1987, Actor’s Playhouse Baires International (attuale Cinema Ducale), piazza Napoli, Milano, 12-31 ottobre. Esterno giorno: oltre mille persone, giovani e meno giovani, in coda per un posto. Comune denominatore: una copia ciascuno di Vivono tra noi, tredicesimo albo del mensile «Dylan Dog», che costituisce il biglietto, il passe-partout per accedere a quel che è dentro. Interno illuminato: di quei mille, solo alcuni riescono a entrare, i posti sono poche centinaia, si deve ricorrere a proiezioni multiple fino a notte fonda. Le fioche luci del cine-teatro si spengono. Ha inizio la decima rassegna cinematografica a cura del Citizen Kane’s Club, ovvero la prima edizione del Dylan Dog Horror Fest, interamente sponsorizzata dalla Sergio Bonelli Editore e organizzata, diretta e condotta da Stefano Marzorati. È un primo amore e, come tutti i primi amori, è destinato a imperitura memoria, nonostante quanto detto da Francesco Dellamorte nel 1983 («Il primo amore non conta niente. Quello che conta è l’ultimo»), che i lettori scopriranno però solo nel 1991(1). Nel 1987 il primo amore è ancora quello buono e porta in dote qualcosa a tutti: alla casa editrice milanese permette di organizzare il primo vero festival e «dare un volto ai lettori»(2) di un fumetto ancora distante dal proprio zenit editoriale (ma già di culto e di buona diffusione sul territorio nazionale), ai suddetti lettori consente di accedere gratuitamente a una rassegna cine-horror di ben tre settimane e alle istituzioni meneghine di annoverare un mega-evento nella propria città, senza sostanzialmente aver mosso un dito. Il primo amore ha come cerimoniere d’eccezione Dario Argento, graditissimo ospite a sorpresa giunto per presentare al caldo pubblico il documentario Dario Argento’s World of Horror, diretto da Michele Soavi nel 1985. Soavi, quel Soavi, nome e nume tutelare per ciò che è il Fest nel 1987 (oltre al citato doc, in calendario c’è il suo debutto, Deliria, 1987, proiettato nella versione integrale inglese), per ciò che il Fest sarà negli anni a venire e per ciò che il Fest lascerà come eredità imperitura. Segnatevi il suo nome a margine, ci torneremo.
Il programma è fitto, con double bills quasi tutte le sere e offerta di genere che spazia dai confini patri (Zombi 2, 1979; Paura nella città dei morti viventi, 1980; …e tu vivrai nel terrore! L’aldilà, 1981; Aenigma, 1987, tutti di Lucio Fulci) ai maestri d’Oltreoceano (Tobe Hooper, Wes Craven, David Cronenberg, George A. Romero); dai già classici del brivido (La notte dei morti viventi di Romero, 1968; La cosa di John Carpenter, 1982) alle anteprime destinate agli assatanati dello splatter (Basket Case di Frank Henenlotter, 1982; Soli nel buio di Jack Sholder, 1982). C’è anche una sezione molto speciale, chiamata “La scelta di Dylan Dog” e composta da cinque titoli: Re-Animator di Stuart Gordon (1985), L’ululato di Joe Dante (1981), La casa dalle finestre che ridono di Pupi Avati (1976), l’australiano Razorback. Oltre l’urlo del demonio di Russell Mulcahy (1984) e A Venezia… un dicembre rosso shocking di Nicolas Roeg (1973). Dylan Dog sceglie, dunque, (di)mostrando una passione sconsiderata per la Settima arte dell’orrore. Passione che, in quei primi tredici numeri, non gli ha certo fatto difetto, riflettendosi in omaggi iconografici (basti pensare a copertina, titolo e sequenze chiave del primo albo, L’alba dei morti viventi, ispirato a Zombi – in originale, Dawn of the Dead – di Romero, 1978), in personaggi ispirati a characters di culto (dall’assistente sosia di Groucho Marx al Robert Morley dell’ispettore Bloch, dal Lord H. G. Wells disegnato sulle fattezze di David Niven al rabbino “Woody” Allen che appare nel n. 8, Il ritorno del mostro), in ispirazioni drammaturgiche (su tutte, quella che Morti e sepolti di Gary Sherman, 1981, esercita sul n. 7, La zona del crepuscolo e che Terminator di James Cameron, 1984, imprime al n. 12, Killer!) e in un diffuso bric-à-brac ornamentale che correda gli interni di Craven Road 7, nei cui corridoi hanno la meglio statue dei mostri Universal e sulla cui parete centrale trionfa il manifesto di The Rocky Horror Picture Show di Jim Sharman (1975).
