Comincerò con ciò che nei thriller cinematografici avviene, di solito, alla fine: una confessione.
Confesso di non essere un’esperta, né un’appassionata del cinema di Dario Argento.
Certo ho visto la trilogia degli animali e ho sobbalzato di fronte a certe sequenze di Profondo rosso (1975), di cui ho particolarmente apprezzato l’invenzione del Blue Bar – in una piazza torinese che a Torino però non esiste – in quanto omaggio ai Nighthawks di Edward Hopper. Passato qualche tempo, mi sono di nuovo lasciata convincere a guardare Suspiria (1977) e Opera (1987). Del primo ho ammirato i cromatismi sulfurei e lo preferisco alla versione che ne ha dato 41 anni dopo Luca Guadagnino. Il secondo l’avrei anche nominato in un libro, nel capitolo dedicato agli omaggi diretti o indiretti Shakespeare in film dai generi e dalle geografie più disparati: è il caso del thriller del nostro Dario nazionale, la cui protagonista è interprete lirica del Macbeth di Verdi. (Macbeth che sempre Argento avrebbe portato sul palco inaugurale del Teatro Coccia di Novara nel 2013… D’altronde: chi meglio di lui poteva realizzare una trasposizione teatrale moderna della tragedia più grondante sangue mai concepita dal Bardo? L’opera in cui, come sostenne Daria Nicolodi in un’intervista rilasciata all’epoca, «Shakespeare ha voluto raccontare un vero uomo nel personaggio di Lady Macbeth e una vera donna in Macbeth, e in questa specie di sovvertimento alchemico […] esiste un segreto che poi ha provocato tanti turbamenti »…?).
Orbene, forse vi starete chiedendo: e quindi? Perché stai scrivendo questo saggio su Tenebre?
Perché il direttore di INLAND. Quaderni di cinema Claudio Bartolini – che è tornato a ragionare sul lavoro del cineasta anche nel Fotogramma #26 Proiettili d’Argento. Gli anni Duemila del Maestro del terrore (Bietti, ottobre 2022) – proprio per questa mia reticenza nei confronti del genere tout court e di Argento in particolare ha pensato potessi affrontare questo titolo su cui tanto è già stato scritto e detto con uno sguardo “diverso” (ahilui).
Non è facile, ma ci provo. Partendo proprio dalla riflessione, acuta ma di primo acchito poco pertinente al nostro caso, di Nicolodi circa l’inversione delle nozioni stereotipate di gender che Shakespeare avrebbe attuato già nel 1606. Così offriamo pegno anche a uno dei trend topic più caldi del momento, che all’epoca del Bardo era lontanissimo dall’essere un tema e, dunque, è più un’invenzione dell’occhio critico – di Daria, in questo caso – contemporaneo. Un pretesto speculativo, che pure ha dei veri agganci con l’opera la quale, essendo di genio, contempla dinamiche umane universali ed eterne: come Lady Macbeth è assetata di potere, dura (dovrebbe partorire – forse avrebbe voluto? – «solo figli maschi»), fredda e calcolatrice (salvo poi soccombere a un senso di colpa soverchiante e suicidarsi), cioè “un uomo” secondo lo stereotipo ricorrente (perlomeno l’uomo bianco, caucasico, cattolico ed eterosessuale); e Macbeth è violento, fragile, facile all’esaltazione come alla depressione e all’insonnia, cervellotico e a tratti pavido (salvo agire, andando fino in fondo, lottando contro tutti i suoi fantasmi, facendosi carico di ogni responsabilità), cioè “una donna”, secondo un altro stereotipo ricorrente (perlomeno la donna bianca, caucasica, cattolica e in età fertile); allo stesso modo Argento, in Tenebre, prende una serie di stereotipi (di un altro tipo di genere, in questo caso) dello schema drammaturgico-visivo tipicamente thriller – e suo specifico – per giocarci, ribaltandoli.
Lo fa da subito, con quel titolo – Tenebre – stagliato su un fuoco scoppiettante che, le tenebre, le dissipa completamente, mentre i Goblin – per ragioni contingenti indicati nei titoli di testa come Simonetti, Pignatelli e Morante – si divertono a distorcere la parola “Paura” con il vocoder1 ed esplodono in una sonorità ritmata, energica e dance che ci piomba negli anni Ottanta. Sonorità che tornerà nella sequenza visivamente e tecnicamente sontuosa in cui, con la Louma, Argento e il suo killer si arrampicano sul muro esterno della casa di Tilde, la reporter lesbica impersonata da Mirella D’Angelo (che racconta gustosi retroscena di queste riprese nell’intervista concessa a Lazzarotto Muratori in questo numero di INLAND). E con un movimento continuo che sale, si sposta, scende, risale e ci risucchia, ci conducono fino alla di lei amante, Marion, la quale – sudata di sesso appena consumato con un uomo rimorchiato al night-club – con Rita Hayworth nella locandina di Fascino appesa alle spalle spegnerà un giradischi trasformando la colonna sonora da extra-diegetica a diegetica: altro piccolo, interessante sovvertimento delle regole.
