In tenebris veritas. L’orrore secondo Tiziano Sclavi
Gianfranco de Turris
Tiziano Sclavi ha avuto un grande merito. Insieme a Stephen King è finalmente riuscito a far accettare alla cultura italiana un genere, quello della narrativa del terrore, della paura, del nero, del gotico o dell’horror che dir si voglia, non tanto sul piano della letteratura “alta”, quanto su quello “popolare”. La regolare presenza dei romanzi di King nelle classifiche dei libri più venduti e il successo straordinario, a partire dal 1986, di «Dylan Dog», nell’ambito dei fumetti, hanno creato una situazione in precedenza nemmeno ipotizzabile. Il genere “orrore” è uscito dal ghetto, è diventato pane quotidiano per le giovani generazioni, non viene più accolto con atteggiamento snobistico dalla cultura “ufficiale”, anche se le eccezioni non mancano. Si tratta in fondo di una questione di abitudine e di qualità…
Non è tutto. A merito di Sclavi va anche un altro risultato: aver indirettamente sollecitato l’interesse verso la letteratura dell’orrore da parte di disegnatori, soggettisti e quindi narratori che, alla fine, sono riusciti a farsi pubblicare. La creazione del circuito lettore-autore-editore è ovviamente fondamentale e, se non s’instaura, nessun “genere” potrà mai sopravvivere. Se in Italia hanno potuto alla fine vedere la luce romanzi e racconti italiani neri e dell’orrore, questo è anche merito di Sclavi, dei suoi personaggi a fumetti e delle sue opere narrative. E qui ci si occupa soltanto di quelle che a mio parere sono forse le più significative, sia sul piano letterario che della sua “visione del mondo”, cioè uscite nel primo periodo, nel ventennio 1974-1994, che poi hanno influenzato tutta la sua produzione (che conta altri quattro volumi di narrativa, escludendo la sua produzione giovanile).
Tiziano Sclavi è un narratore con un duplice volto: da un lato quello di sceneggiatore di comics, dall’altro quello di vero e proprio romanziere. Le due attività, naturalmente, come vedremo, s’intersecano al punto da sovrapporsi spesso, comunque sempre muovendosi nell’ambito della narrativa “di genere”: giallo, orrore e fantascienza. Due volti, che però sarebbe meglio definire facce della stessa medaglia, due aspetti della stessa personalità, non contrapposti ma complementari. Tra l’altro, con un’origine comune, quella della passione per i film (si potrebbe meglio dire: per la struttura filmica), che ha influenzato la doppia attività dello scrittore. Se Sclavi non fosse stato fin da giovanissimo un vero e proprio cinephile appassionato del thriller e dell’horror, probabilmente non avrebbe scritto quel che ha poi scritto e soprattutto non l’avrebbe scritto con quel suo inconfondibile “taglio”. Il che ha, come si vedrà, sia un aspetto positivo sia uno negativo.
Dal cinephile Sclavi, amatore dei film di Hitchcock, De Palma e Argento, della loro struttura, delle loro inquadrature, del modo di avvicinare lo spettatore a situazioni e personaggi, della loro cura dei particolari, delle loro rapide sequenze, dei flashback e dei flashforward, nasce sia lo Sclavi sceneggiatore, sia lo Sclavi romanziere, quello che nel 1972 a diciannove anni scrive Film, poi pubblicato da Il Formichiere nel 1974, vincitore del Premio Scanno, e quindi ristampato in appendice a Nero (Camunia, 1992).
Un titolo, Film, che è tutto un programma. Le sue “sequenze a fotostop visivi” non sono nient’altro – mi pare – che una chiara anticipazione della sua successiva e intensa opera di sceneggiatore di fumetti, equivalendo qui i fotostop ai singoli quadretti o alle singole pagine di una sceneggiatura disegnata. Film contiene già quel repertorio d’immagini mutuato soprattutto dal linguaggio cinematografico che poi si ritroverà in «Dylan Dog»: teste mozzate che cadono con un tonfo, coltelli infilati nella carotide sino al manico, pezzi di carne che si staccano dal corpo sino a mettere a nudo lo scheletro, tagli inferti su faccia e mani con una lametta da barba. Lo stesso si può dire di squarci surreali che non sono rari nelle avventure dell’Indagatore dell’Incubo: il vascello dell’Olandese Volante che scivola nel cielo a vele spiegate, un giornale con le pagine tutte bianche, una vecchia casa piena di libri che ricorda le geometrie di Escher. C’è addirittura un accenno di poesia che ricorda le ballate di Dellamorte Dellamore e «Dylan Dog», quello che dice: «Corri corri / ma la morte / corre forte / più di te…». E c’è pure il nome “Francesco” che, anche in versione femminile, sarà frequentissimo nella successiva opera di Sclavi.
