Il fantasma del musicista. Il cinema di Argento da Morricone ai Goblin via Bach
Francesco CastelnuovoMettiamoci subito d’accordo!
Se da questa riga in poi continuerete a leggere, potrete incorrere in due sorprese.
La prima è la constatazione che la musica nell’opera di Dario Argento è stata ben più importante di quello che han fatto credere tutti coloro che abbiano descritto la filmografia del regista romano soffermandosi quasi esclusivamente sull’apparato visivo. E la musica? L’avete lasciata nello sgabuzzino? Grande omissione! Anche perché… Dai, ammettetelo… la prima evocazione cinematografica che viene in mente a tutti, quando sentiamo il nome “Dario Argento”, non è mica un’inquadratura, né un movimento di macchina. È un movimento (ostinato) di note: le quattordici note iniziali del tema musicale scritto da Claudio Simonetti per Profondo rosso (1975). Quello è il prodotto artistico di gran lunga più diffuso e longevo di tutta la filmografia di Dario Argento. Tanto da esser diventato persino una suoneria amatissima per i telefonini della generazione Z. E ciò ovviamente comporta una sonora redistribuzione dei meriti artistici inerenti all’opera dell’“Italian Master of Horror” che includa, legittimamente, i musicisti suoi collaboratori.
La seconda sorpresa è che la musica nei film horror non è necessariamente una “musica da horror”. Non è quella cosa che generalmente avrete sentito definire con termini come “disturbante”, “perturbante”, “allucinante”, “sconcertante”. Tali aggettivi impressionistici (e impressionanti) sono fuorvianti, non solo perché hanno poco a che fare con un’analisi musicologica dell’apparato ritmico, melodico e armonico utilizzato, ma anche, più prosaicamente, perché spesso le musiche degli horror di Argento suonano, a un ascolto nudo e primario, come qualcosa che potremmo qualificare persino mediante aggettivi impressionistici di segno opposto, come “rasserenante”, “cullante”, “sentimentale” e persino “sexy”.
Partiamo quindi dall’inizio.
Dall’inizio del piccolo Dario.
Nelle biografie di Argento – nato a Roma il 7 settembre 1940, giorno in cui si celebra l’anniversario della nascita del più prolifico compositore di sonetti dialettali della letteratura italiana, il romanissimo Gioachino Belli – l’episodio infantile che viene più spesso narrato come anticipatore del suo destino artistico ha come protagonista la madre fotografa. Citiamo dal sito www.darioargento.it (ora non più attivo): «Il piccolo Dario si trattiene spesso nello studio della madre e rimane fortemente affascinato da quelle figure femminili, dal gusto per l’illuminazione, dalla cura del dettaglio, dalle lunghe sedute per il trucco, tutte componenti che caratterizzeranno il suo cinema».
Eccolo… il marchio only visual in primo piano.
L’audio ancora non si sente.
La tendenza a spingere il tasto Mute sulla formazione del regista continua poi quando si cita un altro episodio interessante, avvenuto intorno ai suoi dieci anni. Siamo nell’estate del 1950. Mentre si trovava in vacanza con i nonni a Monguelfo, paesino dolomitico della Val Pusteria, il futuro regista del brivido assiste alla proiezione del film che «non lo avrebbe più abbandonato», per citare le sue stesse parole: Il fantasma dell’Opera. Non si tratta dell’horror muto in bianco e nero del 1925 con il mitico Lon Chaney. No. Si tratta della versione horror-musical a colori (anzi in technicolor) diretta da Arthur Lubin nel 1943 (quando Dario aveva tre anni) e interpretata nel ruolo protagonista da Claude Rains. Quando si cita questo episodio ci si sofferma esclusivamente sulle impressioni visive che avrebbero toccato il ragazzo: la figura del mostro assassino, il volto trasfigurato, la maschera… Financo i vividi contrasti cromatici del film. Sul fatto che sia anche un musical invece non si dice granché.
Eppure ce ne sarebbe stato da dire.
