Nostro fantastico quotidiano. Intervista a Dino Buzzati
Gianfranco de Turris
Acclarato che la “contestazione studentesca” era ormai “una cosa di sinistra”, sia di quella estraparlamentare sia di quella parlamentare (il PCI), che la stava monopolizzando e strumentalizzando, proposi a Piero Capello, direttore de «Il Conciliatore», mensile di Milano collegato a «Il Borghese», una serie di interviste all’ambiente culturale opposto, dato che sin da allora ero convinto che una risposta “da destra” non potesse che essere soprattutto di questo tipo. Cominciai con gli editori per passare poi a giornalisti, scrittori, politologi, filosofi e artisti che, idealmente e culturalmente, si opponevano direttamente o indirettamente alla deriva imperante, al conformismo progressista e pro-sessantottino generale. Presentai insomma una specie di Anti-Sessantotto: trentacinque interviste, dal luglio 1968 al giugno 1972, che forniscono il panorama degli anticonformisti, anzi dei non-conformisti degli anni Settanta, a dimostrazione concreta che c’era anche chi era fuori dal coro, chi non piegava la testa e le idee alla violenza fisica e morale che imperversava e per la quale pas d’ennemi à gauche! La serie s’interruppe alla vigilia degli “anni di piombo”, dopo che l’editore Vanni Scheiwiller fece nella sua intervista una battuta contro Armando Plebe, allora messo da Almirante a capo della cultura missina. Lesa maestà. Non scrissi più sul mensile. Trent’anni dopo tutte quelle interviste e alcune inedite sono state riunite ne I non-conformisti degli anni Settanta, con un’introduzione di Sergio Romano (Ares, Milano 2003), da cui sono tratte le note di quella che qui si ripubblica. Che è a Dino Buzzati, autore per me fondamentale di cui ero lettore accanito, affascinato da quel tipo di fantastico giornaliero che non aveva bisogno di manifestazioni eclatanti per palesarsi. Inquietante e senza sussulti, dimostrava come fosse possibile scrivere storie non realistiche di vita quotidiana. E questo anche attraverso i suoi disegni fantastici, spesso ai limiti dell’horror, come in Poema a fumetti, che molti avevano criticato, mentre io lo avevo recensito assai positivamente. Oggi la si chiamerebbe, la sua, cultura pop… Mi attirava questa atmosfera reale/irreale, ma anche la caratteristica evidente che non fosse per nulla un uomo di sinistra, come stavano a dimostrare la tematica della sua narrativa ed i suoi scritti giornalistici: non era schierato con i contestatori, che anzi criticava; si teneva lontano, nonostante la sua importanza nella cultura italiana, da salotti, conventicole e lobby sinistre. Lo andai a trovare un giorno dell’autunno del 1970, una giornata soleggiata, munito di un registratore che oggi sembrerebbe antidiluviano. Gentilissimo, aveva accettato senza problemi la proposta di un’intervista per una rivista ben qualificata politicamente, anche se a distanza di quasi cinquant’anni non ricordo più attraverso chi e come entrai in contatto con lui. Mi accolse in un ampio salone-soggiorno le cui finestre davano sui giardini pubblici e dalle pareti ricoperte di quadri di pittori surrealisti e fantastici. Mi colpirono le sagome in legno moltiplicate di Mario Ceroli. Era, fisicamente e psicologicamente, come me lo ero immaginato, tra l’ingenuo e lo svagato, ma allo stesso tempo pignolo e pratico. Occhi chiari e limpidi. Incontrare di persona l’autore del Deserto dei Tartari, dei Sessanta racconti, del Grande ritratto e Da un momento all’altro, di tante storie che mi avevano colto e influenzato in alcune cose che avevo scritto, mi fece un enorme effetto. L’intervista uscì su «Il Conciliatore» nel dicembre 1970; Buzzati morì poco più di un anno dopo di tumore, nel gennaio 1972, ad appena sessantacinque anni; moltissimo avrebbe avuto ancora da dire… Per la petite histoire e come segno dei tempi, ricordo che vent’anni fa scrissi suppergiù queste stesse cose quando «Studi Buzzatiani», il cahier annuale del Centro Studi Buzzati, benemerito per la raccolta di materiali e testimonianze sullo scrittore, mi chiese di ripubblicare questa intervista, dato che era praticamente introvabile. Lusingato, la presentai così, ma una volta ricevuto il volume del 1998 mi accorsi che l’introduzione era stata eliminata. Mah! Paura della verità? Timore di presentare lo scrittore con questo volto? Lui, gentiluomo d’altri tempi e di spirito “militare”, una simile ipocrisia non l’avrebbe mai accettata…
G.d.T.