Sotto questo aspetto, quindi, Film può essere considerato, come dice l’autore nella ristampa 1992, un «reperto archeologico»: nel senso che contiene in nuce molto di quel che scriverà dopo. Anche l’aspetto, dal mio punto di vista, negativo, e cioè la mancanza di una vera e propria trama logica e coerente. Film – insieme ad altri testi, come si dirà – ha proprio come caratteristica quella di essere un nonsense programmatico: nelle sue pagine più o meno brevi una serie di personaggi si muove all’interno di scene che vanno avanti a sequenze alternate, sequenze di personaggi e azioni che s’intersecano fra loro, con soddisfazione momentanea del lettore-spettatore, ma con un’insoddisfazione complessiva finale.
C’è il sospetto, a volte, che Sclavi si limiti a mettere su carta tutte le immagini che gli passano per la mente, i sogni a occhi aperti, gli incubi notturni, il cui impatto è assicurato dal suo stile oggettivo, quasi da vecchia école du regard. In parte forse sarà anche così, ma c’è altresì una tesi di fondo che viene regolarmente proposta in ogni sua opera. Ed è quella della ripetitività, del circolo chiuso, della vita come un film di cui noi siamo gli attori, di solito inconsapevoli. Ci troviamo all’interno di un qualcosa mosso da altri, non viviamo praticamente mai la nostra vita, ma ripetiamo all’infinito, ossessivamente, le nostre azioni: i nostri sentimenti sono artificiali, in fondo la realtà non esiste, c’è una parete sottilissima che divide vero e falso, vita e morte, realtà e irrealtà. Gli esseri umani sono marionette, burattini, protagonisti di un folle esperimento, di una creazione artificiale, di un mondo in scatola, di una realtà virtuale. Un tema affascinante e grandioso, che ha attratto alcune note firme della fantascienza americana come Frederik Pohl, Philip K. Dick, Daniel Galouye, Richard Matheson, Ray Bradbury, Fredric Brown, Robert Young, e che è in fondo anche un tema religioso e filosofico riguardante il libero arbitrio e le nostre più autentiche capacità di scelta e decisione. Sclavi lo riporta in un clima tra orrore e surreale.
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In questa sua vena il Nostro ha scritto, nel 1983, Dellamorte Dellamore, pubblicato però solo otto anni dopo (Camunia, 1991) e il già citato Nero, apparso nel 1992. Da Dellamorte Dellamore è nato, dice il risvolto di copertina, Dylan Dog. Francesco Dellamorte, figlio di Francesca Dellamore, fa di mestiere il guardiano del cimitero di Buffalora, cittadina di provincia. Gli è accanto uno scavafosse, Gnaghi, decisamente subnormale. Il guardiano, oltre che seppellire i morti del paese, si occupa anche di ucciderli una seconda volta, e definitivamente, con un colpo in fronte della sua fedele Bodeo, quando essi, a causa di un ignoto morbo, risorgono dalle loro tombe affamati di carne umana. Né più né meno degli zombi immortalati da George Romero nella sua ormai classica Notte dei morti viventi (1988). Sono i “ritornanti”, i revenants della tradizione spettrale francese. Il punto di contatto con l’Indagatore dell’Incubo è il continuo faccia a faccia con quanto c’è ai confini tra la vita e la morte, una pistola per compagna e una “spalla”. Evidentemente, le potenzialità di un personaggio che non occasionalmente potesse vivere una vita allo stesso tempo “normale” e “altra”, fra la quotidianità e tutto quanto la circonda e assedia, devono aver indotto Sclavi a svilupparlo in modo “seriale”. E cosa c’è di più “seriale” di un investigatore con le sue inchieste? Per di più, la figura del “detective dell’occulto” è esistita sin dalla fine del Settecento accanto a quella del detective classico, il cui piano di lavoro è la nostra più semplice realtà. Basti ricordare Martin Hesselius di Le Fanu, van Helsing di Stoker, Carnaki di Hodgson e soprattutto John Silence di Blackwood, per rendersi conto di come si tratti di un’illustre tradizione letteraria.