Inevitabile, quindi, che la mania di Dylan traci(ne)mi dalle tavole allo schermo, dando vita a un evento che nessun altro fumetto, in Italia, può permettersi. Nemmeno il ben più venduto «Tex Willer», protagonista nel 1988 di un Tex Willer Fest dove Marzorati e Bonelli tentano di virare la formula su pistole e cavalli, con scarso successo (circa duecento spettatori a sera). «Dylan Dog» è già di per sé un evento, pronto a deflagrare su base esponenziale.
1990, Cinema Gloria, Corso Vercelli, Milano, 7-17 maggio. Esterno giorno: almeno duemila persone con in mano copie dell’albo n. 44, Riflessi di morte. Interno illuminato: i 1.550 posti disponibili sono sold out, una folla colorata e festante espone vessilli del proprio (anti)eroe disegnato in forma di t-shirts, bandane, spille e toppe. Il foyer è impreziosito da una scenografia creata ad hoc da Sergio Stivaletti – già truccatore visionario di Phenomena di Argento (1985) e Dèmoni di Lamberto Bava (1985) –, che per l’occasione recluta dalla sua “factory” una sorta di sosia abbigliato a immagine e somiglianza dell’Indagatore dell’Incubo. «Dylan Dog» è diventato un caso editoriale senza precedenti, vende centinaia di migliaia di copie ogni mese e si appresta a vivere la sua stagione aurea nelle due annate successive(3). Bonelli e Marzorati, dopo tre anni trascorsi a studiare la miglior formula possibile per adattare la kermesse al nuovo boom e soddisfare tutti i lettori cinefili, optano per uno spazio decisamente più grande e una benefica contrazione della durata, che da quasi tre settimane scende a dieci giorni. Ancora non basta, per contenere la marea umana assetata di vignette e fotogrammi, ma il salto in avanti è tangibile. Anche perché, nel frattempo, Dylan è stato (solo parzialmente) coinvolto nelle interrogazioni parlamentari a carattere censorio nei confronti del fumetto horror italiano, e questo ha, se possibile, acuito maggiormente l’affezione dei fan alla creatura concepita da Tiziano Sclavi. Nel 1990, inoltre, la circolazione dei film in home video (formato vhs) è cresciuta esponenzialmente, alimentando la ricerca e il reperimento – nonché il fascino – di film fino a quel momento introvabili. Il momento è propizio, insomma, e il Dylan Dog Horror Fest 2 è un tour de force di chicche per appassionati, che privilegia la novità al classico adattandosi bene ai suddetti mutati standard di reperimento dei titoli più vintage. Il budget è cresciuto molto, Bonelli non bada a spese in virtù della sua rinomata passione per l’horror e della sua filantropica visione dell’imprenditoria, ma le istituzioni tacciono nuovamente. La politica italiana è terrorizzata dal successo di un fumetto dai contenuti (moderatamente) splatter, per cui, più che incentivare l’evento e contribuire alla sua riuscita, rema contro, imbeccando una stampa impegnata a diffamare gli horror fan (e il loro Dylan) a colpi di opinabili e polverose teorie secondo le quali la violenza finzionale indurrebbe un corrispettivo di violenza reale nei fruitori.
