Ciò che appare nello specchio di Roberto Revello, noto studioso dell’Islam shī‛ita, si presenta come un’opera a tutti gli effetti innovativa nell’attuale panorama ermeneutico della storia delle religioni. Revello muove dalla trattazione del pensiero del filosofo orientalista Henry Corbin: della sua opera enuclea gli aspetti fondamentali relativi all’ontologia dell’immagine, individuata nella tradizione iranica, nonché le assai solide basi filosofiche, identificabili in Heidegger (di cui fu traduttore), Platone, Proclo e, in guisa differente, nella psicologia analitica di Jung. L’attualità delle tematiche di questo volume è legata al delinearsi piuttosto marcato di un intento programmatico, che consiste nell’opporsi allo storicismo, mostrandone i connotati riduzionisti tipici di un atteggiamento moderno che vuole forzatamente congiungere il fenomeno religioso a un’oggettività che risponda ad un qualche principio di scientificità empirica.
Il metodo storico-filologico, secondo Revello, è infatti un’arma a doppio taglio nel dibattito moderno sull’analisi dei fenomeni religiosi poiché, oltre al rigore che può far acquisire, presta il fianco al nichilismo paludoso tipico dell’epoca postmoderna. L’imporsi dello storicismo sarebbe dunque funzionale alla pretesa di legittimare lo sviluppo culturale europeo, a scapito di un’autentica attività ermeneutica. La premessa è molto ardita, eppure saldamente ancorata a un’epistemologia dotata di statuto scientifico: viene presentata la necessità di non ridurre i fenomeni religiosi a “fatti sociali”, cosa che minerebbe la reale capacità di concepire da parte dell’uomo moderno una qualsiasi idea di trascendenza, o, meglio, ne impedirebbe una concreta comprensione, giacché risulterebbe impossibile riassegnarle lo spazio che essa merita. Se questo tipo di approccio è piuttosto insolito nell’ambito degli studi religiosi, vale la pena avventurarsi nei nuovi territori da esso individuati.
Nella nozione di docetismo, elaborata da Corbin, l’Autore riesce a cogliere un’intrinseca attitudine fenomenologica – in senso husserliano, più che hegeliano – tale da forgiare un’ermeneutica assai peculiare, che schiude un’ontologia e una conoscenza visionaria capaci di riscattare la manifestazione dell’Assoluto come testimonianza esistenziale. Su di essa si regge la gnosi, cammino intrapreso dall’uomo desideroso di conoscere che in quanto tale modifica la concezione di soggetto conoscente e oggetto conosciuto, distinguendosi di netto dalla mera riproposizione di una teologia ontica. Perseguendo quest’obiettivo, Revello indaga la metafisica shī‛ita e la corrispondenza tra realtà archetipica e storica rappresentata dall’imāmato, cui viene attribuita funzione teofanica e la facoltà di attivare la corrispondenza tra divino e umano, vero e proprio vettore speculativo di questa ricerca. Il problema, mai del tutto superato, della differenza tra l’essenza divina e la sua manifestazione è stato, ad esempio, trattato dall’Idealismo solo relativamente all’involucro categoriale, senza cioè includere il senso ermeneutico di cui esso è intriso; lo si poneva sul piano perlopiù logico-speculativo della “Manifestazione”. Quest’opera, invece, apre una prospettiva piuttosto particolare: il divino e la sua manifestazione vengono interpretati attraverso la corrispondenza tra il piano essoterico, concernente la figura dell’imām storico, e quello esoterico dei contenuti spirituali disvelati. Vi ritroviamo ovviamente l’Heidegger di Essere e Tempo, con la necessità di uscire dalla dicotomia platonica tra mondo vero e apparente. Assai correttamente Revello indica che in qualche modo, però, secondo Corbin l’aspetto teofanico rimane escluso dall’ottica heideggeriana. Come ci si può proporre di recuperarlo? Il rapporto tra Essere ed ente rimane legato a una dimensione d’insufficienza fino a quando non viene reintegrato in una relazione “immaginale e simbolica”, unica vera istanza per una rinnovata teofania. A venir meno è soprattutto la frizione dottrinale tra filosofia e teologia, sublimata nell’ermeneutica di Corbin attraverso una “via immaginale” che ha come riferimento la facoltà straordinaria, ancorché umana, di un’immaginazione creativa che non stenteremmo a definire “speculativa”.