Dellamorte è in nuce, grezzo e casereccio, l’inglese Dylan. Al di là delle differenze, che l’uno sia lo specchio italico dell’altro, una specie di alter ego meno complesso (e complessato…) e forse un po’ più genuino, sta a provarlo un’avventura di «Dylan Dog», precisamente lo Speciale n. 3 del luglio 1989. In Orrore nero Sclavi fa incontrare i due personaggi, quello disegnato “padre” di quello scritto, sia fisicamente sia (per così dire) metafisicamente e simbolicamente: nell’ultima inquadratura, separati dalla classifica effigie della Morte con tanto di cappuccio e falce, usando entrambi una vecchia Bodeo uccidono lo stesso zombi-ritornante, con a fianco i fidi Groucho e Gnaghi. Il singolare rapporto fra i due personaggi è stato colto dal regista Michele Soavi, che ha scelto, come interprete del guardiano del cimitero nel film tratto dal romanzo, proprio Rupert Everett, cioè l’attore inglese su cui Sclavi ha modellato l’immagine fisica di Dylan Dog.
Il “romanzo maledetto” è stato pensato da Sclavi sin dall’origine come un fumetto scritto o, almeno, dal punto di vista della sua fumettizzazione. Stanno a dimostrarlo due elementi: non solo la tipica spezzettatura in capitoli brevi, in subcapitoli brevissimi, con immagini nette e particolareggiate, ma soprattutto “il punto di vista”, che è quello indubitabile dello spettatore/lettore di fumetti. Di che storia si tratti si è accennato, in linea di massima. Naturalmente, non è soltanto la vicenda del guardiano del cimitero, uccisore di zombi per pietà, per prevenzione o per completare l’opera della Falciatrice. In quest’opera narrativa, che sta a monte di altri suoi testi più impegnativi e più noti, troviamo evidentemente, seppure in forma sincopata, i suoi temi fondamentali: l’antinomia freudiana Eros-Thanatos, più che quella classica di Amore-Morte, nel senso che in Sclavi le cose sono più complesse, patologiche e morbose di quanto non sia nel lineare mito greco. Anche la separazione tra vita e morte è così vasta e minima al tempo stesso che in questa “terra di nessuno” possono accadere le cose più assurde e grottesche. Forse si tratta proprio di quella “zona del crepuscolo” di cui parla la vecchia serie di telefilm americani di Rod Serling degli Anni Sessanta, intitolata Ai confini della realtà (e il cui titolo originale è appunto Twilight Zone): non a caso, Sclavi la cita spesso e volentieri nel suo “romanzo maledetto”, e le ha dedicato anche due famosissimi albi di «Dylan Dog».
In un momento (inizio degli anni Ottanta) in cui ancora gravava sulle nostre spalle il condizionamento americano, Sclavi ha avuto il merito di aver ambientato una particolare “zona del crepuscolo” in una sonnolenta e nebbiosa cittadina italiana del Nord, con il suo maresciallo, un sindaco, un medico condotto, una congerie di paesani e contadini. E lo ha fatto con uno stile efficace perché limpido, oggettivo, “iperrealistico”, che lo contraddistingue rispetto ad altri narratori e che conduce il lettore quasi per mano alla scoperta di scenari, situazioni, personaggi. Ma questa sua caratteristica, senza dubbio importantissima, qui non è del tutto sfruttata, piegata com’è alle esigenze di una trama che trama non è, ma quasi soltanto sceneggiatura. Come una macchina da presa, una videocamera in spalla all’operatore o montata su elicotteri o automobili, l’occhio dello scrittore si fa occhio del lettore. Che penetra in questo mondo “da fumetto”, grazie alle scene brevi, al punto di vista e alle onomatopee assai frequenti. Un vero peccato, a mio parere, perché si ha (almeno, io ho) la sensazione di una bellissima occasione sprecata e di un mondo di potenziale narrativo che resta lì, inespresso.