Dentro e fuori il Cinema Gloria, però, c’è solo una moltitudine entusiasta al cospetto dei suoi idoli di celluloide. Torna Dario Argento, appare “Herbert West” Jeffrey Combs, irrompe il visionario Clive Barker, trionfa “Freddy Krueger” Robert Englund, che presenta alla marea umana la prima italiana di Nightmare 5. Il mito (1989). Il Fest, oltre a essere un meeting generazionale sociologicamente rilevante e un grande “termometro pop” in forma di convention – connotata da quanto di più pop possa esserci, ovvero cinema e fumetto –, diventa qualcosa di importante a livello nazionale, una vetrina per titoli inediti in cerca di distributore: La fattoria maledetta di David Keith (1987) esce in vhs, Incubo in corsia di Brett Leonard (1989) ottiene una ribalta nelle sale. «Dylan Dog» è ormai un sigillo di garanzia da apporre a pellicole horror, una patente rilasciata dal personaggio che più di ogni altro incarna la forza eversiva, iconoclasta, teorica e a tratti anarchica di questo genere cinematografico. Dylan conosce e ama la Settima arte («Pizza e cinema?»)(4), ormai è certo, e tra la prima e la seconda edizione del Fest inanella pubblicazioni con anima cinefila. Su tutte il n. 14, Fra la vita e la morte, intriso a tal punto di Coma profondo di Michael Crichton (1978) da citarne apertamente un fotogramma in una vignetta; il n. 15, Canale 666, cortocircuito cinefumettistico d’autore tra Videodrome di David Cronenberg (1983) ed Essi vivono di John Carpenter (1988), all’insegna dei poteri coercitivi dei media; il n. 22, Il tunnel dell’orrore, omonimo del film di Tobe Hooper (1981), abitato dai mostri Universal e da un villain chiamato Clint Callaghan; il n. 26, Dopo mezzanotte, con citazioni esplicite da Fuori orario di Martin Scorsese (1988); il n. 27, Ti ho visto morire, tra lo Stephen King e il Cronenberg de La zona morta (1983); l’elenco potrebbe continuare a lungo, tra nuovi personaggi “ammiccanti” (La Kim / Kim Novak del n. 18, Cagliostro), ispirazioni narrative (Blob. Fluido mortale, 1958, sotteso al n. 20, Dal profondo), deformazioni grottesche (il lagomorfo di Chi ha incastrato Roger Rabbit, 1988, finisce dritto dritto nel n. 24, I conigli rosa uccidono) e semplici atti d’amore (l’apertura del n. 37, Il sogno della tigre, omaggia Arancia meccanica di Stanley Kubrick, 1971).
Il rapporto tra «Dylan Dog» e il cinema funziona molto bene sul versante import, dunque, ma su quello export tutto tace. Nessuno si è mai cimentato nell’ardua impresa di un adattamento per lo schermo, a dimostrazione della complessità del fenomeno-Dylan (e della conclamata ritrosia bonelliana nella concessione dei diritti di sfruttamento dei suoi personaggi).
E qui entra in gioco Michele Soavi, quel Soavi, nuovamente. Ma facciamo un piccolo passo indietro. Il matrimonio tra l’Indagatore dell’Incubo e l’horror cinematografico è sancito ufficialmente da una pubblicazione a prima vista marginale, eppure di sostanziale importanza. Trattasi de L’enciclopedia della Paura. Il cinema horror dall’A alla Zeta, volumetto scritto dagli sceneggiatori Medda-Serra-Vigna, dato alle stampe nel luglio 1989 e contenente un inventario dei principali topoi orrorifici cinematografici. Come sottolineato da Tiziano Sclavi in apertura, è una visione “parziale” dei gusti dylaniati: «Mi auguro che siate anche voi del mio parere, magari non condividendo, come è successo a me, alcune posizioni di MS&V (tipo il giudizio positivo su Hellraiser o quello parzialmente negativo su La mosca). Ma tant’è: ogni testa una sentenza». Eppure, al tempo stesso, è la decisa attestazione di una passione. Ma il valore del fascicoletto è anche un altro, riconoscibile ex post, e consiste nell’essere allegato all’albo speciale n. 3, Orrore nero. In esso appare per la prima volta Francesco Dellamorte, guardiano di cimiteri sui generis e alter-ego dell’inquilino di Craven Road. Le porte del versante export si schiudono. E rieccoci a Soavi.