Sarebbe bastato leggere attentamente la trama del film: durante una rappresentazione all’Opéra di Parigi, il direttore d’orchestra nota alcune discordanze tra gli archi e ne individua la causa nel primo violino, Enrique Claudin. A fine rappresentazione, Claudin viene convocato nell’ufficio del maestro, che gli chiede di suonare il suo strumento. Claudin improvvisa una vecchia ninna nanna della sua terra natale, la Provenza, ma alla richiesta di suonare l’entrata dei violini nel III atto dell’opera appena andata in scena, il violinista rifiuta, affermando di non riuscire più ad utilizzare al meglio la mano sinistra. Il direttore si vede quindi costretto a licenziarlo. E qui siamo solo all’inizio: cosa dire del drammatico twist in cui il violinista si tramuta in assassino e strangola il celebre editore musicale Pleyel, in preda al sospetto che gli abbia rubato un concerto per pianoforte e orchestra da lui composto e di cui si è dichiarato entusiasta nientemeno che Franz Liszt? Vogliamo poi trascurare il fatto che il violinista-assassino diventa “fantasma” perché l’assistente di Pleyel, per difendere se stesso e l’editore, lo ustiona in volto lanciandogli addosso l’acido nitrico che si usava come mordente per la riproduzione degli spartiti? Per non parlare del ruolo fondamentale che nel seguito della vicenda avrà la presenza ricorrente della ninna nanna provenzale di cui sopra. Presenza, quella delle ninne nanne, che – guarda caso – sarà poi assai ricorrente nei film di Dario Argento.
No, non si può trascurare tutto ciò! Per questo ho evidenziato in corsivo le parti musicali della trama, finora sottovalutate.
Proveremo ora ad analizzare il contributo di tre musiche (e tre musicisti) nel cinema di Dario Argento. Partendo… vedi tu… proprio da una cantilena che sa di ninna nanna: quella composta da Ennio Morricone per il film d’esordio di Dario Argento, L’uccello dalle piume di cristallo, uscito nel 1970.
Morricone amava molto giocare con il numero tre. E così a quel giovane che gli era stato presentato dal di lui padre, Salvatore Argento, vicino di casa in quel di Mentana, pensò di offrire in regalo un tema fatto di tre suoni: quello familiare e molto consonante di un campanellino, quello meno familiare e assai dissonante di uno sventolio di campane tubolari in sottofondo e, in cima a tutto, uno dei suoni più rassicuranti in assoluto: quello della voce flautata di una donna che intona uno di quei dolci e soffusi la-la-la usati di solito per addormentare i neonati. Qualcuno magari all’epoca avrà pensato: “Ma che gli è preso a Morricone? Ha usato una ninna nanna per bambini come leitmotiv di un giallo a tinte macabre?”. E magari qualcun altro gli avrà risposto: “Ma mica è il primo! Non l’hai sentita, due anni fa, la ninna nanna di Rosemary’s baby?”. E il primo, a sua volta, avrà replicato: “Eh vabbè… Ma almeno lì c’entrava, con tutta la storia della gravidanza. Qui cosa c’entra con la ricerca di un killer di donne?“
La nostra risposta potrebbe essere duplice. La prima, più semplice, è che c’entra con la storia del film se uno arriva fino alla conclusione finale. La seconda risposta, però, è la più adeguata: non c’entra per niente… Perché non deve “entrarci”. La musica è l’arte più astratta di tutte e più di tutte può legittimamente esigere di non sottostare a qualsiasi pretesa di rappresentazione e di corrispondenza diretta che le venga assegnata. Si tratta di un cardine fondamentale, questo, per tutti i musicisti e in specie per quell’Ennio Morricone che assommava in sé la doppia identità professionale di musicista da concerto e musicista da film. Solo così si rispetta la natura intrinseca della musica. E solo così, magari, si possono creare quelle “nuove consonanze” tra musica e cinema che hanno reso celebre nel mondo Ennio Morricone.
Fatto sta che, da allora, il suono della ninna nanna si è sempre più sentito risuonare nei gialli, nei thriller e negli horror. A partire da quella Ninna nanna in blu che sempre Ennio comporrà per il secondo film di Argento, Il gatto a nove code, del 1971. Fino alla più bella e più memorabile di tutte, quella scritta da Giorgio Gaslini per Profondo rosso e intitolata School at Midnight, il cui motivo – che fu scritto in La Minore e concepito quindi per esser suonato “tutto sui tasti bianchi” – ricorda in maniera impressionante il giro di Oh che bel castello, marcondirondirondello. Se non fosse che… in coda al motivo… Gaslini ci buttò lì, come un dispettoso pizzico inaspettato, una piccola nota non prevista: un Si bemolle isolato, che dal suo tasto nero riuscì, con pochissimo, a diffondere a sorpresa un’atmosfera sinistra su quel “bel castello” fatto di tasti tutti bianchi.