Lo fa scegliendo come location appartamenti e ville con vetrate ampie, da cui entra facilmente la luce e da cui tutto è visto e tutto si può vedere (alla Hopper…); scovando spazi ampi, bianchi, illuminati dal sole o da algidi lampioni, geometrie alla Frank Lloyd Wright negli spazi impersonali dell’Eur a Roma. Certo il killer indossa guanti neri, ansima nell’ombra e ammazza con un rasoio, però – nuova sterzata dal tracciato thriller – lo fa anche in pieno giorno, in una piazza gremita (mi riferisco all’assassinio di Bullmer, l’agente letterario dello scrittore protagonista Peter Neal). Anche in questo caso Argento ostenta la sua bravura tecnica con un movimento di macchina che rende incoerenti la traiettoria dello sguardo di Bullmer verso la ragazza che ha appena litigato con il fidanzato e il tragitto di questa verso l’agente trafitto a morte (nella confusione dello spazio pubblico – reale o virtuale che sia – dove il chiacchiericcio e il ronzio di fondo sono costanti e impenetrabili, può accadere che una persona venga uccisa senza che nessuno se ne accorga. E poi la vita riprende. Anzi, a dirla tutta, non si ferma per davvero nemmeno un attimo).
Lo fa, ancora, sdoppiando il suo assassino: perché sono in effetti due, i killer in Tenebre, e si passano il testimone in un colpo di scena elegante e sorprendente. Il primo è il giornalista-fan moralizzatore, che si ispira a Tenebrae (l’ultimo best-seller di Neal) per escogitare e mettere in atto i suoi crimini, combattendo «la perversione umana e i suoi effetti sulla società». Non a caso la sua prima vittima, una cleptomane di colori pastello vestita (ava alla lontana della Donna promettente [2020] di Emerald Fennell impersonata da Carey Mulligan, come questa molestata e come questa fatta fuori brutalmente) viene prima slamata e poi soffocata con pagine strappate dal libro. Il secondo è lo stesso Neal, ex-ragazzino traumatizzato (come da adagio thriller-argentiano), all’epoca accusato di aver ucciso la sua “fidanzatina” e da quel momento – a sua volta – dimidiato in scrittore di successo/omicida.
Lo fa fondendo l’atto di fotografare i corpi sgozzati e sanguinanti da parte dello psicopatico con lo stesso atto compiuto però dagli investigatori di polizia – e la labilità del confine tra malattia e sanità è portata al parossismo nel finale, quando Argento gioca con la sovrapposizione invero sconvolgente tra l’ispettore Germani e Neal alle sue spalle (escamotage talmente riuscito che Brian De Palma lo riprenderà pari pari in Doppia personalità nel 19922): Germani, abbassandosi, rende visibile il killer che sta per colpire un’ultima volta, con un’ascia, proprio lui. Ma non ci sono chissà quali effetti speciali: semplicemente due attori della stessa taglia disposti adeguatamente nello spazio, di cui uno compie un movimento semplice, ma fatale3, di fronte a una macchina da presa sapientemente piazzata.
Lo fa creando momenti di sospensione in cui la mdp si sofferma su scene dove l’azione si è ormai conclusa: uno per tutti, l’indugiare sulla scultura-lama nell’appartamento di Neal, dove cade e brilla la luce “cinematografica” dopo che l’assistente Anne ha spento quella diegetica, mentre risuona – imprevisto – un organo.
Lo fa, infine, accogliendo il nuovo Zeitgeist: non siamo più negli anni Settanta, siamo negli Ottanta, dunque il protagonista si presenta correndo in tuta di acetato sopra un ponte tipicamente statunitense per raggiungere l’aeroporto; dunque meno spazio alle bionde efebiche stile Mimsy Farmer e largo alle maggiorate discinte con lunghi capelli scuri e vaporosi, che indossano pellicce e scelgono allegramente quanto e come accoppiarsi, come la citata amante di Tilde, il cui seno abbondante e scoperto domina dall’alto delle scale, o la moglie fedifraga di Neal, Jane McKerrow (interpretata dalla futura signora Berlusconi, Veronica Lario). Non solo: spazio al personaggio della lesbica (non una novità nel bis italiano, a dire il vero), che dà voce alle critiche più veementi nei confronti dello scrittore e, sebbene comprimario, diventerà il più iconico della pellicola. Tilde, accolta da Neal con l’affetto che si destina agli amici, prima risponde all’abbraccio festoso, poi definisce Tenebrae un «romanzo maschilista. Nei tuoi libri le donne sono sempre vittime, gli uomini eroi con le loro stupidate»: si tratta di uno dei tanti accenti autobiografici con cui Argento, autore del soggetto e della sceneggiatura (dal titolo di lavorazione Sotto gli occhi dell’assassino4), arricchisce il percorso del suo protagonista. Le accuse di Tilde sono quelle che Argento si è sentito rivolgere per quasi l’intero arco della carriera; Bullmer liquida con poche parole-sentenza un atteggiamento della critica con cui il regista si è sicuramente scontrato: «Amano i tuoi libri, ma odiano il successo».