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Non diverso discorso si deve fare per Nero, divenuto un film dallo stesso titolo (1992) per la regia di Giancarlo Soldi e l’interpretazione di Sergio Castellitto e Chiara Caselli. Diciamo che sicuramente esso, sin dall’origine, è stato pensato con questa destinazione. Il che, a mio parere, lo rende assai meno “romanzo” di quel che avrebbe potuto essere, proprio come Dellamorte Dellamore. Rispetto ad esso Sclavi si porta dietro elementi sia minimi sia più importanti: quello dell’identità dei personaggi e della circolarità della storia. Come a Pernath ne II Golem di Gustav Meyrink è sufficiente sbagliare cappello per prendere possesso della identità del precedente proprietario, così all’anonimo protagonista di Nero indossare i vestiti dell’ex fidanzato suicida di Francesca lo fa diventare Federico Zardo: da due vite separate iniziali si giunge ad una sola, nata dalla sovrapposizione delle precedenti, al punto che ci si confonde nel seguire le azioni. Naturalmente l’effetto è voluto: Sclavi tende proprio a far perdere il concetto d’identità, d’individualità, a far diventare “tu” l’“io”. Che le cose stiano così sta a dimostrarlo una serie di coincidenze assurde e, appunto, irreali, come l’identità del contadino incontrato in campagna con il padre; oppure gli innumerevoli colpi di scena surreali che sconvolgono gli eventi e li confondono: pistole a salve, finti morti, corpi mastodontici appesi al filo sottile di un frullatore, cadaveri che appaiono e scompaiono. Alla fine, tutto si ripiega quasi su se stesso: non soltanto il libro si chiude con una scena simile a quella d’apertura, ma in essa agisce un personaggio che ha preso il posto di quello che a sua volta all’inizio si era sostituito ad un altro.
Siamo dunque marionette? Agiamo inconsciamente all’interno di opzioni limitate, mentre pensiamo di godere di una libertà di scelta completa e totale? Viviamo come delle maschere nascondendo sempre il nostro Io e ingannando così il prossimo? Sclavi varia su questi temi: non si dice infatti che un autore scrive sempre la stessa storia? Francesca mente, il laido D’Ambrosi mente, il boss mente, il protagonista mente pur di salvarsi. Nessuno è quel che dice di essere. Ancora peggio: nessuno è quel che sembra essere! È un gioco d’inganni perversi. È la vita, pare dire Sclavi, in cui oggi men che mai si è sicuri di nulla: del proprio amore, della propria identità, della morte altrui.
«Scritto anche pensando al cinema», come afferma lo stesso autore, Nero non si differenzia molto, strutturalmente, da Dellamorte Dellamore: capitoli brevi di una, due o tre pagine, addirittura brevissimi di mezza pagina; descrizioni rapide e scattanti, ma non per questo meno chiare, quasi illuminate da un faro; attenzione ai minimi particolari, ai colori, ai sapori, agli odori, alle ripercussioni di una azione.
Non credo che Sclavi possa andare più oltre in questa direzione, avendo ormai raggiunto il massimo. Potrebbe scrivere anche dozzine di questi romanzi-sceneggiature, o sceneggiature in forma di romanzo, ma resterà sempre chiuso nei limiti angusti che le descrizioni brevi, le frasi di mezza riga, i frequentissimi a capo, l’interesse più all’“azione” del personaggio che non alla sua costruzione interiore e psicologica, gli imporranno. Insomma, seguendo questa via, a mio parere, Sclavi corre il rischio di restare “esteriore”, cronista dell’anarchia contemporanea, del caos post-industriale, del marasma metropolitano, della violenza gratuita dei nuovi barbari, dell’insensato e vano agitarsi da marionette degli Anni Novanta. Corre il rischio di non fare passi avanti, mentre ha tutti i mezzi per procedere oltre.