Sono quasi quarant’anni che lei racconta storie fantastiche, definite, in risposta a Claudio Quarantotto del «Roma»(1), come più congeniali al suo spirito di quelle fantascientifiche. Qual è il motivo di una simile scelta e che cosa l’indusse, d’altra parte, a tentare un solitario exploit realistico come il romanzo Un amore?
Penso che molto dipenda dalle esperienze infantili. La mia famiglia, i luoghi dove ho vissuto, tante altre cose, ma soprattutto i ricordi di quando ero piccolo. I più forti sono quelli d’estate, quando da Milano si andava a Belluno, dove sono nato, per le vacanze. Belluno, in fondo, è una terra abbastanza nordica: e le montagne hanno esercitato su di me un influsso straordinario. Tanto è vero che ancora oggi sogno tutte le notti di andare in montagna, magari in qualche modo strano e sbilenco e inappagante, però di andarci… Naturalmente hanno contribuito anche l’educazione, le letture: c’era in casa una signorina tedesca che raccontava sempre fiabe del Nord poco note in Italia. E poi Hoffmann, Poe…
Insomma, un’innata sensibilità infantile accoppiata a una particolare educazione nell’età della formazione?
Senza contare certi incontri. Per esempio, uno che ha avuto una grandissima influenza su di me è stato Arthur Rackham, disegnatore meraviglioso che dovrà avere, secondo me, una rivalutazione quanto prima: Alice nel paese delle meraviglie, Rip Van Winkle, Sogno di una notte di mezza estate…(2)
E l’exploit realistico di Un amore? Insisto sulla domanda perché m’interessa in modo particolare.
Io non avevo nessuna intenzione di fare del realismo. Ho sentito il bisogno di raccontare questa storia che, ovviamente, è nata da una serie di esperienze personali, e l’ho raccontata, così, semplicemente…
Molto spesso alcune sue storie sembrano avere un secondo fine. Mi spiego: nel Poema a fumetti, ad esempio, si vede un mondo, quello dell’Aldilà, in cui tutto è monotonia, eguaglianza, noia, massificazione. Da diverso tempo lei condanna ciò anche nei suoi racconti, negli elzeviri del «Corriere» e così via. Vorremmo una conferma a questa nostra interpretazione, e sapere inoltre se la storia non realistica, cioè la storia fantastica, si presti meglio a esporre queste sue tesi contro l’appiattimento e la massificazione dell’uomo medio.
Se una storia fantastica si presta di più? Certo, si presta a rendere più intenso un concetto, no? Portando un’idea all’assurdo, per esempio, ho scritto due racconti: Il cacciatore di vecchie e La caccia al motociclista(3). In termini fantastici, proprio tendendo al massimo il paradosso, il concetto risalta di più, mi sembra. Quindi, penso che lei abbia ragione.
Vorrei sapere, ora, che cosa pensa del rinnovato interesse dei lettori e anche degli scrittori nei confronti della narrativa fantastica.
Premesso che negli ultimi anni non ho seguito attentamente la produzione italiana, mentre prima ero nelle giurie del “Viareggio” e del “Campiello” e quindi dovevo esserne abbastanza al corrente; premesso ciò, devo dire che a me pare che il principale filone italiano sia ancora quello del realismo.
Non le sembra, quindi, che ci sia stato un simile mutamento di gusto?