Nella gnosi shī‛ita, dunque, l’individuo diventa luogo teofanico, occhio in cui Dio guarda sé stesso e quindi, in nuce, si trasfigura come immagine e specchio dell’essenza divina. La differenza ontologica tra Essere ed ente si esaurisce per l’appunto nello specchio, perché nell’apparire dell’immagine il divino non diviene ente, senza che ciò ne impedisca l’epifania. Ogni immagine e manifestazione si rivela unica poiché non esaustiva dell’Uno. Ma c’è di più: il carattere marcatamente antropologico del simbolo dello specchio diviene un vero e proprio modo rivoluzionario d’intendere l’uomo, sia come individuo sia come soggetto conoscente. L’uomo è specchio in quanto irrorato dalla Luce ma anche immagine riflessa, che in quanto tale si ripropone all’Uno. Tale connotato antropologico trova un appoggio nel simbolismo junghiano del Sé e dell’affiorare dell’archetipo, senza però essere declassato a mero artefatto dell’inconscio.
La proposta di quest’opera è notevole: apparirebbe quasi impossibile uscire dall’idea d’immagine modellata sulle istanze tipicamente platoniche senza entrare in qualche modo in un nuovo dualismo, ma Revello suggerisce che la risposta data dall’Islam iranico reinterpretato da Corbin si configura come dualitude, concetto interpretabile come vicinanza-differenza, fondamento del rapporto tra ciò che si specchia e gli specchi, ma non come mero sostituto dell’Uno. L’Uno, infatti, si offre nel molteplice senza mai dissolvervisi. La novità proposta da quest’opera non consiste evidentemente solo nella rifondazione di un’ermeneutica fenomenologica, ma anche nel recupero e nella ridefinizione del docetismo, a cui è dedicato l’ultimo capitolo del libro; qui l’autore ci propone di ripensarlo e reintegrarlo come elemento essenziale nella comprensione del rapporto tra ciò che è spirituale e ciò che dello spirituale è afferrabile ed esprimibile.
La chiarificazione del concetto di docetismo, nell’accezione fornita dal Nostro tramite Corbin, non relega questo fenomeno alla cristologia ma lo estende alla gnosi shī‛ita. Ci si potrebbe interrogare sulla natura del guadagno offerto dal rifiuto dell’idea che l’incarnazione divina avvenga come evento materiale; tale rifiuto, tuttavia, gioca qui un ruolo fondamentale per tenere insieme ontologia e antropologia, quest’ultima intesa come responsabilità da assegnarsi all’individuo nel suo costituirsi come immagine del mondo e del divino. Il dualismo, però, bussa ancora alla porta: nel momento in cui il docetismo inerisce alla tematica della manifestazione dell’Uno, pare riproporsi perentoriamente l’idiosincrasia gnostica nei riguardi della creazione materiale, nata all’ombra del Demiurgo più che alla Luce del Padre, aporia su cui questo volume si scontra senza però infrangersi. Revello riferisce, infatti, che Corbin eredita dal filosofo persiano Sohravardī una concezione fortemente teofanica del creato, secondo cui lo stesso fatto storico viene trasfigurato archetipicamente.
Ne nasce un dialogo che coniuga in una relazione concettuale islamismo, filosofia classica e moderna, nonché la psicologia junghiana: l’Ombra, accettata da Jung in quanto posta in una dimensione psicologica, viene combattuta nell’ottica della misteriosofia, sostrato ulteriore al bagaglio conoscitivo di Corbin, giacché oltre a piombare nel dualismo gnostico cerca di uscirne, rinunciando alla tipica sensazione d’irrimediabilità che esso suscita: in ciò consisterebbe la battaglia per la Luce tipica del mazdeismo. Molto raffinata, quasi “chirurgica”, è dunque quest’operazione: l’esigenza che s’impone consiste infatti nell’evitare la logica dualista, ritornando a una vera e propria metafisica dell’immagine di stampo squisitamente gnostico.