La seconda musica che vogliamo proporre all’ascolto è quella composta nel 1980 per Inferno da un musicista che Dario Argento inseguiva da anni: Keith Emerson. Tanta era la brama di averlo. Di lui si diceva che riuscisse a fare «urlare l’organo Hammond» come pochi e si narrava addirittura che durante uno dei suoi primissimi concerti fosse riuscito a placare una rissa scoppiata tra il pubblico riproducendo sull’Hammond una sequenza simile a una raffica di mitragliatrice. Wow!
Leggende a parte, Argento lo cercò più probabilmente perché Emerson era un sommo conoscitore dell’organo (strumento assai diffuso negli horror) e soprattutto perché era internazionalmente riconosciuto come uno dei primissimi padri di quella musica prog che negli anni Settanta aveva unito in matrimonio rock e musica classica, in un connubio di sacro e profano, antico e nuovo che collimava con il lavoro di Argento. In effetti uno dei brani composti da Emerson per il film, Mater Tenebrarum, risponde esattamente a queste aspettative: da una parte ci sono il synth e la batteria, che disegnano un riff sincopato dal sapore funky che si potrebbe quasi ballare in discoteca a un party per Halloween. Dall’altro un coro che declama versetti in latino su linee melodiche a-tonali (o pre-tonali) e su un tactus marzial-funereo che potrebbe ricordare i Carmina Burana di Orff (anche se in alcuni passaggi sembra di sentire Bohemian Rhapsody dei Queen). Ed è qui che, si dirà, “la musica c’entra con il soggetto del film”. Ma è proprio qui, pardon, che casca l’asino… E torniamo con ciò alla seconda delle sorprese evocate all’inizio.
Se infatti andiamo ad ascoltare quello che è il main musical theme composto da Emerson per Inferno dobbiamo ricrederci. Alle nostre orecchie arriva infatti una soave, rasserenante melodia per pianoforte costruita su arpeggi più consonanti. Una di quelle melodie che oggi troveremmo su Spotify alla voce music to relax your mind. O che, per restare al cinema, avrebbe potuto comporre agevolmente Dave Grusin per Il paradiso può attendere (1978) con Warren Beatty. Altro che Inferno!
E veniamo al terzo e ultimo esempio. Il già citato tema di Profondo rosso. Un tema davvero sommo, grazie al quale Claudio Simonetti arriva a superare persino il suo maestro Keith Emerson. Perché in quelle quattordici note iniziali che resteranno impresse nella nostra memoria, il leader dei Goblin resuscita molto meglio del collega britannico lo spirito di quel Johann Sebastian Bach – per entrambi, da sempre, il primo grande riferimento dichiarato. Quelle quattordici note, infatti, sono messe sul pentagramma secondo uno dei pattern ritmico-melodici più frequenti in Bach: il cosiddetto “ostinato”, quella linea basata sulla reiterazione di un motivo costante, che dà all’ascoltatore l’idea di un punto fisso da cui non ci si può staccare. Quello che poi verrà definito riff, vamp, loop. Ma che faremmo bene, per una volta, visto l’argomento, a definire con un termine meno tecnico: un tormentone. E la parentela con quella “ostinazione” di Bach si avverte bene se si ascolta il Preludio BWV 543, amatissimo da Ennio Morricone (tanto da citarlo nelle musiche per Il clan dei siciliani [1969]) con cui il tema di Profondo rosso ha in comune, tra l’altro, la medesima tonalità, il La Minore. Su quella base bachiana che non smette mai di “tormentare”, Simonetti fece risuonare un altro retaggio bachiano, quello della sovrapposizione contrappuntistica di altre due voci: “la voce del basso elettrico in controtempo sincopato funky e poi quella del synth che intona la vera e propria linea del cantus, che permetterà al brano di staccarsi dal profondo dell’ostinato iniziale e volare libero sulle ali degli assoli progressive-rock. Il tutto su un tempo composto in 7/4 che sarebbe piaciuto al protagonista di Whiplash (2014). Potremmo concludere che… se vai nel profondo, in quel profondo che si insinua fin dentro alle suonerie del 2022, trovi sempre il fantasma di Bach.
Ecco: questi erano solo alcuni esempi della rilevanza estetica della musica nell’opera di Dario Argento. Utili, tra l’altro, per comprendere forse un po’ meglio le tenebrose parole che Dario Argento vergò nella sua autobiografia, Paura, al ricordo di quel fantasma musicista che a soli dieci anni lo aveva forgiato come un mordente per spartiti: «La metamorfosi era completa. Io ero diventato il Fantasma e forse lui era diventato me».