No, non mi pare. Del resto io, come scrittore fantastico, quale di solito sono considerato, e non me ne rammarico peraltro, sono sempre rimasto un po’ fuori dal giro, in quanto tutta la produzione italiana del dopoguerra è sempre stata inserita nella corrente del realismo.
Vorrei fare un attimo marcia indietro e ritornare su un argomento accennato. E cioè: qual è il motivo del suo allontanamento dalle giurie di due dei principali premi italiani? Se n’è parlato molto.
Per un motivo esclusivamente di onestà: non ero in grado di leggere tutti i libri, e per fare il giudice seriamente bisognava leggerli. Non c’è stata da parte mia alcuna polemica, né ho mai avvertito, sarò scemo, tutti quegli intrallazzi di cui si è parlato.
Può specificare?
Sì, tutte queste pressioni degli editori, per esempio… Il tale che è un mio amico e dice: «Senti, se tu appoggi questi libri…». Per carità, sono cose che non mi sono mai capitate.
Qual è il suo parere su quegli scrittori che si autodefiniscono “impegnati”? Politicamente, s’intende…
Padronissimi di essere “impegnati”. Ma ritenere che oggi un artista debba necessariamente essere impegnato politicamente, per me, è un’idiozia. Lo scopo di un artista è per prima cosa la poesia, e la si può raggiungere tanto con libri come Il primo cerchio o Buio a mezzogiorno(4), quanto con opere in cui la politica, i contrasti ideologici o cose del genere non sono neppure sfiorate.
Se ho ben capito, a giudizio di Buzzati si può essere “poeti”, e quindi veri scrittori, con opere sia “politiche” sia puramente fantastiche e “disimpegnate”.
Esattamente. A meno che per “impegno” non si intenda l’onestà artistica…
Una volta lei ha detto di ritenere Il grande ritratto una specie di errore dal punto di vista narrativo, come esperimento fantascientifico. Vorrei sapere in che senso.
No, non un errore, perché può darsi che si tratti di un libro abbastanza riuscito. Nella vita di chiunque, sia un letterato, sia un musicista, sia un architetto, ci sono cose che vengono fuori dal profondo di noi stessi, che veramente rappresentano noi stessi, mentre ce ne sono altre che si fanno, come dire?, che si fanno per mestiere. Nel caso del Grande ritratto mi è piaciuta l’idea, l’idea che mi è nata dalla frequentazione di Silvio Ceccato(5), e dall’aver fatto degli articoli sui suoi tentativi di traduzione meccanica, molto interessanti dal punto di vista cibernetico, diversi dalle traduzioni realizzate, per esempio, in America, in Russia e in Inghilterra. A sentire Ceccato già adesso, potendo disporre di somme senza limiti, sarebbe possibile costruire una macchina che reagisca veramente come un uomo. Si capisce che non potrà avere i peli! E allora mi è venuto in mente Il grande ritratto, originariamente pubblicato a puntate su «Oggi»: in questa storia mi sono divertito a costruire una narrazione basata appunto su quei presupposti. Mi sono divertito, devo dire, ma non si è trattato certo di una di quelle cose che derivano da un sentimento profondo…
Forse ho capito o interpretato male, ma una volta lei non disse forse di aver rinnegato quest’opera?
No. Rinnegato, no.
La fantascienza, la quale è tutt’altro che “morta”, come alcuni dicono(6), mi può dire se ha portato elementi nuovi alla sua tematica, oppure preferisce sempre rimanere nelle strutture di un fantastico più “classico”?
Come faccio a dirlo? Un’idea, non è che io la fabbrichi. Mi viene. Se un domani mi dovesse venire un’idea di genere fantascientifico, perché non la dovrei realizzare? In conclusione, non è che io abbia pregiudizi di sorta, per una possibile ispirazione meno “classica”, come dice lei.
Vorrei passare, adesso, alla sua pittura, ai suoi disegni. Una domanda che forse le è già stata fatta da altri: come mai nella sua narrativa fantastica (Un amore escluso, dunque) l’eros è praticamente assente, mentre balza sempre in primo piano nell’opera grafica?