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Non è che non l’abbia fatto, a dire il vero, soltanto che i risultati sono stati positivi o negativi a seconda delle tecniche utilizzate. Si veda ad esempio Tre (Camunia, 1988), ottimo nelle intenzioni ma, secondo me, l’unico vero passo falso compiuto da Sclavi in tanti anni. Il tentativo sembra essere stato quello di uscire dagli schematismi obbligati imposti dal “film della vita”, di scardinare il circolo chiuso dell’unica realtà in cui siamo stati costretti, di rompere la ripetitività di azioni che appaiono come predeterminate, di esercitare finalmente il libero arbitrio. Come fare? Lo scrittore è ricorso ad una delle più interessanti convenzioni della narrativa dell’immaginario: il multiforme protagonista, in determinati momenti, passa da un universo all’altro, da una realtà all’altra, per modificare il corso della storia propria e/o altrui. Il desiderio è quello di evadere da una realtà caotica, incomprensibile e, alla fin fine, banalissima, per un Altrove. Banalità esplicitata da Sclavi con una serie infinita (ma anche un po’ noiosa) di excursus su personaggi anche secondari: una volta incontrati nel corso della narrazione, questa si interrompe diffondendosi, per quindici righe come per due pagine, sulla loro vita, in una specie di parodia del minimalismo. Per evadere da tutto ciò, è sufficiente un atto volitivo o andare al di là. La madre del protagonista, Edna, lo porta infatti a conoscere il Paradiso, al quale si accede da «un passaggio segreto in cantina». È la Casa del Padre, dove questi consola i propri figli. Da cosa? chiede il protagonista. «Dal fatto di essere imprigionati in un solo universo» risponde la madre.
Il succo della vicenda, e anche un po’ della tematica di Sclavi, è tutto qui. Però, il fallimento di Tre come romanzo sta nel fatto che la struttura e lo stile usati non sono all’altezza della situazione. Perché? Perché sono degli ibridi, a metà strada tra la sceneggiatura e la narrazione vera e propria, con la tendenza ad una mescolanza di avvenimenti e vicende eccessivamente ripetitiva. L’impressione finale non è quella di un tentativo di presentare una via di uscita dal caos, ma al contrario l’apoteosi della babele, con quell’intrecciarsi senza fine di storie nelle storie, trame nelle trame, personaggi che appaiono e scompaiono, punti di vista sempre diversi, scenari e sfondi che mutano all’improvviso come le quinte del teatro. Dalla circolarità di una stessa vicenda, ripetuta all’infinito, si è passati alla mescolanza d’infinite vicende. Sicché, anche l’aspetto più interessante e qualificativo di Sclavi, la sua ricchezza inventiva, di narratore di storie, di creatore di personaggi sempre diversi, affonda qui nell’iterazione portata alle sue estreme conseguenze.
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Per fortuna, Tre è un’eccezione. Come si è visto, sovente lo Sclavi narratore tout court si è autosacrificato allo Sclavi sceneggiatore. Il secondo Sclavi è quello che più compiutamente ha pubblicato veri e propri racconti lunghi o brevi romanzi, e che meglio rivela le sue possibilità non più in potenza ma in atto, espresse in storie come Mostri («Il belpaese 2», maggio 1985) o nelle quattro narrazioni riunite in Sogni di sangue (Camunia, 1992). Qui siamo di fronte a storie con una trama ben definita, non più a ibridi come Tre.
Mostri è una storia di freaks. O meglio, è la cronaca di una tranche de vie di alcuni aborti di natura, proprio come quelli del classico film di Tod Browning (1932), rinchiusi non in un circo ma in un ospedale, luogo canonico di Sclavi. In realtà, lungo tutte le quaranta pagine del racconto non succede un bel nulla: è solo la descrizione delle azioni quotidiane, dei problemi giornalieri, dei piccoli fatti di ogni momento vissuti dai tre occupanti di una camera d’ospedale, accuditi dalle infermiere per le loro malformazioni congenite. La bravura eccezionale di Sclavi sta proprio in questo: è la presenza stessa dei freaks a rendere “eccezionale”, fuori della norma, la loro vicenda, che Sclavi offre al lettore. Ciccio, un nano tanto piccolo che i nani lo considerano nano; Sam, un tronco umano senza arti; Gnaghi, un deficiente (come lo è la “spalla” omonima di Dellamorte): sono i tre esseri intorno ai quali si svolge la storia, ma accanto a loro, nelle stanze vicine, c’è altra “gente”, altri freaks che sembrano tratti pari pari dai disegni di «Dylan Dog»: “gente” con la pelle a macchie, con la testa girata di centottanta gradi, con un buco nel petto da cui fuoriesce un omuncolo, con le costole abnormi, con il volto da Neanderthal, con le mani attaccate direttamente alle spalle. Incubi, distorsioni della normalità. Già, ma qual è la “normalità”, sembra chiedersi e chiederci lo scrittore? È più terribile e da compatire la situazione esistenziale di questi “mostri” congeniti, che pure hanno una loro dimensione psicologica e sentimentale distorta ma acquisita, oppure la normalità che viene aggredita dal male fisico, come quella dell’infermiera Ilde, che scopre di avere un tumore al seno? Allora la situazione s’inverte, e sono i ricoverati che si preoccupano di chi sino a quel momento li aveva accuditi. È anche questa, se vogliamo, una “zona del crepuscolo” dove normalità e mostrificazione convivono e al limite si confondono: chi è il vero freak? Come dimostra la spedizione notturna di Ciccio, Gnaghi e Sam fino al reparto di oncologia attraverso i meandri sotterranei dell’ospedale, alla ricerca degli esami di Ilde, i due mondi possono incontrarsi.
