La locandina di Occhiali neri, con il volto di una giovane donna schizzato di sangue e l’immagine dell’assassino riflessa dalle lenti nere, sembra presagire un film scatenato e selvaggio, forse anche pop per la sua citazione del manifesto di Essi vivono di John Carpenter (1988).
Ma Occhiali neri è tutt’altro. È un film che mette al centro la sofferenza, la difficoltà del vivere, l’oscuramento di un’identità.
«Quando c’è un’eclisse, probabilmente si fermano anche i sentimenti» – diceva Michelangelo Antonioni – «La luce diventa altra, le persone si fermano a guardare il cielo, e poi arriva il buio». Il regista avrebbe voluto inserire, nei titoli di testa di L’eclisse (1962), questi versi di Dylan Thomas: «Qualche certezza deve pur esistere, se non di amare bene, almeno di non amare», dalla poesia Dai sospiri. Nel suo film l’eclisse arriva alla fine, nel quartiere dell’Eur.
Arriva invece all’inizio in Occhiali neri, quasi a segnare un continuum tra i due titoli, tra i due autori.
Ma è tutto qui? È così rapidamente risolvibile questa affinità? Bisogna ricordare ancora una volta quanto i protagonisti di tante pellicole di Argento, traditi dall’inaffidabilità della memoria, della percezione, siano rielaborazioni del Thomas di Blow Up (1966)?
Si spera di no.
Anche perché Franco Ferrini, co-sceneggiatore di Occhiali neri, dichiara che l’eclisse a inizio film è stata una sua idea. Un omaggio a Tramonto di Edmund Goulding (1939), in cui l’oscuramento del sole anticipa la futura cecità della protagonista causata da un tumore al cervello.
Allora, forse, nel riferimento alla pellicola con Bette Davis c’è qualcosa che va al di là dell’innesco della narrazione e che punta al cuore di Occhiali neri: la sua natura di dramma, di racconto con al centro la sofferenza e la difficoltà di adattarsi a una nuova condizione.
Al suo ritorno al cinema, a dieci anni da Dracula (2012) – un lasso di tempo inusuale per il regista, che al massimo aveva visto passare tre anni tra un film e quello seguente – Argento sembra risolvere nella prima sequenza, quasi muta, la natura del suo cinema, del suo essere accostabile ad Antonioni molto più che ai maestri del terrore a lui spesso paragonati.
Antonioni, da L’avventura (1960) a Deserto rosso (1964), ha saputo raccontare la difficile relazione tra i personaggi e un mondo in cambiamento. Il complesso adeguarsi al progresso, a un’Italia in crescita economica dove restare indietro era una forma di malattia. Le fabbriche, i nuovi quartieri erano lo sfondo di questi mutamenti.
E già da L’uccello dalle piume di cristallo (1970) Argento aveva compreso quanto la nuova mappa architettonica delle città nostrane fosse l’ambiente in cui far finalmente proliferare il thriller all’italiana.
Occhiali neri comincia con una veduta cittadina, con i palazzi della Roma contemporanea dominati da un cielo azzurro. La città diurna – protagonista di tanti film argentiani – ingombra lo schermo, per poi svanire nell’ultimo terzo del film, dominato dalla notte e dal bosco. Morbide dissolvenze incrociate mostrano il quartiere dell’EUR attraverso i vetri dell’auto guidata dalla protagonista Diana. La ragazza guarda verso l’alto, verso i balconi: in diversi volgono lo sguardo al cielo, proteggendosi gli occhi.
Diana scende dall’auto, si avvicina a un ridotto numero di persone in un parchetto. Tutti sono preparati a guardare l’eclisse con i giusti supporti per proteggere la vista. Diana no, non si è adeguata. Ascolta poi una coppia di genitori spiegare alla figlia che gli antichi associavano alla sparizione del sole la fine del mondo. E per la protagonista, in fondo, sarà così.
La veduta iniziale viene riproposta, ma è diventata scura a causa dell’eclisse. Titoli di testa.
Questi primi minuti, nella loro malinconica cupezza, sono la dichiarazione di intenti di quello che Occhiali neri sarà: un film dolente, immalinconito, non un thriller senza freni. Non c’è quel panico che tanto Argento evocava per le sue opere. Non c’è la febbre oltre i 40 gradi. C’è l’incedere, inesorabile, di una vita destinata a perdere ogni cosa.
