«Una corrente sottomarina gli spolpò l’ossa in sussurri. / Come affiorava e affondava / passò attraverso gli stadi della maturità / e della giovinezza procedendo nel vortice» (Terra desolata, T.S. Eliot)
Nel finale di Il gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, dal balcone dell’albergo Trinacria Fabrizio Salina scruta il mare di Palermo corteggiando un’ultima volta la morte, «creatura bramata da sempre che veniva a prenderlo». Nell’epilogo di Morte a Venezia di Thomas Mann e dell’omonimo adattamento cinematografico (1971) di Luchino Visconti, che vi recupera la memoria del finale di Tomasi tralasciato nel suo film del 1963, Gustav von Aschenbach, davanti all’Hôtel des Bains, poco prima di morire guarda il suo bellissimo «psicagogo» muoversi sulla spiaggia del Lido di Venezia. All’estremità di un mare schiacciato dalla luce del sole meridiano che li spinge a un’ultima e definitiva amnesia della realtà, il principe e il compositore muoiono in una sorta di regressione amniotica, che li proietta nella dimensione rarefatta del mito. Complice e traghettatore in un caso il nipote Tancredi, che accompagna Fabrizio con un sorriso consapevole della fine imminente e perciò «tinto di malinconico affetto»; nell’altro Tadzio, che sorridente e con un gesto plastico indica ad Aschenbach in lontananza «benefiche immensità». Disertato da ciò che i morenti hanno a lungo idealizzato (la giovinezza e la bellezza, ipostasi della vita), il mare diviene il luogo del transito, uno spazio la cui unica consistenza sembra essere quella della sabbia (im)mobile che circonda/assedia i due (che è anche la sabbia della clessidra la cui visione ipnotizza sia il Principe di Tomasi che l’Aschenbach di Visconti), un luogo in cui essi non odono altro suono che quello interiore della vita che erompe via, «un fragore spirituale paragonabile a quello della cascata del Reno» di wagneriana memoria, non dissimile dai «sussurri» in cui una «corrente sottomarina» spolpa le ossa di Phlebas il Fenicio in Terra desolata di T. S. Eliot.
Talvolta la morte per acqua è letterale, fine invalicabile della vita psichica e/o ritorno della fisica dell’individuo alle immensità della vita, dissoluzione e reintegrazione nel cosmo; talvolta è un trapasso solo simbolico, una «metamorfosi marina» che trasforma il soggetto in un’entità nuova, «ricca e strana», complessa e diversa, inafferrabile e perturbante, come canta Ariel nella Tempesta di William Shakespeare.
Fin dai suoi esordi il cinema di François Ozon mette in scena morti per acqua nel doppio senso appena descritto di estinzione e/o rigenerazione con una puntualità che le fa apparire varianti di quella che la psicocritica chiamerebbe «metafora ossessiva»: su una spiaggia anonima dell’Atlantico Luc, protagonista del cortometraggio Une robe d’été (1996), accoglie il femminile fuori e dentro di sé; su una spiaggia dell’isola d’Yeu Sasha, protagonista del mediometraggio Regarde la mer (1997), abbandona la figlia neonata per dare corso alle sue fantasie sessuali e lì vicino trova la morte; su una spiaggia delle Landes scompare/muore Jean, marito di Marie, protagonista di Sotto la sabbia (2000); su una spiaggia della Bretagna va a morire Romain, protagonista di Il tempo che resta (2005); su una spiaggia basca Mousse, protagonista di Il rifugio (2009), guarda con desiderio Paul, fratellastro gay del suo defunto compagno, e sente le ansie del parto e della maternità a causa dell’allarmismo invadente di una sconosciuta. I tre lungometraggi sono uniti in quella che lo stesso regista ha denominato “trilogia del lutto”, dove la metafora della morte per acqua è declinata liberamente (nel primo essa è letterale, nei successivi è simbolica), ai margini di un mare convocato costantemente come testimone (della fine e/o del nuovo inizio), correlato di un’immensità allo stesso tempo mobile (localmente) e immobile (globalmente), dove la vita è celata in profondità, per essere vista va scandagliata e si mescola con la morte (lo stesso elemento che per alcune specie è habitat, per altre è letale). Come Tancredi e Tadzio, assumendo dunque su di sé la funzione multipla di soggetto e aiutante dell’evoluzione, tutti i protagonisti della trilogia sono rappresentati mentre ridono: Marie il riso costante della denegazione, che le consente di sopravvivere ignorando la morte del marito (il titolo del film fa riferimento al “mettere la testa sotto la sabbia”, al non voler sapere); Romain il riso conclusivo di accettazione della malattia terminale, che gli consente di morire sereno; Paul quello intermittente di elaborazione della morte del fratellastro Louis e del comune passato familiare, che gli consente di prendersi cura della vita a venire.
