
I racconti del Club Pigreco – circolo che ospita personaggi famosi della cultura, della scienza e dell’arte – sono nati nel 2000 sulla rivista «Mystero», edita a Roma da Profondo Rosso. Durante le sue riunioni conviviali, viene presentato un mistero che nessuno è riuscito a risolvere: grazie a una serie di collegamenti logici se ne viene a capo. Dei primi racconti è stato pubblicato nel 2005, sempre da Profondo Rosso, un volume intitolato Gli enigmi del Club Pigreco, il cui protagonista è Martin Mystère, omonimo personaggio del celebre fumetto creato da Alfredo Castelli. Altre storie, pubblicate in seguito, a volte hanno come protagonista Victor Vance. In totale, sono apparsi ventisei racconti della serie.
«Quello che adoro di Halloween» esclamò Jack Azimov, il celebre autore della saga dei Mizark, «sono questi dolcetti speciali approntati dal nostro impareggiabile Ciccio». Così dicendo, affondò il cucchiaio in una piccola zucca di marzapane artisticamente decorata dall’abile cuoco del Club Pigreco, Salvatore Cacciapuoti, in arte Ciccio.
«Già, come al solito il nostro beneamato Jack pensa alla pappatoria» lo canzonò Victor Vance, paleontologo e archeologo, scopritore del Victorsauro. «Non pensa ad Halloween come alla notte in cui, secondo la tradizione celtica, il mondo dei morti incontra il mondo dei vivi…».
Ovviamente, lo scrittore era troppo impegnato per prestargli attenzione.
La serata speciale per Halloween si svolgeva nella vasta sala da pranzo del club – vi partecipavano quasi tutti i membri, i quali avevano fatto grande onore alle succulente portate che si erano succedute fino a quel momento.
«Un vero peccato che Sir Reginald e Myron siano assenti» commentò Laszlo Nagy, l’esperto di lingue mongole. «Strano, perché avevano annunciato la loro partecipazione. Non abbiamo neanche ricevuto una telefonata di disdetta».
«Forse…» cominciò Victor Vance, ma s’interruppe, perché in quel momento era entrato trafelato Tom Perkins, il segretario del club, allontanatosi un attimo per andare in cucina.
«Signori, signori, un momento di attenzione! Ho appena sentito una notizia terribile. C’è stato un attentato al presidente russo Vladimir Putin. È su tutte le reti…».
Ci fu un attimo d’incredulo silenzio, poi Victor Vance si rivolse al segretario. «Su, accendete la televisione, per una volta facciamo un’eccezione».
Tra le regole più inflessibili del club c’era appunto quella di non accendere mai la TV durante le riunioni conviviali. Ma, questa volta, la situazione era veramente troppo grave.
«Non ci sono notizie precise» diceva la speaker. «Si sa soltanto che il presidente Putin è stato oggetto di un attentato, ma non è ancora noto se sia rimasto ferito o ucciso…».
«Speriamo solo che non sia una nuova Sarajevo» mormorò Marion Kettering, il consulente del Pentagono.
Tutti ascoltarono con attenzione per qualche minuto, ma era evidente che non c’erano novità in merito, e il signor Perkins spense l’audio della televisione, lasciando acceso lo schermo nel caso comparisse un aggiornamento flash.
I commensali finirono il dessert in un cupo silenzio, poi Jack Azimov parlò per primo: «Pensate, se Putin fosse rimasto ucciso, magari non si saprà mai a opera di chi… La storia è piena di misteri irrisolti. Per esempio, chi ha ucciso il Delfino di Francia, ovvero Luigi XVII, nel Diciottesimo secolo, oppure chi era realmente l’Uomo della Maschera di Ferro, morto nella Bastiglia nella stessa epoca».
«Oppure, per venire ai giorni nostri, chi ha sparato al Presidente Kennedy…» disse Otis Mifune, il celebre neurochirurgo. «Perché nessuno può credere alla panzana del Rapporto Warren, la più grande patacca storica del Ventesimo secolo. Non che Oswald non abbia sparato, ma senz’altro non è stato il solo – e, soprattutto, chi ha voluto l’attentato?».
«E non dimentichiamo il mistero dei principini uccisi nella Torre di Londra nel Quindicesimo secolo» ricordò Victor Vance. «Un duplice omicidio con molte ombre».
«Oh, no, invece» esclamò Jack Azimov. «Tutti sanno che li ha fatti uccidere Riccardo III, quello che gridava: “Il mio regno per un cavallo!”, perché potevano insidiargli il potere. Ne parla anche Shakespeare nell’opera omonima».
«E, soprattutto, lo dice chiaramente il grande Tommaso Moro» ricordò Laszlo Nagy. «Tutti i libri di storia si rifanno a quanto scritto da lui».
