
Nel corso delle centinaia di albi di cui è composta la serie di «Dylan Dog», Tiziano Sclavi e colleghi hanno costruito una visione generale della realtà piuttosto articolata, che mescola gli elementi più disparati, dalla teoria degli universi paralleli a un’estetica di gusto surrealista, da una concezione onirica del mondo ad una fiabesca, arricchendo poi il tutto con una serie di luoghi mistico-geografici davvero peculiari. È complessa la metafisica dylaniata, e fa riferimento ad idee filosofiche, scientifiche e teologiche anche molto sofisticate. Tuttavia, la domanda (di rito) che ci dobbiamo porre è: nell’universo di Dylan Dog, Dio esiste? Ebbene, il punto di vista dell’Indagatore dell’Incubo è noto: già nel sesto episodio, La bellezza del demonio, Mala Behemoth – il diavolo del titolo – sostiene che, a quanto le risulta, Dylan sia laico. Nella medesima storia emerge una forte sfiducia nell’esistenza di una realtà ultraterrena di tipo positivo; Mala dice infatti che «il Paradiso, quello sì, ho proprio paura che non esista»(1).
Lo stesso Old Boy a un certo punto afferma a chiare lettere – ne Il diavolo nella bottiglia («Almanacco della Paura 1993») – di essere ateo. Nulla ci è dato sapere a proposito della tipologia di ateismo a cui aderisce Dylan: semplice negazione dell’esistenza di Dio? Idea nietzschiana della sua morte? Agnosticismo? Il problema che si pone qui è filosoficamente non banale, nel senso che, dato che l’ateismo è sempre stato inteso in contrapposizione alla fede – e mai come un’architettura concettuale a sé stante, passibile di un’evoluzione altrettanto articolata di quella delle fedi religiose(2) –, è difficile identificare in modo netto le posizioni che emergono in «Dylan Dog».
A dire il vero, nella serie Dio compare abbastanza presto, già nel secondo «Speciale», Gli Orrori di Altroquando, frutto degli sforzi di Sclavi e di Attilio Micheluzzi. L’albo è un contenitore di storie che vedono coinvolto l’Indagatore dell’Incubo e alle quali assiste, dalla sua fortezza che si libra nello spazio cosmico, un’entità che – sebbene non venga detto in modo esplicito – dovrebbe essere proprio Dio. Un Dio piuttosto sui generis, però: è servito da una creatura di tipo demoniaco, Azazelo, la quale si rivolge a lui con insulti che in realtà vogliono essere complimenti: «Vostra Enormità», «Unico Orrore dell’Universo», «Fogna Suprema», «Gigantesco Fetore», «Cosmica Anomalia» e via dicendo. Le sue fattezze sono mostruose: di aspetto maschile, l’ente supremo possiede quattro mammelle e, stando ad Azazelo, diciotto cuori. Pensandoci bene, non c’è dubbio che si tratti di Dio, visto che lui stesso dice di sé: «Io, che ho creato il Cielo eccetera (soprattutto eccetera)»(3). Si tratta però di un Dio sostituibile e non indistruttibile, nel senso che, se si addormentasse – ed evidentemente non dorme mai –, la realtà andrebbe a pezzi. È lo stesso servo a citare una vecchia leggenda: «Se dormirà il padrone fino in fondo crollerà la compagine del mondo e sarà un servo a ereditare il Cielo: il nuovo padrone si chiamerà Azazelo!»(4).
È un dio ben diverso dalla Divina Provvidenza cattolica, così attenta a ogni minimo dettaglio della vita delle sue creature: egli, infatti, incontra la Terra per caso, durante il suo aggirarsi per il cosmo, e sembra interessato ad essa solo in quanto possibile diversivo o passatempo. Alla domanda su cosa sia quel pianeta, Azazelo, con scarsa considerazione per la nostra specie, risponde che la Terra «altro non è che un escremento di mosca alphacentaurina»(5).