1992, Palatrussardi, zona Lampugnano, Milano, 23-30 maggio. Esterno giorno: circa diecimila persone vestono a festa, impugnando il n. 68, Lo spettro del buio, come chiave d’accesso alla ciclopica struttura fissa. Interno illuminato: gli ottomila posti a sedere sono occupati, c’è gente in piedi, tutto si svolge nel più sano pacifismo, a dispetto di quanto profetizzato da giornali e istituzioni, in servizio permanente di terrorismo psicologico nei confronti di tutto quanto abbia a che fare con l’impatto di manifestazioni a tema horror sui giovani. La coreografia antistante e sovrastante il palco è imponente: Stivaletti ha fatto le cose in grande, pare di assistere a un concerto d’ipotetici gemelli metal dei Pink Floyd. Bonelli investe più o meno l’equivalente di un milione di euro odierni, il direttore artistico Marzorati è sfinito ancor prima di cominciare. In edicola «Dylan Dog» è a un solo mese dal suddetto record di vendite – ne siamo certi, stabilito proprio con il n. 69, in virtù dell’effetto-Fest – e si impone come riferimento culturale, oltre che come icona pop. Dylan Dog Horror Fest 3 rilancia di conseguenza, diventando un appuntamento ambito anche e soprattutto dalle star italiane e internazionali. «Il piacere è tutto loro», di fronte a quelle migliaia di appassionati che assistono alle proiezioni e agli incontri con goliardia e spirito, cinefilia e gioia. Se le edizioni del 1987 e 1990 erano state il primo amore e il matrimonio, questo è certamente il viaggio di nozze tra Dylan e il cinema. La compagnia è assortita: sul palco sfilano e si raccontano, introdotti da Enter Sandman dei Metallica, pesi massimi come Wes Craven – che presenta il suo ultimo lavoro, La casa nera (1991) –, Bruce Campbell, Lance Henriksen, l’affezionato Robert Englund, Bryan Yuzna e Frank Henenlotter, birra in mano e parole accese per introdurre il neonato Basket Case 3: The Progeny (1992). Sullo schermo, tra gli altri, scorrono i fotogrammi (ancora) inediti di The Resurrected di Dan O’Bannon (1990), L’ambulanza di Larry Cohen (1990), Hellraiser III di Anthony Hickox (1992) e Hiruko the Goblin di Shinya Tsukamoto (1991).
A un certo punto, però, accade qualcosa d’immenso. Le luci si spengono, lasciando che una nebbia rossastra fuoriesca dalla porticina sovrastante il palco allestita da Stivaletti, per avvolgere l’ospite del momento. Run of the Deadh Motorbike risuona nel ventre del Palatrussardi. E appare Dylan. O, meglio, colui sul quale Dylan è stato concepito, a primigenia attestazione di quel cordone ombelicale che lo unisce alla Settima arte. «Signore e signori: Rupert Everett»: scende le scale, approdando sul proscenio in un tripudio che trasforma il fumetto in realtà, e la realtà in fumetto, e realtà e fumetto in cinema. Fonte d’ispirazione per Sclavi dopo essere stato visto su schermo in Another Country. La scelta (1984), con la sua sola presenza Everett chiude il cerchio del Fest, immortalandolo in una frase banale, ma epocale: «Mi piace molto il personaggio di Dylan Dog. È molto positivo». Non solo. Annuncia l’imminente avvio delle riprese di Dellamorte Dellamore, che lo vedrà impersonare proprio il Francesco Dellamorte di Orrore nero e dell’omonimo romanzo di Sclavi, da pochi mesi finalmente in libreria. Ecco l’export, e a ufficializzarlo non poteva essere che il Fest. Ed ecco Soavi, anche lui al Palatrussardi a confermare che, sì, la regia di Dellamorte Dellamore sarà cosa sua.
Più che il versante import, come sempre ricco di spunti e riferimenti anche dal 1990 al 1992 (citiamo almeno il n. 66, Partita con la morte, rivisitazione nientemeno che de Il settimo sigillo di Ingmar Bergman, 1957), a interessare la riflessione sull’asse cinema-DD è ora quello opposto.
Dellamorte Dellamore (1994), in verità, non sarà il primo esperimento filmico che guarda esplicitamente all’antieroe bonelliano. Il capofila è da considerarsi Nero., diretto proprio nel 1992 da Giancarlo Soldi su “spartito” letterario di Sclavi, dopo che il primo aveva ripetutamente tentato la via di un adattamento dylaniato ufficiale. All’apparenza la storia di Nero. non ha quasi nulla a che vedere con quelle dell’Indagatore dell’Incubo, ma le atmosfere citazioniste e allucinate, grottesche e surreali, richiamano a più riprese quelle del fumetto tanto amato dal regista (che a Sclavi e alla sua creatura dedicherà nel 2015 il documentario Nessuno siamo perfetti). Nella messa in scena, inoltre, Dylan Dog trova posto nei continui riferimenti espressi mediante tavole appese alle pareti, un autobus targato 666 e stringhe rosse alle scarpe del protagonista.