In quel momento, si avvertì nella sala una specie di ventata gelida e dal corridoio che portava all’anticamera d’ingresso sbucò una figura ammantata di nero e dal viso celato da una maschera.
«Quel lurido verme, pennivendolo al soldo dei Tudor!» gridò l’uomo misterioso.
«Pennivendolo il sommo Tommaso Moro?» esclamò stupefatto Victor Vance. «Via, Sir Reginald, abbiamo riconosciuto il vostro accento britannico. Se volevate stupirci, ci siete riuscito».
«Sì, pennivendolo» continuò l’uomo mascherato. «Perché ha scritto della presunta efferatezza di Riccardo III per ingraziarsi Enrico VIII, Tudor, casata discendente dei Lancaster, acerrimi nemici degli York, la casa cui apparteneva Riccardo III».
«Ma Riccardo III» disse Laszlo Nagy, «era notoriamente un re dispotico e crudele!».
«Riccardo III era amato dai suoi sudditi e considerato un giusto, come dicono le cronache dell’epoca» lo contraddisse, pacato, l’uomo mascherato. «Solo in seguito la storia è stata distorta. Tutto è cominciato con l’Atto di Proscrizione voluto da Enrico VII Tudor, vincitore della battaglia di Bosworth del 1485, in cui Riccardo III rimase ucciso, Atto con il quale si è infangato Riccardo III, per colpire i suoi seguaci. Ma nell’Atto, dove si elencavano le presunte efferatezze di Riccardo, non si menzionava l’omicidio dei principini, i suoi nipoti, di cui fra l’altro era tutore. E vi pare che si sarebbero fatti sfuggire una così ghiotta occasione per colpire Riccardo?».
«Ma Tommaso Moro…?» interloquì Jack Azimov.
Gli rispose una risataccia. «Sempre questo Tommaso Moro! Ma se aveva otto anni quando Re Riccardo è caduto in battaglia! Ha scritto di cose di cui nulla sapeva se non quanto aveva letto su un manoscritto di Giovanni Morton, altro bel soggetto che ce l’aveva a morte con Riccardo e si era buttato dalla parte di Enrico VII, che l’aveva fatto arcivescovo di Canterbury».
Ci fu un attimo di costernato silenzio. Tutte le più ferme convinzioni – consolidate da secoli di storiografia comunemente, ma acriticamente, accettata – erano state stravolte.
«E c’è da aggiungere una cosa ancora» continuò, beffardo, l’uomo mascherato. «I nipoti, Edoardo e Riccardo, figli del fratello Edoardo, di cui era tutore, non costituivano affatto una minaccia al suo trono, per la semplice ragione che erano illegittimi e quindi automaticamente esclusi per legge dalla successione».
«Questa poi…!» esclamò Jack Azimov. «Mai saputo che fossero illegittimi; anzi, se non ricordo male, dai miei trascorsi scolastici alle prese con la complicatissima storia della Guerra delle Due Rose, tra i Lancaster e gli York, mi risulta che fossero figli di Edoardo IV ed Elisabetta Woodville, quindi più che legittimi in fatto di successione al trono».
Altra risataccia sprezzante. «Questa è solo parte della storia. In realtà, prima di unirsi con la Woodville, Edoardo IV aveva sposato segretamente Eleonora Butler, figlia del conte di Shrewsburry, officiante Roberto Stillington, vescovo di Bath. Quest’ultimo rivela la faccenda del matrimonio quando Riccardo, morto Edoardo IV nel 1483, vorrebbe fare incoronare il piccolo Edoardo, che però, per il matrimonio segreto del padre, risulta illegittimo, come il fratello Riccardo, e quindi non idoneo alla successione».
«Accidenti!» esclamò Laszlo Nagy. «La faccenda si fa sempre più complessa, mi pare».
«Proprio così» convenne l’uomo misterioso. «E, dopo che il 9 luglio il Parlamento emette il Titulus Regius, con cui si proclamano illegittimi i due bambini, Riccardo non ha nulla da temere da loro. Quindi, perché ucciderli? Li ospita nella Torre di Londra, che allora non era una prigione, ma una residenza, e i nipoti vivono felici e contenti. Del resto, Riccardo aveva una estesa parentela che avrebbe potuto legittimamente aspirare a una successione, ma non ha torto un capello a nessuno, perché in realtà le famiglie erano molto unite».
Jack Azimov alzò un mano. «Un momento. Mi risulta che Riccardo ha fatto decapitare diverse persone…».