Sul mitema del finale marino di Tomasi e Mann/Visconti, che affiora letteralmente al centro della trilogia, in Il tempo che resta, Ozon impianta altre memorie cinematografiche che gli consentono di orientare e contrappuntare lo scandaglio dell’interiorità dei personaggi: l’hic et nunc difensivo in cui Marie, di ritorno dal mare, si rifugia rifiutando di ammettere a se stessa la morte del marito e andando a letto con Vincent richiama la relazione (iniziata in riva al mare, sull’isola di Lisca Bianca) tra Sandro e Claudia dopo la scomparsa di Anna in L’avventura (1960) di Michelangelo Antonioni, anch’esso parte di una trilogia (dell’incomunicabilità, tema ben presente anche in Ozon); il ritorno di Romain a casa della nonna a caccia di ricordi d’infanzia nel bosco evoca il viaggio a ritroso nel tempo del vecchio Isak, tra memoria e sogno, in Il posto delle fragole (1957) di Ingmar Bergman; l’interazione tra Paul e Mousse nella casa al mare, dall’antipatia alla curiosità all’attrazione, ricorda quella tra l’attrice in crisi e l’infermiera in Persona (1966) di Bergman, citato ancora più esplicitamente in Swimming Pool (2003), dove è l’acqua immobile della piscina a essere testimone della metamorfosi della protagonista (la stessa Charlotte Rampling di Sotto la sabbia).
Le citazioni riverberano oltre i confini dei singoli film: all’avventura surreale (nel senso di vissuta in uno stato di semicoscienza) di Marie con Vincent corrispondono quelle di Romain con Jany e il marito sterile, vera sfida lanciata alla morte attraverso la procreazione, e quella di Paul con Mousse, liquidazione degli schemi dell’identità sessuale. Il “posto delle fragole” per Marie è il suo appartamento, dove la memoria e il presente (Jean e Vincent) si sovrappongono fino a diventare inestricabili; per Paul è la casa di famiglia, contenitore di sofferenza e vuoto affettivo (l’adozione, il rifiuto del fratello). Lo psicodramma allucinatorio di Marie e Jean e il dialogo onirico di Romain con se stesso bambino preludono al duetto imprevedibile tra Paul e Mousse, tutti e tre caratterizzati dalla deposizione, dallo scambio e dalla trasformazione di maschere identitarie (personae, appunto): Marie costringe Vincent a recitare la parte di Jean, Romain si sostituisce al marito sterile di Jany, Paul assume su di sé il ruolo del fratellastro Louis (prima nel rapporto sessuale con Mousse, poi prendendosi cura della neonata nipote).
La trilogia mette in scena tre varianti del lutto: quello di chi resta (Marie) in Sotto la sabbia, quello di chi sta per andarsene (Romain) in Il tempo che resta, quello di chi sopravvive (Mousse) o resta (Paul) in Il rifugio. La parabola sembra avere un andamento progressivo: al rifiuto assoluto e più volte tenacemente ribadito del presente da parte di Marie (che rivive il passato non in forma di ricordo ma presentificandolo in maniera delirante) segue il percorso di accettazione di Romain attraverso la ricerca del tempo perduto, di quel sé infantile che per poter essere lasciato andare ha bisogno di essere ritrovato e riconquistato, attraverso un dialogo fatto tutto di sguardi, il proprio della sintassi cinematografica, che consente la sintesi “miracolosa” (Proust direbbe extratemporale), di presente e passato. Conclude la trilogia il percorso di Paul, spinto dalla morte di Louis non solo a una riconsiderazione del passato, ma anche a una riconfigurazione del sé nel presente attraverso la messa in questione della sessualità, fino al compimento del suo percorso di vita attraverso una sorta di rima interna (lui adottato adotta la figlia del fratellastro). La parabola, svolgendosi, si carica senza calcare troppo la mano di sfumature politiche sottili, accennate, ma ben presenti.