Il primo omicidio dell’opera è costruito senza lunghe attese. Un paio di inquadrature della prostituta uscita dall’albergo, e subito la vittima viene tirata nel cespuglio. A essere lungamente affrontata è la sua agonia, il suo caracollare con la gola squarciata, capace non di chiedere aiuto, ma solo di attendere la fine. Il tutto mentre attorno a lei si forma un capannello di gente, quasi una replica di quello che assisteva all’eclisse. Ma se nell’incipit si guarda affascinati l’oscuramento del sole, qui si è inerti spettatori della morte.
«Né il sole, né la morte si possono guardare fissamente» chiosa Pardi, il cliente preferito di Diana, a lei che ha appena detto di essersi irritata gli occhi guardando l’eclisse.
Dopo l’incidente che le fa perdere la vista, una breve soggettiva di Diana mostra le sue palpebre che si aprono. È una fessura, uno squarcio quasi sessuale da cui si intravede ancora una volta la luce. Poi buio. E stacco su un primo piano largo di Diana, il suo camice azzurro che si confonde con la parete della camera d’ospedale. Da quella vagina oculare è nata una seconda volta, ma in un mondo meno accogliente. Il medico le spiega che la corteccia cerebrale ha subìto una lesione intorno all’area di Brodmann: non vedrà mai più.
Per Antonioni il sesso era una pausa che i protagonisti si prendevano dalla difficoltà del vivere. La sessualità scatenava sì parossismi – si pensi alla Claudia di L’avventura, accerchiata da uomini fuori dalla pensioncina di Noto – ma dava barlumi di serenità, come quelli che cercava Giuliana con il collega del marito in Deserto rosso.
Il sesso fa perdere la testa, dà felicità anche in Occhiali neri. Una felicità che spetta, però, a chi è rispettoso, non a chi pensa che con il denaro si possa ottenere qualsiasi prestazione (come il cliente che pretende il fist fucking da Diana), o ci si possa presentare fetidi senza sentirsi dire che si deve fare una doccia (come capita al killer del film). Il sesso, tanto evocato ma in fondo poco visualizzato nel cinema di Argento – con l’eccezione dei due tv movie del contenitore Masters of Horror – compare in questo titolo in maniera quasi terra-terra. Un piacere semplice, ma capace di rendere meno gravosa la vita. Come quella di Pardi, che si sente orribile ed è a suo modo felice che, data la sua nuova condizione di cecità, Diana non vedrà più la sua bruttezza.
«Un castigo di Dio»: così la domestica sudamericana trova una ragione alla cecità della protagonista, avendone sempre malvisto l’attività. Un peccato originale che accompagna la seconda vita della prostituta.
Cacciata la donna di servizio, a casa di Diana arriva subito dopo Rita, istruttrice di movimento e orientamento. La superstizione religiosa lascia spazio alla razionalità umana. La prima cosa che Rita dice alla ragazza è che dovrà essere ordinata, darsi dei punti di riferimento. L’automobile dentro la quale Diana aveva iniziato il film e concluso, con l’incidente, la sua prima vita, viene sostituita da un bastone bianco.
Occhiali neri vede trascorrere 35 minuti tra il primo omicidio e il secondo, quello della coppia di ispettori. Una pausa insoddisfacente per i canoni del thriller all’italiana, che ha costruito la sua gloria sulle numerose uccisioni e sulla loro elaborata coreografia. Invece Argento segue la nuova vita della protagonista, indugiando maggiormente sulle sue fatiche, piuttosto che sugli aspetti violenti.
Come la Giuliana di Deserto rosso, Diana deve adeguarsi a un nuovo mondo. Il regista le sta accanto, la accompagna in questo faticoso compito anche grazie alla fotografia di Matteo Cocco, che già con il lavoro per il film su Stefano Cucchi – Sulla mia pelle di Alessio Cremonini (2018) – aveva dimostrato la capacità di far sentire la sofferenza del corpo nei suoi dettagli.
Come quando Diana, tornando a casa con in mano borsa, sacchetto della spesa, guinzaglio del cane e chiavi, fa cadere tutto a terra. Ma arriva Chin, il bambino che lei ha involontariamente privato della famiglia. Lui l’aiuta. I due sono legati, devono36 soccorrersi.
I punti fermi e il nuovo orientamento, che Diana si è creata con l’aiuto di Rita e del cane-guida Nerea, svaniscono quando, per sfuggire agli ispettori in cerca di Chin nel suo appartamento, la ragazza si nasconde a casa del bambino. Lì perde i suoi riferimenti, per la seconda volta dopo la cecità. La realtà (quella del palazzo di Chin e poi della selva) diventa irreale, irrazionale. Il pubblico vede un contesto inverosimile, dall’esageratamente lugubre e fatiscente palazzo al bosco pieno di pericoli in cui cercano la fuga i due sodali nel dolore. È come se lo spettatore stesso avesse la percezione alterata, come può esserla quella di una cieca che si muove in luoghi sconosciuti.