«Naturalmente» spiegò paziente l’uomo con la maschera. «Perché così si procedeva con i colpevoli di tradimento. Ci fu infatti un complotto organizzato da Lord Hastings, un tempo amico suo e del fratello Edoardo, Lord Stanley, Lord Rivers, precettore dei principini, e il vescovo Morton. Hastings fu decapitato con Lord Rivers, mentre Stanley fu graziato e Morton confinato sotto la tutela di Lord Buckingham. Mi pare un atteggiamento abbastanza magnanimo, tutto sommato».
«In effetti…» bofonchiò Jack Azimov. «Anche se mi sto un po’ perdendo con tutti questi nomi…».
L’uomo misterioso fece un risolino. «Pensate a Riccardo, che ha dovuto gestirli dal vivo. Un po’ sprovveduto, anche, visto che Stanley, da lui graziato, passò al nemico nella battaglia di Bosworth, facendo pendere la bilancia a favore di Enrico».
Di nuovo calò un attimo di silenzio, mentre gli occhi di tutti correvano allo schermo televisivo, sui cui però non c’erano novità e continuava a scorrere il nastro con la notizia data in apertura.
A parlare per primo fu Victor Vance, rivolgendosi all’uomo mascherato. «Ma allora, secondo voi, chi e perché ha ucciso i principini, se non è stato Riccardo III?».
«Ma questo è risaputo!» esclamò Laszlo Nagy. «A ucciderli fu un certo Sir James Tyrrel, per ordine di… oops!».
Un ruggito. «“Per ordine di Riccardo III” stavate per dire, nevvero, messere?».
Laszlo Nagy parve confuso; un’espressione di perplessità si dipinse sul suo volto. «Uhm. C’è qualcosa che non quadra, qui».
«Se tutto quanto è stato detto ora è vero» osservò Victor Vance, «non capisco come tutta questa storia d’intrighi non sia mai stata chiarita. Tutte le enciclopedie e i libri di storia, anche scolastici, continuano a dipingerci ancora oggi un Riccardo III del tutto diverso».
«Forse per pura pigrizia mentale» osservò Otis Mifune. «Un atteggiamento caratteristico di molti studiosi, purtroppo. E poi, la carenza di fonti dirette e soprattutto la parola del sommo, si fa per dire, Tommaso Moro».
«Proprio così» convenne l’uomo mascherato. «Si sa che la storia la fanno i vincitori e il vincitore è stato Enrico VII Tudor, un essere infido e subdolo, che non si peritava di eliminare chiunque gli desse fastidio, magari anche a distanza di anni».
«Ma vediamo di tornare a Tyrrel» sollecitò Laszlo Nagy. «Mi pare che sia una figura chiave nella faccenda dei principini».
«Infatti» disse l’uomo misterioso con voce alterata. «Tyrrel confessa sotto tortura, vent’anni dopo la scomparsa dei principini, di averli uccisi lui per ordine di Riccardo III. Spiega che mentre Re Riccardo si trovava a Warwick lui era tornato a Londra, si era fatto consegnare le chiavi dal conestabile Robert Brackenbury, aveva assassinato i ragazzi ed era tornato da Riccardo, per comunicargli che la missione era stata compiuta».
«Ma questo Tyrrel era yorkista o lancasteriano?» chiese Jack Azimov.
«James Tyrrel era yorkista, un personaggio abbastanza importante ma abile negli intrighi, tanto da fare carriera sotto Enrico VII, che lo premiò con rendite della Contea di Guisnes, in Francia, dove visse beatamente fino al 1502».
Jack Azimov fece una smorfia. «Già, beatamente fino a quando?».
«Fino a quando Enrico VII non lo richiamò in patria, protetto dal Sigillo Reale, perché si discolpasse dall’accusa di avere cercato di aiutare uno yorkista, chiuso nella Torre di Londra. Ma per Enrico VII la parola data contava ben poco, e infatti lo fece decapitare il 6 maggio senza processo, per cui ovviamente non esiste alcun verbale scritto».
«Ma prima avevate affermato che confessò l’uccisione dei principini» obiettò Laszlo Nagy.
L’uomo misterioso emise una risatina. «Così si dice, infatti, ma furono solo voci, non esistendo alcun verbale scritto».
«Insomma» esplose Victor Vance, «non abbiamo ancora capito chi ha ucciso realmente i principini. Questo Tyrrel quanto c’entra realmente in una simile storia?».
Sul viso dei presenti era dipinta un’espressione perplessa, indice di una grande confusione. Ma era evidente anche una grande curiosità. Sullo schermo della televisione continuava a scorrere il nastro, che non segnalava novità sull’attentato a Putin.