Questa concessione all’autobiografia è un’altra originalità: è interessante sapere che il regista ebbe l’idea per Tenebre dopo essere stato «oggetto, durante un soggiorno a Los Angeles, di stalking telefonico da parte di un fan che lo minaccia di morte»5. Probabilmente per questo motivo decide che il suo Peter Neal sia uno scrittore americano di successo, in tournée a Roma, con un’assistente, uno stalker (nel film, il primo assassino prende spunto dalla trama del romanzo e poi invia al suo autore lettere in cui compone citazioni dallo stesso, usando ritagli degli articoli di giornali che descrivono gli omicidi) e persino una moglie con cui è in crisi, come Argento in quel momento era in crisi con la sua compagna, Daria Nicolodi. La cui indiscutibile avvenenza, per chi scrive, in Tenebre è gestita – a livello di trucco e parrucco – in un modo tale per cui potrebbe essere definita tanto una bella donna quanto un bel trans (e torniamo alla [con]fusione di gender, riecheggiata anche dalla scelta di Eva Robin’s nei panni della “fidanzatina” dalle scarpe rosse); e – a livello drammaturgico – da un Macbeth che forse tenta di vendicarsi della sua Lady che – chissà in quale modo – l’ha fatto “arrabbiare”: come spiegare altrimenti la subordinazione inopinatamente sorridente e materna con cui Argento-sceneggiatore delinea il personaggio affidato a Daria, l’assistente Anne? La quale mormora fra sé «Non riesci a dormire? [come Macbeth!, nda] Ti troverò un cuscino di piume», quasi fosse una favola di Perrault, anticipando la richiesta dello scrittore. Subordinazione suggellata da un casto bacio che non conduce nemmeno all’amplesso (il mattino dopo Anne si risveglia sul divano), riscattata solo parzialmente perché è lei a risolvere il caso: uccide l’amato Peter – ma, è giusto dirlo, per sbaglio – infilzandolo con uno dei tanti coni d’acciaio di una scultura moderna all’ingresso della casa dove la moglie di lui incontrava l’amante; e rendendo così il cadavere un richiamo al Toshiro Mifune trafitto dalle frecce nel finale del Trono di sangue (1957) – ovvero la versione di Akira Kurosawa del… Macbeth. Versione orientale e in bianco e nero, in cui la pazzia di “Lady Macbeth” (il lavaggio delle mani senz’acqua) si appalesa in una stanza la cui parete di fondo risulta macchiata da ampie sventagliate di antico sangue: quello del “re” ucciso da “Duncan”, quello di “Re Duncan” ucciso da “Macbeth” per realizzare la profezia delle streghe (in verità, in Kurosawa, una parca asessuata). Muro schizzato e osceno come l’ultimo muro di Tenebre, impregnato del rosa che poco prima era rossissimo sangue fuoriuscito con un fiotto alla Pollock da Jane, la moglie traditrice uccisa dallo scrittore pazzo.
Note
1 Questa nota e le seguenti, a eccezione della 3, sono tratte da Bartolini Claudio, Il cinema giallo thriller italiano, Gremese, Torino 2017, p. 280.
3 Un movimento ugualmente semplice e fatale, descritto in modo ugualmente terrificante, si ha nel romanzo Cortesie per gli ospiti di Ian McEwan, pubblicato per la prima volta in Inghilterra un anno prima di Tenebre: «La luce dei lampadari le impediva di vedere chiaramente nella semioscurità esterna, ma riusciva a distinguere una grande profusione di piante fiorite, e rampicanti, e alberelli in cassetta e, Mary trattenne il respiro, un piccolo viso pallido che la fissava dall’ombra. Un viso privo di corpo, perché il cielo della sera e il riflesso della stanza sui vetri rendevano invisibili vestiti e capelli. Continuava a fissarla, senza battere le palpebre, una faccia perfettamente ovale; poi si mosse all’indietro e di lato, entrò nell’ombra e scomparve» (Einaudi, Torino 1983).
CAST & CREDITS
Regia: Dario Argento; soggetto: Dario Argento; sceneggiatura: Dario Argento; fotografia: Luciano Tovoli; scenografia: Giuseppe Bassan; costumi: Pierangelo Cicoletti, Franco Tomei; montaggio: Franco Fraticelli; musiche: Simonetti-Morante-Pignatelli; interpreti: Anthony Franciosa (Peter Neal), John Saxon (Bullmer), Daria Nicolodi (Anne), Giuliano Gemma (ispettore Germani), Christian Borromeo (Gianni), Mirella D’Angelo (Tilde), Veronica Lario (Jane McKerrow), Ania Pieroni (Elsa Manni), Eva Robin’s (ragazza sulla spiaggia), Carola Stagnaro (detective Altieri), John Steiner (Cristiano Berti), Mirella Banti (Marion), Dario Argento (voce narrante in apertura, voce del killer); produzione: Claudio Argento, Salvatore Argento per Sigma Cinematografica, Allan Scott; origine: Italia, 1982; durata: 101’; home video: Blu-ray Arrow Video (import Gran Bretagna), dvd Medusa; colonna sonora: Cinevox.