Un altro esplicito riferimento a Dio lo fa Ferrandino ne Il Signore del Silenzio, in cui uno dei personaggi, Harry Singer, definisce la vita «il sogno di un Dio crudele». Si avanza qui l’ipotesi che Dio esista e che, invece di attirare la devozione dei fedeli, possa pure essere odiato o disprezzato, in linea con le idee espresse, tra gli altri, da Manlio Sgalambro nel suo Trattato dell’empietà: «Se ieri non vi fu teologia senza pratica, si potrebbe affermare che oggi non vi è teologia senza ira. Quest’ultima svolge il ruolo della pratica dove la pratica non svolge più ruoli. La rabbia di essere è collera teologica; come se ce l’avesse con qualcuno. L’ateo invece – questa piccola canaglia – non ce l’ha con nessuno. […] Nell’epoca della grande valutazione è “valutato” anche Dio. Nell’insipido dolore universale, la segreta relazione dell’odio non venne nominata. […]. Che divina sia soltanto una realtà alla quale l’individuo si senta tratto a rispondere piamente e non con bestemmie, ciò non è l’ultima istanza. Quanto è stato involato alla tradizione non manda più i bagliori di un nome onorato»(6).
Dio appare, anche se in modo indiretto, nel n. 146 della serie regolare, nel corso dell’interessante episodio Ghost Hotel. Nella storia in questione un personaggio misterioso, Darknight – che probabilmente è il diavolo –, assume Dylan Dog per ripulire un hotel, il Limbo, dalle numerose presenze spettrali che lo infestano. A un certo punto, nelle cantine dell’edificio stregato, Dylan e una giornalista, Rosaura Kowalsky, scoprono delle creature deformi e orribili a vedersi. Alla sorpresa della giornalista («Quegli animali, mio Dio!») Darknight risponde: «Non sono animali, e forse non è invano che nominate il nome di Dio, riguardo a loro. Non il Dio dei cristiani o dei musulmani, un dio. Migliaia di anni fa, il filosofo presocratico Empedocle aveva una sua “teoria dell’evoluzione”: immaginava che all’inizio dei tempi il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra cercassero di combinarsi tra loro, per generare esseri viventi, tentativi di creazione, mostri. Adamo non fu allora, forse, il primo uomo, ma il risultato finale di una serie di “esperimenti genetici”, come li chiameremmo oggi, un risultato non certo entusiasmante, potrei aggiungere… Esperimenti eterni. Adamo, in seguito, perse l’immortalità, ma non fu così per i suoi “predecessori”, che infatti sopravvivono ancora oggi, e vivranno fino alla fine dei tempi. Vivranno e soffriranno, nascosti in grotte profonde sull’Himalaya, o in fondo all’oceano, o in una cantina di Londra, consapevoli della loro mostruosità, straziati dalla vergogna e dal ribrezzo di se stessi, senza neanche la speranza della morte, senza poter invocare un “creatore” che si è dimenticato dei suoi errori. E pensare che perfino il Diavolo ha pietà di questi poveri esseri»(7).
Al di là del riferimento sclaviano a Empedocle, questa descrizione presenta diversi punti di contatto con la gnosi, così come con le leggende ebraiche pre-bibliche. La prima consiste, nella fattispecie, in un insieme di correnti religiose e speculative legate al cristianesimo degli inizi, ma sviluppatesi anche in modo indipendente. Uno dei capisaldi di tutti i movimenti gnostici è l’assoluta inconoscibilità di Dio: il divino è cioè del tutto trascendente e al di là del pensiero umano. La realtà materiale è il prodotto di divinità inferiori, creature potentissime ma imperfette, note con il nome di Arconti – cioè governanti –, che ci ricordano i diversi dèi di cui parla Darknight. Secondo la versione più diffusa, l’universo è governato dai Sette, Arconti molto potenti, chiamati con i nomi attribuiti al Dio dell’Antico Testamento: Elohim, Adonai, Sabaoth e via dicendo. La responsabilità principale della creazione del mondo va al loro capo, il Demiurgo, che a volte sembra una versione “peggiorata” del Dio severo dell’Antico Testamento. A grandi linee possiamo dire che, per gli gnostici, tutta la realtà si è originata in questo modo: Dio, che è un Abisso inconcepibile, si autogenera unendosi con il proprio Pensiero, e così facendo emana l’intelletto – nous – e la Chiesa celeste. Una serie di successivi atti di autogenerazione ed emanazione creano una vera e propria gerarchia ultraterrena, composta da coppie divine. Al livello più basso troviamo due entità metafisiche, Cristo e Sofia – cioè la Sapienza divina. Ed è proprio quest’ultima che, con un atto d’insubordinazione, decide di comprendere l’Abisso divino in modo diretto; tale ribellione avrà tutta una serie di conseguenze, come appunto la nascita del Demiurgo e del mondo materiale – non realmente voluto da Dio(8).