Inizia una fuga, prima a casa di Rita e poi, dopo che il killer ha scoperto dove si trovano, nel buio della notte.
Nel bosco, priva del suo cellulare e senza il bastone, Diana si orienta con un ramo strappato. Quando lei e Chin trovano il corpo di Rita, la protagonista, non a caso proprio in quel momento svela al bambino che sua madre è morta. Che è orfano. Adesso sono davvero soli, nessuno può proteggerli.
L’attacco dei serpenti d’acqua è il passaggio più azzardato di Occhiali neri, quello che certifica l’alterazione percettiva dell’ultima parte del film. È l’irruzione del fantastico più libero dalla razionalità in una vera e propria caccia del killer verso le sue prede. Una pausa kafkiana che certifica l’incubo in cui sono piombati i due personaggi. E infatti, Diana aveva appena detto a Chin di pensare a ciò che stava vivendo come a un brutto sogno che sarebbe svanito al risveglio.
Chin e Diana usciranno da questo incubo quando Nerea li salverà da Matteo. La regia indugia sulla coppia che, legata, prima piange di orrore quando il cane sta dilaniando la gola dell’assassino, poi si perde in una risata folle e senza controllo.
La notte termina e, all’arrivo della polizia, a Diana è dedicato un lungo primo piano – come dopo il risveglio dall’incidente, dall’altro incubo – sul volto struccato, sofferente, senza occhiali, pronto a una nuova vita cui adattarsi.
Nella sequenza finale all’aeroporto, la giovane lascia Chin a una sorta di suo doppio – uno dei temi cardine di Argento –, incarnato dalla cugina prostituta. A lei è stato affidato il bambino. Lei lo porterà a Hong Kong. Ma la chiusa è di una sommessa tristezza, con il piccolo che parte verso una nuova vita dalla quale Diana è estromessa. La ragazza resta sola con Nerea, che considera l’unica amica rimasta.
Diana è sola con il suo dramma. Una donna comune, versione ruspante dell’eroe hitchcockiano che si è ritrovato la vita stravolta da qualcosa di inaspettato. Ma lei è la parafrasi estrema della donna qualunque contraddistinta dal trucco pesante, dalla bellezza esibita quanto imperfetta, dai modi ruspanti e coatti caratteristici della sua interprete, Ilenia Pastorelli, con i suoi «infami» e «pazzo psicopatico» che sembrano usciti da un Verdone d’annata (al punto da far sembrare inimmaginabile il fatto che Diana avrebbe dovuto essere interpretata dall’eterea Stacy Martin, prima scelta annunciata). Ma in questa popolana spontaneità, in questa lontananza dalle eroine tipiche della grandeur del cinema argentiano (dalla Suzy di Suspiria [1977] alla Betty di Opera [1987]), l’autore crea una nuova versione della diversità che ha contraddistinto la sua vita e quella dei suoi protagonisti. Diana, sopravvissuta all’incidente e poi all’uomo che la cacciava, resta sola nella sua alterità, in uno tra i finali più soffocanti messi in scena da Argento.
Un regista che, è bene ricordarlo, ha visto tutti i suoi film horror e thriller del periodo d’oro, dall’Uccello dalle piume di cristallo a Opera, entrare nella top 20 degli incassi annuali italiani. Un diverso di successo, un autore che è diventato tale con il genere e ha raggiunto risultati che nessun regista all’avanguardia nel nostro Paese ha ottenuto con tale continuità.
Occhiali neri dice che il passato non tornerà, né per Argento né per Diana. Ma entrambi sanno ancora andare avanti.
CAST & CREDITS
Regia: Dario Argento; soggetto: Dario Argento, Franco Ferrini; sceneggiatura: Dario Argento, Franco Ferrini; fotografia: Matteo Cocco; scenografia: Marcello Di Carlo; costumi: Guido Bongiorno; montaggio: Flora Volpelière; musiche: Arnaud Rebotini; interpreti: Ilenia Pastorelli (Diana), Xinyu Zhang (Chin), Asia Argento (Rita), Maria Rosaria Russo (ispettrice Bejani), Andrea Gherpelli (Matteo), Guglielmo Favilla (Jerry), Paola Sambo (suora), Ivan Alovisio (medico oftalmico); produzione: Asia Argento, Conchita Airoldi, Brahim Chioua e Laurentina Guidotti per Urania Pictures, Getaway Films, Rai Cinema; origine: Italia, Francia, 2022; durata: 90’; home video: Blu-ray CG Entertainment, dvd CG Entertainment; colonna sonora: Amazon Music.