
Non puoi sapere nulla della saggezza
se prima non hai sperimentato le tenebre.
(Hermann Hesse)
«Se guardi a lungo nel buio, c’è sempre qualcosa», ammoniva William Butler Yeats. È “qualcosa” di misterioso, sfuggente, indecifrabile, che da bambini, prima di coricarci, ci spinge a sbirciare sotto il letto o nell’armadio, atterriti ma nello stesso tempo irresistibilmente attratti da quelle forze che, al di là di ogni rassicurante certezza razionale o materno ammonimento, popolano il sonno di incubi. L’oscurità cela un misterioso richiamo; più è profonda, impenetrabile e disperante, più ci avvince: è una danza macabra, una ritmica insistente iniziazione sciamanica, un’inesausta caccia alla ricerca di quel luogo dell’anima in cui si sono rifugiate le nostre ossessioni ancestrali. Siamo consapevoli dei rischi che ogni evocazione porta con sé, eppure non possiamo esimerci dal prestare orecchio ai bisbigli sussurrati dalle tenebre. S’impossessa di noi una paura senza nome, che ci portiamo dietro e dentro da quando, per la prima volta, abbiamo teso le nostre fiaccole fuori dalla grotta ad illuminare la notte affollata di spettri. Ci prende alla gola il terrore panico del mostro, dell’informe, l’Orco che emerge dal nulla e invade il nostro piccolo cerchio di luce per ghermirci e divorarci.
È a quest’archetipo, mutuato dai grandi classici della letteratura gotica, che, con la consumata abilità del narratore di razza, Tiziano Sclavi ha fatto appello per dar vita al suo celebre alter ego Dylan Dog. Coloro che non credono ai fantasmi, ai vampiri, agli zombie ed ai lupi mannari, gli scettici che, per miopia o semplice pigrizia intellettuale, immemori della lezione shakespeariana, non sono disposti a concedere al sovrannaturale lo spazio che gli spetta in questo nostro vasto e strano mondo, arricceranno certamente il naso, trovando forse un po’ fuori luogo la definizione di Indagatore dell’Incubo con cui l’ex agente di Scotland Yard ama farsi apostrofare, non senza un pizzico di malcelato autocompiacimento.
Strizzandoci l’occhio tra una pagina e l’altra sembra suggerirci, sornione, che nulla è più pericoloso di ciò a cui, per quieto vivere, si decide di non credere. A mio parere, dietro agli atteggiamenti smagati ed antiretorici del nostro eroe si cela in realtà molto più di quanto riveli una lettura superficiale. Non si può uccidere la Paura, ammonisce attraverso di lui Sclavi. Anzi, è proprio il fascino perverso che essa esercita sul suo eroe a cacciarlo in avventure in cui Jack lo Squartatore farebbe la figura dell’allegro chirurgo. Affrontarla a viso aperto, qualunque sia la forma che di volta in volta essa assume, fissarla sulla carta, imbrigliarla nei tratti del disegno è il solo modo che l’artista pavese conosce per esorcizzarla e, quindi, renderla sopportabile.
Come spiega con dovizia di particolari e profluvio di dotte citazioni Roberto Curti in un suo celebre saggio, l’horror trae linfa vitale dalla dicotomia tra sacro e profano, in una rete di metafore, negazioni, inversioni farsesche, rovesciamenti dialettici. Dall’arte alla letteratura, dal cinema alla graphic novel, la raffigurazione dell’Orrore è inestricabilmente connessa al dato religioso. È epifania del Sacro, simboleggia un’irruzione del numinoso entro i ben delimitati confini logici del mondo manifesto. «Il punto di partenza» scrive Curti, «è quello di una trascendenza, una deviazione dai sentieri della normalità che squarcia le apparenze dell’esperienza fenomenica»(1). Dylan Dog obbedisce a questa logica in modo, direi, quasi canonico. Offrendosi quale valvola di sfogo ad un impulso represso della spiritualità, il fumetto sclaviano diventa rapsodia pagana, soglia magica attraverso cui le forze primordiali conculcate dalla Ragione sono lasciate libere di agire ed il lettore si accosta alla pagina disegnata quasi fosse un rito di palingenesi immanente. Passando da un’avventura all’altra, si addentra nelle oscure regioni dell’anima come nel folto di una foresta dove streghe, mostri, spettri e demoni tengono corte e da essa riemerge infine rinnovato, trasfigurato, sperimentando una libertà altrimenti negata, quella dell’Immaginazione, «un sogno bellissimo e terribile» in cui gioia e terrore convivono.
Lungi dall’essere derubricato a semplice fenomeno di costume, come vorrebbe la cultura dominante, con Tiziano Sclavi il fumetto diventa qualcosa di più articolato e complesso, si fa carico di quella vocazione all’Impossibile che, secondo Malraux, è il compito ultimo della grande letteratura. Esiste una vasta zona d’ombra nella Realtà, dove solo le arti possono penetrare, non certo per rischiararla, ma al fine di percepire la vastità del buio che ci stringe d’assedio appena oltrepassata la soglia. Quanto più intensa è la luce, tanto più lugubri sono le ombre che proietta sul muro. Sclavi affida al suo eroe il gravoso compito di misurarsi con queste due verità che si spartiscono il mondo, la luce e le tenebre, facendo i conti con entrambe, provando a capire se la vita è illuminata da un disegno superiore o non è piuttosto un vorticoso precipitare nell’abisso. Si avverte, sottotraccia, l’urgenza d’interrogativi metafisici legati al senso stesso dell’esistenza, la risposta ai quali non è necessariamente la più rassicurante e scontata.
