Mia madre non si era mostrata contraria, ma sul momento mi era parsa turbata, anche se solo per un attimo. Si era girata a guardare la scogliera attraverso la finestra della cucina, togliendosi lo straccio dai capelli, come faceva istintivamente quando accadeva qualcosa d’imprevisto; come, per esempio, quando sentiva bussare alla porta. Poi si voltò verso di me, con un sorriso disteso. Non so perché, ma ebbi chiaramente la premonizione che sarebbe stata anche la reazione di mio padre quando, di lì a circa mezz’ora, all’imbrunire sarebbe tornato dal lavoro; e in effetti così fu. Avevo da poco compiuto dodici anni, è un periodo della vita in cui più che la noia si avverte il suo spettro, o se preferite la sua ombra, cioè la possibilità che si manifesti; e molto spesso, per cacciarla via, le consuetudini quotidiane di quell’età si rivelano insufficienti. Insomma, uno come il tenente di vascello Giovanni faceva proprio al caso mio, benché non me ne rendessi conto del tutto. Quell’uomo anziano in divisa mi dava l’impressione di avere interi forzieri di cose da raccontare: scrigni colmi di segreti da tramandare e tradizioni da affidare a degni accoliti.
Ovviamente, tutto mi appare molto più chiaro oggi: quello che emanava Giovanni era il fascino dell’antico, dell’atavico, che in una realtà come la nostra stentava ad imporsi, ma che riusciva a solleticare le corde della fantasia e del desiderio di avventura latenti in un ragazzino. Di fatto non c’era proprio nessuno che parlasse male di lui, tutt’altro; ma il rispetto che la sua figura marziale emanava era spesso accompagnato da una certa ironia, specie da parte dei più giovani. Lo conoscevo praticamente da sempre, ma prima di quella volta era capitato solo in un’occasione che mi avesse fermato per scambiare due chiacchiere. Ero davanti alla scuola con alcuni compagni, e lui mi bloccò per chiedermi se per caso fossi il figlio di Jacopo il sarto. Gli avevo risposto di sì, e il suo volto anziano si era illuminato.
«Salutamelo tanto» mi aveva detto. «Lo conosco da quando era un bambino, come te!»
Quella fu tutta la nostra prima conversazione. All’incirca un anno prima, invece, la signora maestra lo aveva fatto venire in classe, dicendoci che le persone come lui erano molto importanti, perché i pionieri tenevano viva la memoria. Aveva detto proprio così: «Tengono viva la memoria», ma non capii esattamente che significasse, perciò la presi come una cosa buona, fidandomi di lei. Non sapevo bene nemmeno cosa fosse un pioniere, ma tanto poi lo avrei chiesto a casa, a mio padre o a mio fratello maggiore. In quell’occasione non gli feci nemmeno una domanda, ma mi piacque ascoltare ciò che diceva e come rispondeva ai miei compagni, alcuni dei quali gli facevano senza remore domande di tutti i tipi. Giovanni era elegante nella sua divisa, stava dritto senza essere tronfio e parlava senza incespicare, né alzava la voce; sempre con un lieve sorriso e una certa dolcezza del tono, ma senza esagerare, senza le sciocche cantilene che di solito usavano gli adulti con noi bambini. In particolare, m’incuriosiva la sua divisa. Era chiaramente vecchia, eppure sembrava provenire dal futuro. Decorazioni come le sue, sebbene consunte, non le avevo mai viste. Erano perfettamente circolari, con dei disegni incisi con precisione geometrica. Le guarnizioni della giacca, così come la visiera del berretto, erano invece di un materiale indefinibile che, a giudicare dal colore ancora vivo, sembrava poter resistere al tempo e a qualsiasi fenomeno atmosferico. In esse, a occhio nudo, non si ravvisava la minima traccia di una cucitura, come se tutti i pezzi fossero in qualche modo incastrati l’uno nell’altro.
All’epoca non me ne rendevo ancora conto, ma istintivamente avvertivo che Giovanni proveniva da una civiltà che per tanti versi era stata molto superiore alla nostra, ma della quale non sembrava provare particolare nostalgia, se non le poche volte che alzava lo sguardo al cielo.
Quella mattina, dunque, lo avevo incontrato. Dopo aver parlato del più e del meno, al momento del commiato mi aveva invitato ad andarlo a trovare, su al faro.
Tornato a casa, lo dissi a mia madre, che reagì come ho detto all’inizio; feci lo stesso con mio padre, ed ecco la medesima sequenza: prima una forma d’imbarazzo, poi, subito dopo (come dire: «A pensarci bene…»), una sorta di compiaciuto assenso. Ricordo che mio padre, guardando fuori dalla finestra e aggiustandosi gli occhiali sul naso, m’invitò a mettere il cappello pesante, perché il tempo stava peggiorando.
Probabilmente viveva un certo conflitto. Da una parte sapeva che Giovanni era una buona compagnia e che non c’era nulla da temere; dall’altra, in qualche modo non riusciva a far tacere del tutto una certa gelosia, come se non tollerasse l’idea che qualcuno si sostituisse a lui come figura di riferimento o “saggio da consultare”. Lo avrei capito tanti anni dopo, un po’ studiando e un po’ vivendo: nessun padre carnale tollera più di tanto che intorno a suo figlio graviti un padre spirituale, forse proprio perché anche lui, come tutti, a suo tempo ne ha cercato uno. È anche vero però che per età Giovanni avrebbe potuto essere quantomeno mio nonno, e forse questo (sempre con il senno di poi) dovette avere un qualche effetto calmante sugli istinti possessivi dei miei genitori.