Per quanto riguarda invece i miti pre-biblici, segnaliamo solo che, com’è noto, l’Antico Testamento è in parte il frutto di un lavoro di sistemazione di un complesso corpus di miti e leggende precedenti, i quali, tra le altre cose, immaginavano che quello in cui viviamo non fosse il primo mondo creato da Dio, ma che egli avesse effettuato più e più tentativi; anche le leggende sull’origine dell’uomo sono più articolate di ciò che traspare dalla Genesi – ad esempio, si sostiene l’esistenza di una moglie di Adamo precedente a Eva, Lilith. In ogni caso, queste tradizioni vennero bandite proprio perché suggerivano – come fa Darknight – che Dio fosse fallibile(9).
Infine in «Dylan Dog» compare, di quando in quando, un Dio “sotto mentite spoglie”, cioè Cagliostro, il gatto magico della strega Kim. In realtà, si tratta di un essere millenario; di lui Kim dice: «È più potente di qualsiasi strega; se volesse potrebbe far sparire il mondo intero! È come un bambino che sogna, ma i suoi incubi possono diventare realtà!»(10).
L’idea che il mondo sia il prodotto di un’entità in un certo senso infantile, che lo avrebbe creato solo per divertimento, non è nuova, anzi: si tratta di una rappresentazione mitologica e filosofica molto antica, per la quale quella del gioco è una buona metafora per cogliere la natura ultima del cosmo. E tale visione è arrivata fino ad oggi, tramite il lavoro del filosofo tedesco Eugen Fink, che al tema ha dedicato un libro, Il gioco come simbolo del mondo(11). La riflessione di Fink parte da Eraclito; quest’ultimo riteneva che l’elemento base della realtà fosse il fuoco (pyr, in greco) e che il corso del mondo (aión) fosse determinato dalla continua lotta tra gli opposti: «Eraclito riprende il termine aión e lo adopera per dare un altro nome al fuoco, lo chiama corso del mondo. E di questo corso cosmico dice nel frammento 52: “Il corso del mondo è un bambino che gioca a dadi, è il regno di un bambino”. Tutto l’ente, in quanto ente governante, viene definito simbolicamente “bambino che gioca”, paìs paìzon. La creazione più originale ha il carattere del gioco. Dèi e uomini sono quel che sono non in virtù di una costituzione propria del loro essere – non sono chiusi in sé come le altre cose del mondo, essi stanno in aperto, estatico rapporto con il pyr e l’aión. Hanno la loro potenza in vassallaggio, traggono la loro forza produttiva dal gioco»(12).
Collegata all’assenza o all’irrilevanza di Dio c’è un’altra concezione sclaviana, ossia quella dell’insignificanza umana rispetto all’immensità del cosmo. Un buon esempio di tale idea è un breve racconto dylaniato, La cosa. Protagonista indiretto dell’episodio è il nostro pianeta, che s’immagina essere un’entità vivente e pensante: «La “cosa” dormiva, e nello stesso tempo era sveglia, rifletteva su se stessa… Si poneva le eterne domande: da dove vengo, dove vado, chi sono? E da tanto tempo se ne stava lì nascosta, invisibile a tutti, benché fosse immensa…»(13). Questa “cosa” pare scossa dai medesimi dubbi che attanagliano gli esseri umani, dei quali, tra l’altro, sembra non avere un’ottima opinione: «La “cosa” a volte sognava, impadronendosi dei sogni di uno di quei microscopici parassiti che la infestavano, e dei cui incubi a volte si nutriva. Poi tornava a pensare, nel dormiveglia, a porsi le eterne domande: “Da dove vengo, dove vado, chi sono?”. “Sì, d’accordo”, si rispondeva, “vengo dall’infinito e sono un pianeta, momentaneamente il terzo di questo Sistema solare”. Ma erano risposte così insensate, così effimere, così banali…»(14).
