produce la contrapposizione tra due immaginari: l’uomo nella foresta, l’orco, è un master cinquantenne, ancora un macho di cui avere paura pur sentendosene attratti. Ben prima del sesso, il godimento dell’orco è nel puro possesso del ragazzo, il quale a sua volta inizia a comportarsi – ancora! – come una “donna di casa”, lavando i piatti, mostrandosi servile, in un classico flusso master/slave. Nel primo rapporto sessuale, il piacere è basato sull’assistere alla masturbazione: un moto di piacere attraverso la distanza e, insieme, espressione di paura da contatto. Luc appartiene a un’altra iconografia: quella dei college boy, degli spogliatoi, dei sospensori sudati e dei calzini usati. È un’inquadratura a suggerirlo: durante il rapporto completo, vediamo accostate le calzature di entrambi, da un lato, le sneakers slacciate del ragazzo, dall’altro dei surreali stivali dell’orco, una citazione leather reinterpretata in chiave fratelli Grimm. Sempre sul tema della contrapposizione, valga anche la rappresentazione iper-kitsch, da Laguna blu (1980), del rapporto etero tra Luc e Alice, dove uomo-uomo evoca fanghiglia, oscuro, paura e uomo-donna richiama sole, luce, natura. Se non fosse palese l’intento parodico dell’intera operazione, la contrapposizione lascerebbe irritati.
You are my sister
Forse a questo Francois il sesso serve tanto, ma interessa un po’ meno. La dimensione grafica del rapporto sessuale – etero, gay o bi che sia – è quasi sempre raffreddata, essenzializzata, ridotta a sagome corporee che subiscono il ruolo prescritto. Si ansima poco. Organi in libertà, eretti o meno, ce ne sono tanti, ma raramente sono oggetto di desiderio (non certo come Il diritto del più forte, dove Fassbinder attore mette subito in chiaro che “ce l’ha grossissimo”). Guai a vedere il sangue mestruale. Meno che mai lo sperma4. Uno come Almodóvar, che di uomini gay ne ha introdotti molti meno nel suo cinema, in Gli amanti passeggeri (2013) ha alla fine ceduto con copiosità allo humour seminale (nel senso di spermatico).
L’idea figurativa di sessualità per Ozon mi sembra ideale, quasi romanzesca, umbratile più che carnale, certamente “elevata”. Serve a “scatenare” i personaggi, ma non deve seminare il turbamento in chi guarda, lo spostamento di focus, lo “scandalo”. Al più, come nel partouze di Il tempo che resta, è rito plastico ed etereo, danza di concepimento più che di libido. In questo Ozon sembra ben distante dai suoi contemporanei Christophe Honoré e Gaspar Noé, con i quali certamente condivide diversi temi di ricerca. Se deve esserci qualche colpetto nella pancia, è per un altro tipo di choc visivo, come ad esempio la sequenza dell’overdose in Il rifugio.
Più questo cinema si affina verso forme classiche, più sembra confermare questo atteggiamento. Il ricorso al crossdressing in Una nuova amica mi pare l’esempio più evidente. Non è un film sull’identità di genere, quanto soprattutto sulla fluidità del genere come gancio per far venire a galla i morti, ragionare di fantasmi e di sostituzioni, specchiarsi. Hitchcock, per l’appunto: altro “fobico”.
David non è gay, e non gli interessa provarlo. Anche Claire non è lesbica, seppure sia segretamente attratta da Laura. La sequenza del locale drag, dove una canzone è ancora una volta centrale, fa venire in mente Wild Side di Sébastien Lifshitz (2004), che si apriva con la mesta esibizione di Antony: un canto del dramma interiore di tutti i derelitti, a prescindere dalla condizione di genere che essi vivevano. Dove il cinema di Lifshitz sembra ingaggiare una costante battaglia con l’esigenza di mostrare i fatti perché si è gay, quello di Ozon ci sembra farlo a prescindere dall’essere gay. Come se non fosse quello il punto, come se la rievocazione fosse tutta interna al cinema e alla sua storia. Niente psicologismi. Solo un ragionamento “superficiale” – in senso letterale – su abito e make-up, pur mitigato dal “consueto” timore borghese. Prima dello shopping, la ben castigata Claire chiede a Virginia di vestirsi in modo meno appariscente. Virginia/David ritorna a un più sobrio vestito floreale, lo stesso che indossava la defunta Laura. In Une robe d’été, dopo aver avuto il suo primo rapporto eterosessuale sulla spiaggia, Sébastien è costretto a tornare dal compagno vestito con un abito floreale. Qui, tuttavia, l’abito scatena la sensualità e un rapporto passivo con il fidanzatino. Ma questo è un Ozon under 30, l’Ozon delle Scenes de lit, della vecchia barzelletta del blow job oculare cantando la Marsigliese, del conflitto col padre tutto di pancia di La petite mort. Un Ozon giovanile e sporco, con tutta una serie di fissazioni ben chiare, che rimarranno presenti ma gradualmente saranno cristallizzate. In Una nuova amica «il punto principale è il modo in cui ogni personaggio accetta le caratteristiche dell’altro e trova la sua identità oltre il genere, il maschile e il femminile»5. Ben oltre il letto, dentro ogni letto, con tutte le protezioni del caso, insomma.
È difficile prevedere dove andrà questo maschio Ozon oggi che l’iconografia omosessuale attraversa una fase di mutazione, che il cinema sta riverberando in alcune opere pivot, dal deep diving nel realismo di Weekend di Andrew Haigh (2011) e Keep the Lights On di Ira Sachs (2012), al ribellismo dandy (o hipster?) di Héléna Klotz o Yann Gonzalez, senza contare l’onda d’urto Xavier Dolan. È proprio il maschio gay – non solo come oggetto del desiderio, ma come uomo stesso – a mutare corporeità in questo contemporaneo. È un uomo più “fallibile”, che invecchia, ingrassa, si affranca dalle mitologie per deliberata scelta, un uomo barbuto e “consuetudinario”, al quale preme affermare – prima di tutto – la sua non eccezionalità rispetto al contesto come una forma di conquista. Forse i paradigmi del cinema di Ozon, a questi nuovi riottosi, sembreranno quasi passatisti, ma non mi sembrano troppo divergenti. Forse cambierà il soggetto di osservazione, ma non credo che Ozon si stancherà di sbirciare dalla finestra nelle case altrui. Visti i risultati – Nella casa (2012), per me, soprattutto – non può che essere un bene.
Note
1 Russo Vito, Lo schermo velato, Baldini&Castoldi, Milano 1999.
2 Nell’architettura classica del cruising bar spesso il luogo adibito alla consumazione dell’atto sessuale può essere collocato nei locali seminterrati, che siano ex cantine (cellars), locali caldaia, spazi di servizio della struttura. Sempre nell’iconografia classica, qui trova spesso spazio una sling (“imbracatura”), accessorio leather per eccellenza, una sorta di amaca in pelle appesa al soffitto e dondolante dove può risiedere chi svolge ruolo passivo nel rapporto.
3 Tondelli Pier Vittorio, Camere separate, Bompiani, Milano 1989.
4 Fanno piccole eccezioni la scoperta delle mestruazioni in Action Verité (1994) e un richiamo al seme in La petite mort, due primissime corti del regista, che risentono di una dimensione “alternativa” al mercato.
5 Vedi www.francois-ozon.com.