
In un tempo molto lontano, un uomo viveva nei pressi di un faro. O, per meglio dire, viveva nel faro, poiché ne era il guardiano. Un’alta torre, un totem volto all’orizzonte che, ogni tanto, con una scia luminosa suggeriva alle navi che non era il caso di schiantarsi sugli scogli. L’uomo di cui sopra, un vecchio dalla barba grigia (come potrebbe essere altrimenti?), viveva tutto solo. Non gli serviva una moglie, non gli servivano dei figli. Bastava a se stesso: era, in realtà, un uomo egoista e indifferente. Nondimeno, aveva molti ammiratori. O, meglio, seguaci. I visitatori che venivano a trovarlo al faro, però, se ne andavano perlopiù spazientiti e amareggiati, perché egli era solito trattarli con freddezza, con atteggiamento distaccato. Glaciale. Poteva però capitare che gli stessi seguaci tornassero, consapevoli di aver bisogno dei consigli del vecchio, della sua fisica presenza: egli era infatti una sorta di saggio, un uomo necessario agli altri. Alcuni sostengono fosse chiamato oracolo del faro. Un’esagerazione, una leggenda, certo. Ma forse nemmeno poi così grossolana. Non roba da creduloni.
Egli era stato, in un tempo indefinibilmente remoto, un marinaio. Per l’esattezza, un marinaio impiegato sulle navi mercantili. Di fatto lavorava su un mezzo che faceva la spola tra il Mare del Nord e le acque del Sud-est asiatico. Viaggi lunghi, quelli: diceva di averne viste di tutti i colori. E sicuramente era così. Forse anche per questo motivo, che aggiungeva fascino a quella figura già mitologica, dal vecchio guardiano del faro andavano in tanti.
Soprattutto per farsi raccontare una storia (a volte sembrava che le lancette stesse dell’orologio si fermassero ad ascoltarlo), ma non solo. Alcuni, semplicemente, si recavano dal vecchio signore – Lui, lo chiamavano – per chiedergli consigli su come gestire la propria esistenza. Chi aveva problemi con la moglie, chi con il padre, chi voleva diventare ricco… la gita al faro era una sorta di pellegrinaggio verso una risposta.
Andando da Lui, i visitatori cercavano la fine della loro attesa: volevano cancellare dalla propria testa una domanda che non li faceva dormire, vivere serenamente; nemmeno in viaggi di anni e anni per montagne diverse, colline oscure, sotto cieli freddi e caldi, queste persone riuscivano a comprendere la propria condizione. Alcuni, addirittura, s’inventavano malattie immaginarie, che altro non erano se non un semplice modo di prendersi cura di se stessi in terza persona, per far fronte alla solitudine che la grande metropoli, non lontana dal mare eppure così inaccessibile e ostile, portava con sé.
Dicevano: «Sto male».
E così, in cerca di un uomo-medicina, di uno sciamano, del capo tribù che non avevano mai avuto, affermavano se stessi, si abbracciavano: altrimenti, mai si sarebbero conosciuti davvero. Del resto lo specchio, ogni mattina, rischiava di dar loro un riflesso differente: sfumature mai viste prima. Il vecchio guardiano per loro era un guru, come un tempo si diceva in India. Una persona di cui fidarsi, magari in contatto con Dio.
La luce orizzontale del faro trafiggeva remote destinazioni, che nemmeno i letterati più fantasiosi avrebbero saputo descrivere.
Il fascio che avrebbe dovuto rischiarare le navi, impedendo i naufragi, spesso diventava uno strumento di perdizione per chi lo osservasse.
E chi lo osservava di più, in genere, era proprio il vecchio. Quando la luce volava circolare sulla superficie del mare, egli dava vita a una serie di strani pensieri. Sembravano aleggiare nella stanza, quelle idee legate al mare. Sembravano stare lì con lui da qualche parte, appollaiate nel cucinino, per poi dirigersi verso l’oblò del faro. Infine, si tuffavano nel nero dell’abisso.
I pensieri dell’uomo, infatti, erano tutti per le gelide, viscide e salmastre profondità di quel mare ancestrale. Provava paura pensando agli occhi che avrebbero potuto vederlo da laggiù, se solo si fosse avventurato in una imprudente nuotata notturna. Lo spaventava pensare alle dimensioni mostruose delle creature di là sotto. Sorseggiando quell’acqua sporca che aveva il coraggio di chiamare tè indiano, era felice di vivere nel faro, all’asciutto.