Nel primo film assistiamo a una rappresentazione libera e impudica della sessualità senile (intenso il lavoro fatto sul corpo della Rampling); nei due film successivi vengono scardinati gli stereotipi reclusivi dell’identità: Romain e Paul, omosessuali, fanno l’amore con due donne e procreano, in un caso letteralmente, nell’altro caso addizionalmente (Mousse è già incinta e il seme di Paul è veicolo di una paternità solo simbolica). In tutti e tre i casi l’eros, nella sua variante scodificata, scodificante, eccedente, libertaria, imprevedibile, spiazzante, è la chiave di volta per la gestione del lutto: così in Sotto la sabbia la risata irrefrenabile di Marie colpita dall’eccessiva leggerezza del corpo di Vincent (una risata isterica che esorcizza la consapevolezza fisica che l’amante non è il corpulento marito). Così in Il tempo che resta la partecipazione del marito sterile alla copula di Romain e Jany sia come veicolo indispensabile di eccitazione omoerotica che di inclusione sessuale/affettiva nel concepimento. Così in Il rifugio l’irruzione imprevista dell’avventura che inizialmente sembra solo sessuale tra Paul e Serge e di quella ancora più imprevista, che sulle prime sembra solo affettiva, tra Paul e Mousse, introducono nelle costruzioni interiori ed esteriori dei personaggi (o nella loro sintesi psicotica, come nel caso di Marie) un elemento di entropia incontrollabile e incontrovertibile, che fa dell’invenzione e della pro-creazione (o della loro sintesi, come nel caso di Romain e Paul) una ri-creazione, nel doppio senso di diversione affrontata con leggerezza e reinvenzione profonda di sé, al di là degli schemi sociali, identitari, narrativi, alla ricerca di un’erranza e di una libertà che sono pegno di nuovi e più autentici assetti relazionali, oltre quelli imposti e spesso deludenti se non distruttivi della famiglia biologica e/o anagrafica.
Con una naturalezza cristallina, depurata delle pulsioni speculative (nel senso molteplice del riflesso, della riflessione, della riflessività in generale), delle circonlocuzioni meta-cinematografiche e dell’intento programmatico di decostruire il racconto-rompicapo che caratterizzano tanti suoi film, Ozon costruisce nella trilogia un percorso nitido, diegeticamente unidimensionale, senza abusare delle parole, ridotte all’essenziale, eliminando alla radice ogni possibile fuga letteraria e puntando sull’aspetto terreno del dolore, guardandolo e offrendolo allo sguardo senza mediazioni, crudamente ma senza effettismi, con un’attenzione meticolosa, discreta ed equilibrata, tutta concentrata sulla fenomenologia del quotidiano. La realtà è messa pudicamente sottovetro, vicina e lontana allo stesso tempo, ricomposizione di frammenti apparentemente insignificanti, dettagli, resti più o meno amabili, istantanee, stralci di eventi, detriti esistenziali, non necessariamente esaurita nelle inquadrature e nelle sequenze, montate in un mosaico bucherellato, aperto e scevro da sentimentalismi (gli archetipi del melodramma celebrati in 8 donne e un mistero [2002] traspaiono in filigrana come traccia primaria, ma sono sublimati, raggelati, svuotati). Le tre storie non si concludono, sono aperte su un futuro imprevisto, come una promessa e allo stesso tempo una scommessa.
Dicevamo: nuovi assetti. Marie fa la scelta radicale di continuare a vivere “sotto la sabbia”, declinando a parti invertite e con lieto fine il mito di Orfeo ed Euridice (la psicosi fa sì che Marie/Orfeo riesca a strappare al regno delle ombre Jean/Euridice), dando pieno e irrevocabile diritto di cittadinanza nella sua vita a ciò che il resto del mondo percepisce come irreale e irrazionale, istituendo una semantica del mondo imperscrutabile a chi non si sia mai avventurato sotto la superficie del senso e del sentire comune. Come Franz in Gocce d’acqua su pietre roventi (2000) o Marcel in 8 donne e un mistero, Romain vive la morte come liberazione da una vita diventata una gabbia di finzioni e costrizioni, ma, a differenza dei suoi predecessori, muore felice, sorridente, non per amore, ma con amore, per sé e per gli uomini che fotografa, come Alice in Amanti criminali (1999), alla fine di un’avventura che lo ha rigenerato, ri-creato. Oltre la malinconia necrofila del mito di Mann/Visconti e la ferocia iconoclasta dell’allegoria di Fassbinder, ovvero le varianti autodiretta ed eterodiretta della pulsione di morte, Paul tira fuori la testa dalla sabbia, si emancipa dal bisogno di trovare rifugio in una famiglia che sente estranea, si getta alle spalle il passato e vive il tempo che gli resta dedicandosi alla vita, la sua e quella della neonata nipotina, ri-creandosi in essa.