L’oggettività di Sclavi si distende ancora una volta puntualissima e senza alcuna esagerazione, tanto che la ripetitività delle azioni di ogni mattino e di ogni sera, sulla falsariga di un Robbe-Grillet, con la sua tipica descrizione impassibile di oggetti e comportamenti, non disturba affatto, ma anzi contribuisce in questa occasione ad illuminare meglio l’intero racconto.
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Quello che potremmo definire lo “sguardo chiaro” di Tiziano Sclavi credo raggiunga il meglio di sé nelle quattro storie di Sogni di sangue (Camunia, 1992), pur nella loro esposizione di orrori e angosce. In due è protagonista Salvatore Straniero, commissario in Pavia; un altro è la kafkiana vicenda di uno sdoppiamento di personalità; l’ultimo è decisamente fantascientifico ed il migliore della serie.
In Un sogno di sangue e Un delitto normale, «l’unico poliziotto comunista d’Italia» deve risolvere i casi di un assassino seriale ed un omicidio che nella sua ovvietà cela un inferno domestico. Straniero, masticatore di gomme americane per non fumare, amatore di «Torpedo» e «Dylan Dog» (sic!), reduce sessantottino, deve scovare un killer che uccide a rasoiate e sfregia senza un apparente motivo avvenenti fanciulle. La sua tesi è però che «gli assassini non sono mai pazzi, sono lucidi, freddi. Seguono una logica diversa, tutto qui». Per capirli, per prevenirli, bisognerebbe «entrare nei loro sogni». Mentre il sangue e i morti aumentano, Straniero compie la sua indagine con la calma e la bonomia tipiche dei tanti non-poliziotti cui ci ha abituati la narrativa gialla classica, Maigret in testa. Passeggia, mastica, discorre, fa le ore piccole con l’amico giornalista del quotidiano di provincia, interroga testimoni, mastica ancora, scambia due parole con la sua “compagna”, beve caffè, filosofeggia. È il commissario di una cittadina universitaria di un mondo che si avvicina in crisi alla fine del millennio, di un «mondo che va in pezzi» e in cui tutte le ideologie sono morte, soprattutto quelle che si ritenevano libertarie, il che per uno come lui che «ha fatto il Sessantotto» è cosa ben grave. «La realtà è sempre irreale» dice.
Che “il mondo vada in pezzi”, che le apparenze ingannino, che la maschera indossata da tutti copra verità terribili, lo dimostra anche Un delitto normale, che però Straniero considera “strano” in quanto, pure qui, non sembrano esserci dei moventi. Perché una moglie uccide all’improvviso il marito con una fucilata? E per quale motivo lei e i figli non hanno intenzione di parlare, accettando le inevitabili conseguenze del gesto? I lettori capiranno il perché quando Sclavi, ricorrendo come spesso fa alla circolarità della storia, riscrive (e completa) in chiusura la scena con cui si apre Un delitto normale, che contiene una immagine, quella del gorgo, poi ripresa all’inizio e alla fine di Nero.