Non stupisce quindi che, nella commistione di generi, toni e registri stilistici propria del fumetto, Sclavi deleghi per contrasto l’incombenza d’interpellare l’Indagatore dell’Incubo (e, attraverso lui, noi tutti) circa il tabù più esorcizzato dalla Modernità, vale a dire quello della Morte, proprio agli zombie. I cadaveri redivivi che fin dal primo episodio popolano le sue pagine non sono angoscianti orpelli scenografici, pupazzi putrescenti privi di volontà autonoma, come nei film di George Romero e John Carpenter, ai quali pure il fumettista pavese rende ossequioso omaggio. Al contrario, sono animati da uno slancio vitale ancorché satanico, si relazionano ai vivi, influenzano le loro decisioni ma soprattutto, come il teschio di Yorick nelle mani di Amleto, rappresentano la proiezione plastica del memento mori. Il morto vivente riporta alla luce ciò che abbiamo occultato nel profondo della terra ed esorcizzato tramite i conforti religiosi, e ci costringe a posare lo sguardo su quello che inevitabilmente saremo. Questo Golem, che ci bracca con rabbiosa determinazione e desidera nutrirsi delle nostre carni, è l’immagine più emblematica della fallibilità della resurrezione: scherzo di Natura non sottoposto alla tirannia del Tempo, pur decadendo permane eternamente uguale a se stesso, a cavallo tra Vita e Morte. È un’iperbole esistenziale, un paradosso.
Anima tormentata e personalità disseminata di aculei come poche altre, Tiziano Sclavi mette in scena, nei suoi albi, una desacralizzazione totalizzante e senza sotterfugi del momento estremo, pur senza mai rinunciare ad un registro linguistico apparentemente disimpegnato e leggero che, lungi dall’essere denigratorio, enfatizza al contrario il messaggio subliminale. Attraverso la figura del revenant opera un rovesciamento dialettico dell’interpretazione cristiana di una Salvezza dalla quale è bandita ogni prospettiva escatologica. Nelle avventure ultraterrene di Dylan Dog, all’uomo non è concessa una seconda opportunità dopo il trapasso, egli è solo uno stadio intermedio in vista della decomposizione, perché nessun Verbo è mai intervenuto a suggellare nuovamente il patto con Dio infranto dal peccato originale. Ci piaccia o meno, siamo prigionieri dell’Aldiquà, forse la condizione più ossessiva e claustrofobica mai contemplata dalla letteratura del Fantastico. Se il Cielo è vuoto, il nostro mondo non può essere altro che un Inferno. Quella di Sclavi è una vera e propria opera al nero, una trasvalutazione dei valori di cui l’Arcano Incantatore è supremo testimone e giudice inappellabile.
Xabaras, Azazelo, Bertrand Lewis Phagor: molti sono i nomi di chiara ascendenza letteraria dei quali Lucifero si serve, con i relativi travestimenti, per fare capolino tra le pagine sclaviane. Preoccupato della sorte del suo figlio degenere Dylan Dog – che, invece di agire con il favore della cara, vecchia, dolce complice ombra, ha deciso di combatterla, procurando non pochi grattacapi all’ansioso padre –, l’Oscuro Sire si rivolge spesso all’Indagatore dell’Incubo, non disdegnando perfino il suo aiuto contro gli umani che, sapendone sempre una più del Diavolo, lo invocano per avere fama e fortuna e poi, all’ultimo, cercano di fargliela in barba, sottraendosi ai vincoli del patto(2). Sarabande circensi di gatti parlanti, nani, ballerine ed esseri deformi a far da corteo, in un rutilante e colorito caravanserraglio che ricorda da vicino i quadri di Hieronymus Bosch o le attrazioni di un freak show ottocentesco, nella rappresentazione sclaviana del demoniaco, che come un fiume carsico attraversa tutta la saga, si palesa una nota burlesca, autoironica, priva di risvolti tragici, per la quale il disegnatore deve di sicuro più a Lewis e Bulgakov che a Milton.
Per Sclavi, raccontare il diabolico – ciò che, per diverse ragioni, culturali e ideologiche, il pensiero dominante ritiene incarnazione del Male Assoluto – significa operare per contrasti, propiziare contaminazioni, muoversi tra polarità opposte. Con accenni più o meno discreti e velati riferimenti, il fumettista lascia trapelare una certa indulgenza per quello che William Blake avrebbe chiamato «il partito dei sostenitori inconsapevoli del Demonio». Il Nemico è sì As Sheitan, l’Avversario che la società civile ha esorcizzato e ricacciato nell’oscurità, ma anche l’Accusatore, a cui è possibile dar voce solo relegandolo alla devianza, perché irriducibile al dogma(3). Come i Romantici prima di lui, Sclavi sembra interrogarsi sulla natura di Dio, sul merito del suo agire e sulla fallacia delle sue decisioni. Dietro lo spettacolo desolante di una vita organizzata secondo ritmi brutali e spersonalizzanti, dove l’esperienza umana è segnata, come si è visto, dalla caducità del corpo e dalla malattia, Dio cela il proprio volto dispotico e le sue leggi altro non sono che ordini menzogneri, gabbie morali imposte sulle verità libere della Natura e sulla volontà degli esseri umani, attraverso le quali esercita la propria tirannia.