Ciò detto, però, Dellamorte Dellamore è la prima opera cinematografica dylandoghiana di senso compiuto, a partire dal lettering del titolo di testa con le “A” goticamente protese verso l’alto. Lo è per paradosso – come da consuetudine dylaniata –, dato che l’Inquilino di Craven Road è assente, sostituito dal citato alter-ego Dellamorte. Però, fin dalla fase di scrittura, la pellicola è profondamente intrisa di componenti e stilemi che, dal romanzo di Sclavi, passano inevitabilmente attraverso Dylan. «Entrai in libreria e c’erano pile e pile di questo libro»(5), afferma la produttrice Tilde Corsi, riferendosi al volume sclaviano recante in copertina l’illustrazione di un Dellamorte pressoché identico a Dylan. Lo sceneggiatore Gianni Romoli rincara la dose, raccontando come lo script sia stato concepito adattando soltanto la prima parte del romanzo di partenza, opportunamente integrata con una costellazione di battute, situazioni e topoi provenienti dall’universo del fumetto bonelliano. Si chiamerà anche Francesco Dellamorte, avrà anche abitato le pagine di Orrore nero, ma per il pubblico è solo e soltanto Dylan Dog, o al massimo la sua anima nera ancora preda di fumo e alcol. Del resto, anch’egli guida un maggiolone bianco, è incompiutamente dedito al modellismo (un teschio in vece del galeone: «Finire questo teschio è una delle cose più difficili del mondo»), verso le donne manifesta un sentimentalismo adolescenziale e intrattiene rapporti equidistanti con il Bene e il Male, tra fitti dialoghi con la Morte e palpitazioni d’amore puro.
La messa in scena di Soavi, pregna di un immaginario metal kitsch e “tamarro” (l’acme è il “ritornante” in moto da cross), offre abbondanti e ironiche dosi di splatter e gore, intreccia con abile arte trash e virtù pittoriche (il bacio velato, a suo tempo disegnato da Giovanni Freghieri in Orrore nero, cita Gli amanti di René Magritte, il Dellamorte che beve al bar guarda a Il bevitore d’assenzio di Édouard Manet) e cita con cognizione capisaldi dell’horror di celluloide: il finale con la strada interrotta, oltre che richiamare l’analogo epilogo di Toby Dammit di Federico Fellini, ribadisce come il resto del mondo – oltre l’universo finzionale del film e, per estensione, del fumetto (e del Fest) – non esista.
Quel che accade in Dellamorte Dellamore resta in Dellamorte Dellamore e finisce con lui. Quel che accade al Dylan Dog Horror Fest è come se, al di fuori del Fest stesso, non avvenisse. Da una parte, il cinema italiano di genere, negli anni Novanta, precipita in una crisi produttiva irreversibile, lasciando al film di Soavi la palma dell’unico adattamento dylaniato degno di nota (faranno eccezione alcuni fan movies del terzo millennio, da Dylan Dog. Il trillo del Diavolo di Roberto D’Antona, 2012, a Vittima degli eventi di Claudio Di Biagio, 2014). Dall’altra, gli enti pubblici si confermano sordi, lasciando Bonelli sempre più solo alla guida di un evento troppo grande anche per lui.
1993, di nuovo Palatrussardi, 30 maggio-5 giugno. È il trionfo e il termine, l’apogeo e la tomba del Dylan Dog Horror Fest. L’alchimia è quella dell’edizione precedente, la distanza di un solo anno non ha fiaccato gli entusiasmi, anzi: mentre in edicola continua il boom, sul palco si consuma «la Woodstock del cinema dell’orrore», come ben sintetizzato dal mitico produttore Charles Band, giunto alla corte di Bonelli per presentare Bloodstone di Ted Nicolau (1993). Stivaletti supera se stesso nelle scenografie, i film presentati sono distinti dall’alto livello qualitativo (Demoniaca di Richard Stanley, 1992; Il ritorno dei morti viventi 3 di Brian Yuzna, 1993; Ticks. Larve di sangue di Tony Randel, 1993; Brain Dead, 1990, e Carnosaur, 1993, di Adam Simon) e gli ospiti, molti dei quali ormai habitué della kermesse, non hanno bisogno di presentazioni: Craven, Soavi, Englund, l’effettista Steve Johnson e il leggendario Tobe Hooper. La Provincia di Milano si accorge dell’evento, ma il suo contributo è sostanzialmente un pro forma. Tutto intorno, il silenzio. E quella strada (non ancora) interrotta segna la fine del Dylan Dog Horror Fest.