Tuttavia, ogni tanto, al sicuro nella sua torre di controllo, gli sembrava di sentire un suono acuto ma smorzato, proveniente da lontano. Una sorta di lungo lamento, che lambiva il silenzio discostandosene pochissimo, ma comunque rimaneva udibile. Probabilmente si trattava di qualche balena in lontananza: si sentiva solo nelle serate più tranquille. Sdraiato nel proprio letto, con la mente cercava di indirizzare tutti i suoi sensi al suono. Immaginava la bestia che lo produceva, scrutava nell’ambiente in cui si muoveva.
Percepiva una sorta di terrore, perché in realtà – non aveva mai avuto il coraggio di confessarlo a se stesso – lui e il mare erano sempre rimasti cordialmente estranei. Ah, sentiva anche freddo: perché il mare è, appunto, oscuro e freddo. Non certo azzurrino e caldo, come molti cartoni animati cercano di far credere ai bambini più sciocchi.
Superato il timor panico delle enormi distese d’acqua nera, l’uomo ricordava lo scopo della propria esistenza: scrivere una storia di se stesso e del mare, guardandosi allo specchio e ascoltando quegli antichi suoni che venivano da lontano. Non riusciva a chiedersi il perché: era semplicemente consapevole del fatto che avrebbe voluto che gli altri, dopo la sua morte, conoscessero la sua storia.
«Di un uomo cosa resta, dopo la morte? Di uno scrittore, almeno, rimangono le pagine…» si diceva il vecchio in uno di quei viaggi mentali che avevano assunto ormai una dimensione collettiva. Tutti, in città, sapevano che stava scrivendo un testo, qualcosa d’importante. Ne erano certamente a conoscenza. Ma si limitavano a supposizioni: «Chissà cosa sta scrivendo, in questo momento, il vecchio marinaio. Magari sta scarabocchiando di me!».
Infatti i discepoli dell’oracolo in genere volevano diventare suoi amici, ma non era affatto facile. La celebrità, in un certo senso, aveva turbato la sua mente – eppure, di fatto, era solo con i suoi timori, con i suoi suoni abissali.
Era stato pescatore, secondo necessità. Ricordava certe battute di pesca straordinariamente ricche, in particolare nel nord dell’Oceano Atlantico. Pescava enormi granchi che poi stipava sottocoperta, accompagnati da grandi blocchi di ghiaccio squadrato, affinché non perdessero la loro freschezza.
Ripensando a quando era marinaio, tornava a farsi sentire un terrore ricorrente: gli pareva di cascare nell’acqua, di schiena, quasi al rallentatore. In quel momento, tutto il sapere antico per cui lo chiamavano maestro si disperdeva. Rimaneva solo un paesaggio completamente nero, proprio come quello del Mare del Nord: Lui era come un feto privo di conoscenza, immerso nel liquido amniotico dell’incertezza.
Giorni e giorni, settimane e mesi: il libro su cui doveva scrivere la sua storia rimaneva bianco. Un colore paradossale, decisamente distante dal nero che abitava la sua mente da ormai troppo tempo.
Così bianche, quelle pagine…
* * *
Lo trovarono giorni dopo, perché non aveva amici o persone care che si fossero accorte di lui. I discepoli se n’erano andati da tempo, stanchi delle sue pose da gran sapiente. Era ormai quasi la fine di dicembre.
Era steso al suo tavolino da lavoro, all’interno di una stanzina che sarebbe un eufemismo definire piccola. Era accasciato sul tavolo, la pelle ormai simile a pergamena. Non lontano da lui, su un trespolo, stava un dipinto, probabilmente fatto con i colori acrilici, più vividi e diretti di quelli tradizionali. L’immagine era cromaticamente molto carica: una torre sulla riva di un mare oscuro e ingrossato. In lontananza, in quello che sembrava il mare, stava un’enorme figura altrettanto scura, come un gigantesco pesce informe. A stagliarsi sulle tonalità scure di quell’ingenua tela era qualcosa di simile a due occhi.
Gli uomini del servizio sanitario riferirono che, spostando il corpo dell’uomo, trovarono un libro dalla copertina marrone, probabilmente di pelle. Dissero che in quelle pagine c’era scritto solo: Il faro. Decisero di riportarlo nel rapporto.
Uno degli uomini ricordò di aver guardato fuori dalla lurida e minuscola finestrella di quella stanza; di aver osservato le massicce cime – da tempo innevate – che circondavano il paesello di montagna; di aver contratto il volto in un riso amaro, scuotendo la testa nel guardare l’ormai vuota carcassa dello scemo del villaggio.