L’autore non smentisce se stesso: anche in queste due vicende ci sono le Francesche, i mentecatti, gli ospedali, gli sdoppiamenti di personalità, gli incubi. Una sapienza narrativa, quella di Sclavi, che sa far combaciare il fisiologico al patologico, la regola all’eccezione, la normalità all’abnorme, il bianco col nero. Ciò che colpisce di più è proprio la capacità di descrivere oggettivamente l’irrealtà ricorrendo a quello “sguardo chiaro” di cui si diceva. Quando s’intorbida, si vela, si confonde, come avviene in Tre, la partita è perduta. Quando resta tale, allora si hanno racconti come II testimone arcano. Anche qui, come in Mostri, sostanzialmente non accade nulla di eccezionale: è la vicenda di un immigrato, il greco Stavros, che è testimone di un incidente stradale e si ritrova nelle panie di un’indagine. Che può mai succedere in una deserta città in piena estate? Invece, a Stavros ne succedono di tutti i colori, grazie ai consigli di Antonis. Consigli a prima vista di una logica irreprensibile, ma così logici e sinceri da fargli ingarbugliare sempre più la sua posizione. Così come “la realtà è irreale”, non può la logica essere illogica? Intorno a Stavros sembra aggrovigliarsi un insieme di eventi che hanno l’aria di un complotto, come minimo delle circostanze. Sinché, alla fine, si comprenderà che lui, il greco immigrato, non è un “mostro” soltanto perché è attraversato «dal petto all’inguine» da una cicatrice che ha reso la pelle tanto sottile da far vedere l’interno del suo corpo, ma perché è scisso mentalmente, proprio come l’assassino di Un sogno di sangue, al punto da esteriorizzare il proprio alter ego: è quest’ultimo che con la sua logica-illogica lo impania sempre più in situazioni assurde e impossibili, invece di aiutarlo ad uscirne. Tutto contribuisce a dare una sensazione di kafkiana irrealtà, l’angoscia di essere presi in una trappola prodotta dalle circostanze, contro la quale non si riesce a fare nulla, anzi, più si cerca di districarsene e più ci si trova impegolati.
È un po’ quel che si prova, portato qui a estremi ottimali, in Quante volte tornerai, il meglio, a mio giudizio, datoci finora da Tiziano Sclavi. Ma veramente quella di Ravasciò, protagonista di quest’ultimo racconto, è «la spettrale avventura di un impiegato coinvolto in un orrendo complotto aziendale», come recita il risvolto di copertina, o non è invece quest’ultima un’indicazione volutamente fuorviante per dissimulare una verità che è senz’altro peggiore? Lo scrittore trasforma in vera e propria opera narrativa, con una precisa trama, l’idea che sta già in Film: la realtà non è quella che è ma un Grande Inganno, il mondo è un Grande Meccanismo, gli esseri umani non sono quello che sono ma agiscono all’interno di un Grande Trucco. Gli indizi, come una specie di romanzo giallo, sono disseminati un po’ alla volta dall’autore, e spetta al lettore rendersene conto. «Ogni volta che cercava di capire stava male, oppure faceva qualche altra cosa per dimenticare. Mi hanno condizionato, pensò, lavaggio del cervello». Ma perché? “L’invasione dei marziani”? Persone sostituite dai “baccelloni” come nell’Invasione degli ultracorpi (romanzo e film)? No, troppo semplice. L’idea di Sclavi è un’altra, un po’ quella di Matheson in Regola per sopravvivere e di Young in L’ultimo eroe, ma moltiplicata per mille, per un milione: il che naturalmente nulla toglie alla sua personale e originale rielaborazione e al senso di angoscia che dalla narrazione promana. Angoscia che non trova assolutamente una catarsi nella spiegazione finale di tutti gli enigmi. Se inizialmente essa prende la forma del “complesso dell’assedio”, della “sindrome del complotto”, sostenuta da tutta una serie di fatti misteriosi, alla conclusione resta la visione totalmente pessimistica dell’autore: perché mai la Terra dovrebbe sparare nello spazio un suo esemplare, come fosse un «monumento», un «milite ignoto», adatto per «rappresentarla», senza neppure destinarlo ad un «pianeta abitabile» e quindi «sterilizzandolo»?