Fatto sta che quella sera ci andai, proprio mentre si faceva buio. Il faro si ergeva contro il cielo stellato, mentre attorno era tutto un frusciare di erbe alte sbatacchiate dal vento. A circa cento metri dalla meta cominciai a distinguere l’inconfondibile figura di Giovanni, che evidentemente aveva voluto attendermi all’aperto. Notai che non aveva il suo tipico cappello con la visiera e la sua chioma argentata si muoveva come una banderuola, mentre, poco sotto, il suo volto era coperto dall’oscurità. Quando lo raggiunsi, alzò lentamente l’indice verso un punto preciso del cielo.
«Guarda» mi disse. «Là, oltre quella sorta di bagliore, c’è la Terra. Noi tutti veniamo da lì.»
Lo sapevo. Mio padre ne aveva qualche vago ricordo di quando era bambino; diceva che era praticamente uguale al nostro pianeta, non fosse stato per un satellite bianco molto vicino, che una volta al mese s’ingrossava tanto da rischiarare la notte quasi come fosse giorno. Giovanni era tra gli ufficiali che avevano guidato la spedizione attraverso la galassia, portando migliaia e migliaia di emigranti terrestri sul nostro pianeta, scoperto solo qualche anno prima. E da allora aspettava.
Quella sera parlò a lungo. Quando fu ora tornai al paese, facendomi varco nel buio pesto con la mia piccola torcia. Non riuscivo a pensare ad altro. Giovanni era lì da trenta o quarant’anni. Era lì a guardare il cielo, a inviare rapporti e messaggi che venivano regolarmente ingoiati dal silenzio della volta nera che sovrastava la sua casa. Mi aveva detto che l’ultima volta che si erano fatti vivi, dall’altra parte della galassia, aveva ancora i capelli neri. Il messaggio diceva: «Lo stato maggiore le porge i migliori auguri per i suoi vent’anni di carriera», o qualcosa di simile. Poi non si erano più fatti sentire. Ma lui continuava: continuava a fare giorno per giorno quello per cui era stato inviato, a vigilare, guidare, suggerire, redarguire, scrivere e inviare rapporti settimanali e mensili che partivano dal suo tetto e forse si perdevano nel vuoto. Ma perché lo faceva? Non poteva essere certo che dall’altra parte ci fosse qualcuno che lo ascoltasse dopo tutto quel tempo; eppure aveva insistito, senza demordere, attimo per attimo, giorno dopo giorno, per tutta la sua lunga vita. Lo faceva, e basta. La sua era un’obbedienza critica, non era certo uno sciocco né un esaltato; ma allora era veramente difficile capire da dove sgorgasse tanta devozione verso qualcuno o qualcosa che forse, dall’altra parte del cielo, non esisteva più.
* * *
Dopo quella sera passò qualche anno. Ero tornato a casa pensando che non l’avrei mai più dimenticato, e invece, adagio adagio, avvenne anche questo. Il mio oblio era stato aiutato da altri elementi, soprattutto biografici. Ricordo che la sera del mio sedicesimo compleanno uscii in cortile, mentre i miei genitori giocavano a carte in salotto con i vicini di casa.
Soffrivo di quel dolore indicibile che si prova a causa delle prime delusioni sentimentali, e nella testa mi vorticavano più che altro rabbiose domande, del genere: «Perché mi accade questo?… Che senso ha questo soffrire… E quest’esistenza?».
È quel tipo di sofferenza che il più delle volte, quando ci si ripensa, solleva qualche ironia. Un po’ perché appare veramente sproporzionata rispetto alla causa, un po’ perché si è felici di esserne usciti. Comunque, ricordo che quella sera, tra le altre cose, alzai lo sguardo alle stelle e cominciai a ripetere, come fosse una giaculatoria: «Qualcuno nell’universo mi aiuti… Qualcuno nell’universo mi aiuti…».
Non saprei descrivere l’emozione che provai quando capii che quel rumore, quel vento strapazzone e quella luce che nel cielo s’ingrossava sempre più non erano illusioni del mio stato alterato, ma fenomeni che stavano succedendo veramente. A conferma di ciò, guardandomi attorno vidi che nel vicinato tutti ormai erano usciti dalle case a guardare verso l’alto, e di lì a un paio di secondi giunsero anche i miei con i vicini.
La luce ormai sembrava una cometa, che accrescendosi sempre più si era fermata sopra la casa di Giovanni. Ormai si poteva riconoscerne la forma: sembrava un gigantesco candelabro, pieno di luci e pietre preziose. Vidi distintamente scendere una navetta tutta dorata, che per un attimo fu coperta alla vista dalla sagoma del faro. Dopo mezzo minuto la rivedemmo salire; questa volta, al suo interno, come incastonata in un gioiello magico, attraverso i suoi cristalli vidi distintamente la chioma argentata di Giovanni. La plancia dell’astronave si spalancò, lenta e maestosa, sprigionando luci abbaglianti, come di miliardi di zaffiri impazziti, e accolse il suo fedelissimo servitore, portandolo evidentemente verso il meritato riposo. Dopo un altro minuto non c’era più niente, se non i nostri nasi all’insù. E silenzio, e buio, e di vento nemmeno un alito.
Caro Giovanni, come dicevi sempre, «arriveranno i Terrestri», e una sera arrivarono sul serio.