Il richiamo a Nietzsche è d’obbligo. In particolare, si noti l’incipit di Su verità e menzogna in senso extramorale: «In un qualche angolo remoto dell’universo che fiammeggia e si estende in infiniti sistemi solari, c’era una volta un corpo celeste sul quale alcuni animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e menzognero della “storia universale”: e tuttavia non si trattò che di un minuto. Dopo pochi sussulti della natura, quel corpo celeste si irrigidì, e gli animali intelligenti dovettero morire. – Ecco una favola che qualcuno potrebbe inventare, senza aver però ancora illustrato adeguatamente in che modo penoso, umbratile, fugace, in che modo insensato e arbitrario si sia atteggiato l’intelletto umano nella natura: ci sono state delle eternità, in cui esso non era; e quando nuovamente non sarà più, non sarà successo niente. Per quell’intelletto, infatti, non esiste nessuna missione ulteriore, che conduca al di là della vita dell’uomo. Esso è umano, e soltanto il suo possessore e produttore può considerarlo con tanto pàthos, come se in lui girassero i cardini del mondo. Se fosse per noi possibile comunicare con la zanzara, verremmo a scoprire che anch’essa con lo stesso pàthos nuota nell’aria dove si sente come il centro che vola in questo mondo. Non c’è niente in natura di così spregevole e dappoco che con un piccolo soffio di quella facoltà conoscitiva non si possa gonfiare come un otre; e allo stesso modo in cui qualsiasi facchino vuol avere i suoi ammiratori, anche il più orgoglioso degli uomini, il filosofo, è convinto che da ogni lato gli occhi dell’universo siano puntati telescopicamente sul suo fare e sul suo pensare»(15).
Anche Italo Svevo, d’altronde, potrebbe condividere l’opinione della “cosa” sulla natura parassitaria degli esseri umani: «Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della Terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la Terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei Cieli priva di parassiti e di malattie»(16).
Volendo, possiamo risalire ancora più indietro, al celebre pensiero 205 di Blaise Pascal: «Quando considero la breve durata della mia vita, assorbita nell’eternità che precede e segue il piccolo spazio che occupo e che vedo inabissato nell’infinita immensità degli spazi che ignoro e m’ignorano, mi spavento, e mi stupisco di vedermi qui piuttosto che là, perché non c’è ragione che sia qui piuttosto che là, adesso piuttosto che allora»(17).
Sclavi riesce dunque a coniugare l’orrore della cultura pop con qualcosa che terrorizza i filosofi, ossia l’assenza di Dio – anzi, l’assenza di un centro metafisico che ci dica cosa fare delle nostre vite.
- «Dylan Dog», La bellezza del demonio, n. 6, p. 93.
- Per una trattazione dell’ateismo inteso in senso autonomo cfr. Georges Minois, Storia dell’ateismo, tr. di Oreste Trabucco e Lelio La Porta, Editori Riuniti, Roma 2003.
- «Dylan Dog Special», Gli orrori di Altroquando, n. 2, p. 7.
- Ivi, p. 75.
- Ivi, p. 3.
- Manlio Sgalambro, Trattato dell’empietà, Adelphi, Milano 1987, p. 9.
- «Dylan Dog», Ghost Hotel, n. 146, pp. 43-44.
- Cfr. Hans Jonas, Lo gnosticismo, tr. di Margherita Riccati di Ceva, SEI, Torino 2002.
- Cfr. Robert Graves, Raphael Patai, I miti ebraici, tr. di Maria Vasta Dazzi, TEA, Milano 1998.
- «Dylan Dog», Cagliostro!, n. 18, p. 72.
- Eugen Fink, Il gioco come simbolo del mondo, tr. di Nadia Antuono, Hopefulmonster, Firenze 1991.
- Ivi, p. 27.
- «Dylan Dog Superbook», La cosa, n. 3, p. 103.
- Ivi, p. 114.
- Friedrich Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, in Opere 1870-1881, Newton & Compton, Roma 1993, p. 93.
- Italo Svevo, La coscienza di Zeno, in Romanzi e «Continuazioni», Mondadori, Milano 2004, p. 1085.
- Blaise Pascal, Pensieri e altri scritti, a cura di Gennaro Auletta, Mondadori, Milano 1994, pp. 193-194.