Ma il fenomeno cine-dylaniato non termina certamente con l’evento. A livello import, Dylan ha continuato fino a oggi a incorporare e rielaborare suggestioni cinefile, sebbene in modo sempre più artefatto e disomogeneo. Citazioni, omaggi, riferimenti, appropriazioni (in)debite più o meno furbe: l’odierna direzione di Roberto Recchioni frulla celluloide e pixel a ogni (scuro)passo ma, in un certo senso, chiude il cerchio con il n. 401, in edicola mentre scriviamo: Dylan ha per nuovo assistente Gnaghi e sfoggia un inizio di barba, esattamente come accadeva al protagonista di Dellamorte Dellamorte nel finale. Che Dylan e Francesco abbiano finalmente accettato di fondersi in un unico personaggio? Che Soavi avesse ragione fin dall’inizio? Che il cinema abbia ancora una volta avuto la meglio sul fumetto, condizionandone lo “status pop”?
La risposta, probabilmente, non l’avremo mai. E non è certo da cercare Oltreoceano, dove l’unico film ufficiale cui la Sergio Bonelli Editore abbia mai concesso i diritti di sfruttamento del proprio cavallo di razza si è rivelato un fallimentare termometro di quanto l’immaginario dylaniato sia questione esclusivamente italiana. O, quantomeno, europea. Al di là degli abissali demeriti artistici, infatti, Dylan Dog. Il film di Kevin Munroe (2011) non possiede l’anima della creatura sclaviana. Involucro vuoto, pot-pourri di mostri e categorie horror per principianti (ci sono zombi, vampiri, licantropi, demoni…), catalogo di tradimenti imperdonabili (Dylan è un bullo sicuro di sé, possiede un arsenale di armi iper-moderne, a tratti sfiora il super-eroismo) e di stereotipi ridotti a puerili feticci ornamentali (il galeone; il clarinetto; il maggiolone, nero per mancanza di diritti sul bianco; l’assistente, zombi per mancanza di diritti su Groucho; i «Giuda ballerino» e i «Quinto senso e mezzo» sentenziati a casaccio, il latinista Borelli, il vampiro Sclavi!), quello di Munroe è un Dylan finto, post-moderno, patinato e stupidamente ammiccante ai blockbuster del momento. Che sia lo specchio di un personaggio giunto a naturale consunzione e tenuto in vita – su carta – ormai solo dai polmoni artificiali del politicamente corretto?
Anche a questa domanda non abbiamo risposta.
Ma una tesi, in fondo, la si vuole proporre: per quel che Dylan è diventato oggi, l’Horror Fest potrebbe incontrare il beneplacito delle istituzioni e della politica. Di eversivo e “spaventoso”, tra quelle pagine pur dense di intrattenimento, nulla è rimasto.
- Il romanzo di Tiziano Sclavi Dellamorte Dellamore è stato scritto nel 1983 e pubblicato per la prima volta nel 1991, da Camunia.
- Sergio Bonelli, nel documentario Dylan Dog Horror Fest. Una retrospettiva, realizzato da Cinema Bis Communication e inserito tra i contenuti extra del dvd di Dellamorte Dellamore edito da CG Entertainment (collana CineKult).
- Il n. 69, Caccia alle streghe (giugno 1992), segna il (temporaneo) sorpasso sul best seller bonelliano «Tex Willer», sforando il mezzo milione di copie vendute.
- Con questa frase l’Indagatore dell’Incubo è solito proporre serate “standard” alle proprie clienti (spesso amanti).
- Dichiarazioni contenute nel documentario Conversando Dellamore, inserito tra i contenuti extra del già citato dvd di Dellamorte Dellamore.