È un nonsenso: l’uomo, Ravasciò, si trova solo in un’astronave semisferica di quarantadue chilometri di diametro nello spazio con destinazione il Nulla da venticinque milioni di anni. Unica occupazione: il gioco, appunto una «regola per sopravvivere», un tentativo di essere «l’ultimo eroe» di avventure sempre diverse scritte da lui stesso e realizzate dai cinquemila androidi che con lui popolano la nave spaziale. Un «viaggio senza fine» verso il Niente in cui ci s’inventa ogni volta una nuova vita allo scopo di «vincere la noia». Un “viaggio senza fine” in cui solo il protagonista è un essere umano che ha dei sentimenti, circondato da esseri artificiali. Forse è questo il senso ultimo, la metafora che Tiziano Sclavi ha voluto indicare.
La vita è dunque così, ed è un continuo ritorno su se stessa: infatti, anche Quante volte tornerai si chiude con la scena e/o le parole dell’inizio. Una conclusione disperante: la vita – lo si è già fatto notare in apertura a queste note – è come una pellicola in cui noi agiamo sostanzialmente privi del libero arbitrio; al massimo possiamo inventarci un “gioco” per poter sopravvivere, sempre che siamo dotati di sentimenti; un “gioco” che comunque non ci salva l’anima nella nostra rotta verso il Nulla; viviamo in una Twilight Zone, in cui i confini tra Vita e Morte, Realtà e Immaginario, Storia e Mito sono sottilissimi e tutto può accadere.
È un rifarsi questo, però contraffatto e pessimista, alla teoria tradizionale del tempo circolare, in contrapposizione alla teoria del tempo lineare, che procede inarrestabile verso il futuro, affermatasi con l’avvento del cristianesimo. Ma, a differenza del pensiero mitico, che vedeva nel ritorno regolare del tempo su se stesso un fatto positivo, di rinnovamento e rigenerazione, Sclavi lo intende come una camicia di forza imposta all’uomo, all’interno della quale non esiste che angoscia, paura, terrore. Il motivo? È semplice: mentre gli eroi del Mito erano consapevoli di questa ciclicità e la sfruttavano a loro vantaggio, non ne erano tormentati ma la consideravano una norma, ne avevano tratto una filosofia di vita, una morale, i moderni, e tra essi Sclavi ed i suoi personaggi, possiedono una mentalità diversa e quindi non possono pensare in altro modo. Ecco perché il sentimento di nullità e di frustrazione. Non credendo ad un Fato superiore come gli antichi, i moderni (o i post-moderni?) si sentono in balìa di qualcosa che non comprendono, hanno la sensazione di vivere sempre il già vissuto, di essere i protagonisti di uno spettacolo insensato di marionette. E, quel che è peggio, quando alla fine divengono consapevoli del meccanismo in cui sono immessi, non utilizzano questa nuova conoscenza per cercare d’infrangere intellettualmente, psichicamente e spiritualmente la “ruota del destino”, si potrebbe addirittura dire il karma, ma provano scoramento, ritornano al “gioco” per non pensare e agire.
Così tutto, proprio tutto, si risolve in un gorgo, in un vortice, in una “dissolvenza in nero”. L’incipit e la conclusione di Nero propongono queste immagini, ma il tema è sempre presente. Eppure, leggiamo in Un sogno di sangue: «Tra le immagini che si sovrapponevano fondendosi e moltiplicandosi nel caleidoscopio della sua mente, come dentro uno zoom velocissimo si avvicinò a un punto lontano, oltre la regione degli incubi, nel nero della verità». Il nero della verità… Si potrebbe dire, parafrasando un famoso detto: In tenebris veritas. Sì, ma quale? Una verità non-verità? Una verità relativa? Una verità da “zona del crepuscolo”? Tiziano Sclavi questo ancora non ce l’ha detto esplicitamente. Forse non ce lo dirà mai, proprio perché la sua è una verità nera, oscura, tenebrosa, un colore assoluto che assorbe e annulla tutti gli altri. O forse perché non esiste… Neanche il suo “sguardo chiaro” riuscirà ad illuminarla, né la sua oggettività a descriverla. Mai. Altrimenti non sarebbe l’ideatore di Dylan Dog, l’Indagatore dell’Incubo che in trentatré anni e oltre quattrocento avventure ce la descrive sempre più orribile. E, soprattutto, incomprensibile.