Se creazioni di Dio sono il dolore e la morte, se ciò che è definito Bene è soltanto ciò che è imposto, l’ordine e le consuetudini costituite, allora è nel suo contrario la Ragione, è nel suo contrario il luogo della felicità e della libertà, giacché il Male diviene negazione vitalistica di un Bene spietato, falso e ingannevole. In questa inversione semantica risiede il fascino profondo della rivolta di Lucifero che, da Goethe a Thomas Mann, ha infiammato la fantasia di generazioni di scrittori: assaltare il trono celeste, conquistare la fonte della vita per guadagnare un nuovo ordine alle cose e ristabilire la verità contro le menzogne di Dio è il compito che l’artista pavese, ateo impenitente sulla scia di Camus e Stirner, gli assegna. È al Ribelle, infatti, che Sclavi attribuisce non solo la proiezione plastica dei nostri desideri inconfessati (Xabaras inocula un siero che conferisce l’immortalità), ma anche alcune delle sue battute più efficaci, attraverso le quali opera, secondo i dettami della migliore letteratura del Fantastico, una sorta di riscrittura del Vero, un ribaltamento prospettico della Realtà con cui forza i lacci della narrazione e del divenire. Che ci spaventi o ci irretisca, nelle avventure di Dylan Dog il Diavolo di certo non ci annoia. «Mentre il nostro avversario ormai si disinteressa della sua stessa creazione» tiene a puntualizzare un suo emissario nel celeberrimo episodio Storia di un povero diavolo (n. 86), «il Principe delle Tenebre ha sempre a cuore il destino della razza umana». In questa frase riecheggia il «Satana sum et nihil humanum a me alienum puto» che troviamo in Dostoevskij.
L’infernale commesso viaggiatore che tanto assomiglia a Voland sottolinea sardonico che «Satana non è poi così malvagio come lo dipinge la propaganda della concorrenza». Accantonati i propositi di bellicosa rivalsa nei confronti del tiranno celeste, in Sclavi il Diavolo pare aver rinunciato alla scalata al cielo e, deposte le armi, dissimulata la hybris titanica che lo aveva indotto a muovere guerra all’Altissimo, finge di riconoscerne l’autorità, rispettando le regole del gioco da lui stabilite e celando la propria mostruosità dietro sembianze umane. Sceglie, come Cristo, di farsi uomo tra gli uomini e perpetrare la propria battaglia contro il Creatore non già in campo aperto, bensì attraverso un’influenza indiretta sulla più privilegiata tra le creature di Dio, la sola alla quale il Signore abbia concesso il viatico della Salvezza attraverso il pentimento. Se il Padre celeste, asserragliato secondo Byron nella sua vertiginosa e inespugnabile onnipotenza, pare sordo alle tribolazioni degli uomini, l’Angelo Caduto ne parla con sofferta partecipazione perché conosce il destino degli esseri umani: lui per primo si era trovato innanzi alla necessità di dover scegliere tra la cieca obbedienza e la libertà e, come Adamo, aveva optato per orgoglio in favore della seconda, sperimentando poi il dolore insito nella consapevolezza che scaturisce dall’esercizio del libero arbitrio. Quando Dylan Dog ne incrocia i passi, troviamo sempre Lucifero con il naso ben piantato nella terra, intento ad assaporare ogni sensazione che l’uomo è stato creato per provare, dedito a consigliare, spronare e mettere alla prova gli individui affinché diano il meglio di loro stessi attingendo alla scintilla divina che li anima, traendo da ciò legittima soddisfazione, proposito che è deciso a perseguire con ostinazione davvero diabolica, anche a costo di dover far leva sulle loro debolezze. Il tutto, si badi, senza mai giudicarli, nonostante le loro maledette imperfezioni, decisamente troppo umane. Vi sembra impossibile? Nella Wunderkammer creata da Tiziano Sclavi tutto può accadere, basta crederci. Entrate pure, ma lo farete a vostro rischio e pericolo…
- Roberto Curti, Demoni e Dèi. Dio, il Diavolo, la religione nel cinema horror americano, Lindau, Torino 2009, p. 8.
- Nel duplice episodio Xabaras! e Nel nome del padre (nn. 241-242), apparso per festeggiare il suo ventesimo compleanno, scopriamo che Dylan Dog può vantare nientemeno che una discendenza luciferina.
- Sul tema mi permetto di rimandare al mio A scuola di libertà da Lucifero, l’ultimo degli umanisti, in «Terra Insubre», n. 59, 2011.