«Vi dirò qualcosa di Tyrrel» riprese l’uomo con la maschera. «Il 16 giugno 1486 Tyrrel, che era yorkista, ottiene il perdono reale generale da parte di Enrico VII, vincitore della battaglia di Bosworth. Fin qui è tutto abbastanza normale, perché era tradizione che dopo simili rivolgimenti si graziassero i sostenitori della parte avversa. Del resto, non si può ammazzarli tutti quanti. Ma poco dopo avviene un fatto stranissimo. Il 16 luglio, esattamente un mese dopo, gli viene accordato un secondo perdono reale. È veramente un caso unico nella storia d’Inghilterra. Perché? Cosa c’era da perdonare di tanto importante?».
«Le fonti storiche che dicono?» chiese Laszlo Nagy.
«Nulla. Il perdono reale è totalmente discrezionale da parte del sovrano. Non occorrono giustificazioni. Ma, guarda caso, una volta tolto di mezzo Tyrrel, salta fuori la storia che vent’anni prima avrebbe ucciso i principini per ordine di Riccardo III» disse l’uomo mascherato. «Chi poteva ormai smentire questa versione? Testimoni dell’epoca non ce n’erano più; se c’erano, stavano ben zitti, per non incorrere nella vendetta di Re Enrico».
«Questo secondo perdono reale è alquanto sospetto» osservò Victor Vance.
«Infatti, è nel periodo tra il giugno e il luglio 1486 che scompaiono i principini; da allora, non vengono più visti. Come mai?».
«Un perdono reale per servizio reso» osservò Victor Vance. «E un’esecuzione senza verbali molto opportuna. Un bel tipino questo Tyrrel, per non dire di Enrico VII».
«Che, in un modo o nell’altro, uccise tutti i possibili pretendenti della casa York o li neutralizzò in vari modi, le femmine sposandole a membri dei Lancaster» disse con amarezza l’uomo misterioso.
Laszlo Nagy scosse la testa. «Possibile che nessuno abbia mai contestato la versione ufficiale di Riccardo III, crudele assassino? Mi pare incredibile».
Risuonò una risata beffarda.
«In realtà, già nel Diciassettesimo, Diciottesimo e Diciannovesimo secolo molte voci si sono levate in difesa di Riccardo III. La più autorevole è forse quella di Horace Walpole, che scrisse Historic Doubts on the Life and Reign of King Richard the Third, edita nel 1768. Ma a tutt’oggi c’è una miriade di studi che accreditano la riabilitazione di Riccardo III. Quanto alla sua presunta crudeltà, vorrei ricordare quanto proclamò la città di York quando si conobbe l’esito fatale della battaglia di Bosworth: “In questo giorno, il nostro buon Re Riccardo venne tragicamente annientato e assassinato; a grande cordoglio di questa città”».
«Un necrologio decisamente coraggioso, considerato che aveva vinto la parte avversa, assetata di vendetta contro gli yorkisti» osservò Victor Vance, aggiungendo, dopo un attimo di silenzio: «Ma allora, tornando a quella torbida figura di James Tyrrel, è stato veramente lui a uccidere i principini, non per conto di Riccardo III bensì di Enrico VII…?».
In quel momento, lo schermo televisivo si animò con un flash e l’attenzione dei presenti fu distratta dalla comparsa di un annunciatore. «È stato ora comunicato ufficialmente dall’agenzia Itar-Tass che il presidente Vladimir Putin è stato gravemente ferito nel corso di un attentato, ma non è in pericolo di vita. Non si conosce ancora la matrice politica degli attentatori…».
Dai commensali si levò un corale respiro di sollievo.
«Forse non ci sarà una nuova Sarajevo, dopo tutto…» commentò Laszlo Nagy.
«Ma forse ci sarà un nuovo mistero storico sugli attentatori» osservò Jack Azimov.
Victor Vance si guardò attorno: «Già, ma dov’è finito il nostro uomo mascherato?».
Il signor Perkins indicò il corridoio che dava sulla biblioteca. «L’ho visto andare di là».
Vance fece per muoversi in quella direzione, ma proprio allora, dall’ingresso, giunsero trafelati Sir Reginald Bevington-Taylor e Myron Rosenfeld con espressione contrita.
«Siamo rimasti bloccati in metropolitana e la linea dei cellulari non prendeva» spiegò Rosenfeld. «Poi, una volta sbloccati, siamo corsi qui senza pensare di chiamarvi, quando abbiamo sentito la notizia dell’attentato a Putin».
«Sir Reginald!» esclamò Laszlo Nagy. «Ma allora non eravate voi…». La voce gli mancò per l’emozione.
«Non ero io chi?» chiese confuso Sir Reginald, che chiaramente non capiva. «Si può sapere cosa succede qui? C’è un’atmosfera stranamente elettrica, direi».
Tutti balzarono in piedi, correndo verso il corridoio della biblioteca, da cui arrivò una voce ormai lontana.
«Addio, messeri. È stato un onore raccontarvi la mia vera storia. Parola di Re!».
Quando i membri del Club raggiunsero la biblioteca, era vuota.