Probabilmente il motivo è questo: che cosa cerca di fare un pittore? Cerca di dipingere la cosa più gradevole a vedersi, la cui presenza gli dà la massima soddisfazione. E cos’è che un uomo desidera vedere massimamente – intendo un uomo normale, sano? Desidera vedere una bella e giovane donna nuda. Inutile negarlo. Dunque… Se poi lei mi domanda perché nelle mie opere in genere, a parte Un amore, l’eros c’entri poco, io non glielo saprei proprio dire…
Senta, a proposito del suo Poema a fumetti: non le sembra abbia avuto strane vicissitudini?
Molti l’hanno ignorato del tutto. Alcuni critici letterari hanno detto: «Non è di mia competenza». A loro volta, certi critici d’arte di sono rifiutati di esaminarlo con la scusa opposta.
Appunto. Da una parte il libro è stato “contestato” perché era di disegni. Dall’altra perché non era solo di disegni.
Sì, certo.
Ma lei pensa che l’erotismo abbia influito su queste valutazioni?
No, in fondo di erotismo in Poema a fumetti ce n’è poco: qualche donnina nuda, niente di straordinario, direi…
Quindi? Forse la tecnica con cui è stato impostato?
Forse è dipeso dal genere del libro in sé e per sé. Il fatto è che una cosa nuova in fondo disturba, no?
E come considera il fatto che gli sia stato assegnato il premio come “miglior fumetto dell’anno”?(7)
Be’, devo dire che la cosa mi ha fatto molto piacere.
Ciò ha dato parecchio fastidio ad alcuni che di fumetti s’interessano per professione…
Si capisce… Perché riconoscono che “tecnicamente” il mio libro non rispetta l’ortodossia dei fumetti. Per esempio, le storie a fumetti non dovrebbero avere le didascalie sotto, credo…
Un momento, a parte il fatto che esistono famosi fumetti con didascalie e senza balloons, come il Valiant di Foster, la questione è un’altra. Un critico letterario che s’interessa d’arte, per esempio, ha affermato che il libro non è fumetto, mancando di velocità e suspense – tutte caratteristiche, a suo giudizio, del vero fumetto. Io ritengo non sia vero. Il Poema è un fumetto. E per un paio di fondamentali motivi: esiste un’intima corrispondenza tra testo e disegno, inscindibile; ed esiste quella classica iterazione che ci fa distinguere un disegno o una vignetta qualsiasi da un fumetto vero e proprio.
Come, l’iterazione? Dove, per esempio?
L’iterazione dei personaggi, prima di tutto. Poi, le situazioni. Inoltre, il fatto che le pagine disegnate siano da mettere una accanto all’altra e siano una conseguente all’altra, per formare una vicenda compiuta. Siamo di fronte non a un quadro diviso in quattro od otto scomparti, ma a una serie di tavole che si concatenano tra di loro.
È giusto.
Senta, crede che l’aver adoperato la parola “fumetto”, invece di “poema ad immagini”, “poema a disegni”, eccetera, possa aver influenzato un poco le valutazioni dei suoi suscettibilissimi critici?
Può darsi. Però, in genere, vere e proprie stroncature non ne ho avute.
Stroncature classiche, direi di no. Ma il fatto è che, come ho accennato, ognuno si è risentito dell’invasione di questo libro ora nel campo letterario ora in quello fumettistico, in quanto è stato considerato da una parte non del tutto fumetto, dall’altra non del tutto letteratura. Anzi, si è giunti a dire che non può esservi connessione tra letteratura e immagine, il che non mi pare esatto…(8)
È chiaro.
Insomma, ci sono stati i futuristi con le tavole parolibere, Apollinaire con i calligrammi, solo per fare i primi esempi che mi vengono in mente… Sono esistiti tentativi anteriori, naturalmente diversi da quelli di Buzzati, in quanto l’ideologia artistica era un’altra, e quindi non è neppure una completa novità. Certo, non è letteratura pura…
Penso che si possa fare anche un esempio opposto a quelli citati da lei: un Gustavo Dorè, cioè un illustratore puro, è stato importantissimo nel campo letterario.