Il problema, non eluso da Revello, consiste nell’aver ben presente che, se l’epifania si dà per immagine, l’apparire dell’Uno rischierebbe di essere accessorio rispetto all’Uno medesimo, quasi inconsistente. Dallo gnosticismo viene dunque recuperato un tema di grande attualità nel dibattito contemporaneo, quello della “creazione a immagine”, che ridefinisce i termini in cui è necessario pensare l’Assoluto. Esso si concreta nel suo apparire e nel suo farsi trovare, essendo eminentemente in sé stesso proprio nel processo di tale ritrovamento. In ciò consiste il recupero di un’ontologia gnostica, questa volta però ricavata da tradizioni occidentali, e che nella rotta tracciata in questo volume concorre all’affiancamento di tematiche tipiche dell’Islam iranico ad istanze teoretiche nostrane. A tal proposito si comprende perché il docetismo, a livello strettamente concettuale, venga effettivamente considerato in modo differente rispetto al ruolo che ricopre nella comune tradizione eresiologica, assumendo nel corso dell’opera i connotati di un vero e proprio principio costitutivo della conoscenza spirituale: è fattore fondamentale per la fondazione del sapere teofanico.
In accordo con Proclo, Revello trae diversi gradi, diverse varianti di questo rispecchiarsi da parte dell’Uno, evitando l’impasse dell’uniformità indistinta del molteplice che si manifesta e dell’Uno medesimo. L’ente – come anche l’individuo – può farsi specchio e immagine nel modo che gli è proprio e che all’inizio è recondito, archetipico. Motivi schellinghiani sono dunque apprezzabili nel tentativo di non esaurire lo spirituale nella caro, ma nell’ottica di una “ontologia immaginale” appare difficile evitare di porre la questione della verità – della effettualità, verrebbe da dire – dell’immagine. È in questo quadro che s’inscrive la scelta di mostrare come il docetismo non consenta solo di evitare di reificare il divino, ma anche di ricollocarlo nel simbolo, in quanto simbolo di qualcosa che c’è, latore in sé stesso di un’energia che giunge da ciò che in essa si manifesta.
Nel momento in cui viene chiamato in causa il simbolo, però, s’impone una svolta, un vero e proprio salto prospettico, poiché per penetrare il peculiare punto di vista offerto da questo volume dobbiamo cominciare a considerare il docetismo come processo d’individuazione. È la relazione tra Essere e parvenza di Heidegger a far sì che l’immagine sia l’evento in cui si offre la manifestazione del divino e non la sua differenza, giacché la parola simbolo tiene insieme i due aspetti del fenomeno come compresenza di alterità e identità di ciò che si manifesta rispetto al suo manifestarsi.
Un’ultima considerazione, in merito all’attribuzione dell’origine della gnosi. Secondo Revello, essa presenta una difficile localizzazione e poco si presta ad essere collocata entro una determinata tradizione o epoca storica, il che motiva l’uso di un’ermeneutica fenomenologica che abbia nel docetismo il dispositivo adatto per coniugare indagine e realizzazione di una peculiare ontologia. Tale operazione, però, può probabilmente essere letta nel modo seguente: senza voler togliere realtà al metodo storico, potremmo provare ad alleviare il peso che esso si è accollato a lungo, cioè di restituirci tout court la genesi e lo sviluppo di esperienze religiose che, come nel caso dell’Islam iranico, sono contraddistinte da un’oltranza e un respiro che eccede ogni confine e giunge fino a noi dalle pagine davvero stimolanti e teoreticamente pregnanti di questo libro.
Roberto Revello, Ciò che appare nello specchio. Docetismo e metafisica dell’immagine in Henry Corbin, Orthotes, Napoli-Salerno 2019, pp. 218, € 18,00.