Vedo che siamo sostanzialmente d’accordo. La devo ringraziare per avermi concesso questo colloquio. Prima di concludere, però, vorrei rivolgerle un’ultima domanda…
Prego.
Quali sono i suoi progetti futuri nel settore della narrativa?
In effetti, ho un libro in programma. L’ho anche già incominciato, ma è un lavoro molto lungo e difficile.
È una raccolta di racconti?
No, no. Potrei anche farne una, ma non so se Mondadori ne abbia voglia. Io, però, l’idea di uscire ogni anno, ogni due anni, a scadenza fissa, con un libro, non la concepisco proprio…
Mancanza di tempo, oppure…
Chi lo sa. Mancanza, forse, di energie mentali. Sa, a un certo momento… Vede, a proposito della pittura c’è un motivo perché io in questi anni mi ci sono dedicato di più, un motivo credo proprio di carattere fisiologico. Vale a dire: in un articolo sulla biografia di Hemingway, Montanelli ha scritto che dopo i quarant’anni questi è declinato, in fondo non ha detto più niente di nuovo, e questo è fatale in tutti gli scrittori. Ora, quarant’anni è forse molto esagerato… Però, se si guarda la vita degli scrittori, c’è una fatale parabola: è inutile illudersi. Uno a sessant’anni – io ne ho compiuti sessantaquattro – può sempre fare una cosa in gamba, ma è estremamente improbabile che possa fare meglio di quanto ha fatto sino allora. Anzi, di regola, la qualità cala. Cioè, ogni scrittore, quando è arrivato a cinquantacinque anni, quello che doveva dire l’ha detto. In pittura, invece, no: è un’arte che, come storia e statistica c’insegnano, consente di rinnovarsi anche in tarda età. Ora, vorrei dire: d’accordo che io come scrittore ho avuto la fortuna di essere apprezzato, mentre come pittore vengo considerato più che altro una curiosità, comunque, nel dipingere, mi illudo di avere ancora parecchie cose da dire.
Per concludere – definitivamente, questa volta! – vorrei chiederle: quali sono a suo giudizio i veri ispiratori della sua pittura in generale?
I veri ispiratori? Non lo posso sapere! Da che parte mi arrivino le idee non sono mai riuscito a capirlo. Comunque, si tratta delle stesse identiche origini di quelle dei miei scritti(9).
Note
- Cfr. Pittura fantastica. Dino Buzzati parla del suo “poema”, in «Roma», 11 dicembre 1969.
- Una raccolta d’illustrazioni di Rackham è stata pubblicata nella collezione “Fiabesca” di Stampa Alternativa.
- Cacciatori di vecchi (questo il titolo esatto) venne pubblicato sul «Corriere della Sera» (10 aprile 1962), poi ne Il Colombre (Mondadori, Milano 1966) e infine in Opere scelte (Mondadori, Milano 1998).
- Rispettivamente di Alexandr Solgenitsin e Arthur Koestler.
- Silvio Ceccato è stato uno dei pionieri della cibernetica in Italia e autore di vari libri divulgativi.
- La polemica nacque dopo lo sbarco sulla Luna nel 1969.
- Al salone dei Comics di Lucca di quell’anno.
- Tutta la vicenda del Poema, dalla fase preparatoria ai retroscena, dalle polemiche alle interpretazioni critiche, con un’antologia delle recensioni, è raccolta in Buzzati 1969: il laboratorio di “poema a fumetti”, a cura di Mariateresa Ferrari, Mazzotta, Milano 2002.
- Due cose mi vengono in mente. La prima è che lo stato d’animo dello scrittore rispetto alla sua opera letteraria derivava dalla sensazione di stare arrivando al termine della sua parabola terrena. E la seconda è che non mi pare – forse sbaglio – che il lungo e complicato testo cui Buzzati diceva di star lavorando, chiaramente un romanzo, sia mai stato identificato e, pur se abbozzato, mai pubblicato. Ma forse, ripeto, mi sbaglio, e quei frammenti sono in realtà in qualche libro postumo che non conosco [Postilla del 2018].