Svastica

Charles Bukowski
Charles Bukowski – Tutti dicevano che era un bastardo n. 11/2016
Svastica

Lui è tornato. Ma non in un’aiuola accanto al vecchio bunker in cui si tolse la vita, come nel famoso romanzo di Timur Vermes. In questo racconto bukowskiano, Adolf Hitler in persona torna nel Nuovo Mondo, dopo anni e anni trascorsi in una casa di cura sotto falso nome. In attesa del suo momento, di tornare a calcare nuovamente la scena politica. E lo farà in un modo tanto imprevedibile quanto, in fondo, maledettamente plausibile. La storia di questo frammento è assai bizzarra, come racconta Raffaello Gramegna, traduttore del racconto, uscito nel 1994 per MilleLire Stampa Alternativa (e disponibile online con licenza Creative Commons Attribuzione – Non Commerciale – Condividi allo stesso modo). Svastica fu infatti pubblicato nell’edizione originale di Erections, Ejaculations, Exhibitions and General Tales of Ordinary Madness, uscito in America nel 1972. Eppure, per qualche strana ragione a noi ignota, non è mai apparso nella traduzione italiana dell’antologia, Storie di ordinaria follia. Erezioni, eiaculazioni, esibizioni, pubblicata da Feltrinelli nel 1975 e continuamente ristampata. Difficile comprenderne la ragione, trattandosi dell’unica omissione: il titolo, forse? Come abbiamo già scritto altre volte – troppe altre volte – il buon senso ci spingerebbe a dare una risposta negativa. Eppure, non sempre è quest’ultimo a orientare le scelte di curatori e redattori. Ad ogni modo, lo riproponiamo di seguito, nella traduzione di Gramegna, come ulteriore documento della versatilità di un autore non poi così “monotematico” come molta critica gli ha invece rinfacciato di essere.

 

A.S.

 

Il Presidente degli Stati Uniti d’America entrò nell’auto, circondato dagli agenti. Prese posto sul sedile posteriore. Era una mattina anonima e scura. Nessuno parlò. Filarono via, e i pneumatici si fecero sentire sulla strada ancora bagnata dalla pioggia della notte precedente. C’era un silenzio molto strano, come mai lo era stato prima.

Andarono per un po’ e, ad un certo punto, il Presidente disse: «Sentite, questa non è la strada per l’aeroporto».

I suoi agenti non risposero. Era stata programmata una vacanza. Due settimane nella sua residenza privata. L’aereo lo attendeva all’aeroporto.

Cominciò a piovigginare. Sembrava dovesse piovere ancora. Gli uomini, compreso il Presidente, indossavano pesanti soprabiti, cappelli; tutto ciò faceva sembrare l’auto strapiena. Fuori c’era un vento freddo e insistente.

«Autista» disse il Presidente, «ritengo che stia andando nella direzione sbagliata.»

Il conducente non rispose. Gli altri agenti non batterono ciglio.

«Sentite» disse il Presidente, «qualcuno vuol riferire a quell’uomo la via esatta per l’aeroporto?»

«Non andiamo all’aeroporto» disse l’agente alla sinistra del Presidente.

«Non stiamo andando all’aeroporto?» domandò il Presidente.

Gli agenti rimasero indifferenti. La pioggerella diventò pioggia. Il conducente azionò i tergicristalli.

«Sentite, che c’è?» chiese il Presidente. «Che succede qui?»

«Piove da settimane» disse l’agente accanto all’autista. «Deprime. Come sarò contento di godermi un po’ di sole.»

«Sicuro, anch’io» disse l’autista.

«C’è qualcosa che non quadra» disse il Presidente, «esigo sapere…»

«Non sei più nella condizione di esigere» disse l’agente alla destra del Presidente.

«Vuoi dire?…»

«Vogliamo dire!» disse l’agente.

«È un assassinio?» chiese il Presidente.

«Andiamo… è fuori moda.»

«E allora cosa…»

«Per favore. Abbiamo l’ordine di non discutere con lei.»

Viaggiarono per alcune ore. Continuava a piovere. Nessuno parlò.

«Ora» disse l’agente alla sinistra del Presidente, «fai un altro giro, e poi svolta all’interno. Così non verremo seguiti. La pioggia ci è stata di grande aiuto.»

L’auto tratteggiò l’area suggerita, quindi svoltò in una piccola strada sterrata. Era molto fangosa e i pneumatici ogni tanto giravano, slittavano, poi facevano di nuovo presa e l’auto procedeva. Un uomo con un impermeabile giallo, impugnando una torcia, li diresse all’interno di un garage aperto. Si trattava di un’area isolata, con molti alberi. A sinistra del garage c’era una piccola casa di campagna. Gli agenti aprirono le portiere.

«Fuori» dissero al Presidente. Il Presidente obbedì. Gli agenti stavano intorno al Presidente con circospezione, sebbene per miglia non ci fosse essere umano, eccetto l’uomo con la torcia e l’impermeabile giallo.

«Non vedo perché non avremmo potuto sistemare la faccenda qui» disse l’uomo con l’impermeabile giallo. «Sembra certamente più rischioso nell’altro modo.»

«Ordini» fece uno degli agenti. «Sai com’è. Ha sempre agito secondo intuito. E così anche adesso, più che mai.»

«Fa molto freddo. Avete tempo per una tazza di caffè? È già pronto.»

«Molto gentile, grazie. È stato un lungo viaggio. Presumo che l’altra auto sia già pronta.»

«Certo. È stata controllata più volte. Comunque, siamo dieci minuti in anticipo sul programma. È per questo che ho suggerito il caffè. Sai come la pensa sulla precisione.»

«Ok. Entriamo, allora.»

Entrarono nella casa di campagna, tenendo con molta attenzione il Presidente tra loro.

«Tu siediti lໂ disse uno degli agenti al Presidente.

«È un ottimo caffè» disse l’uomo con l’impermeabile giallo, «macinato a mano.»

Fece il giro con la caffettiera. Ne versò uno per sé e si sedette, con l’impermeabile giallo ancora addosso e il cappuccio gettato sulla stufa.

«Ah, veramente buono» disse uno degli agenti.

«Panna e zucchero?» domandò un altro al Presidente.

«Va bene» rispose.

Non c’era molto spazio nella vecchia macchina, ma fecero in modo di entrare con il Presidente di nuovo sul sedile posteriore… La vecchia auto slittò nelle grosse buche e sul fango, ma riuscì a tornare sulla strada. Fu di nuovo per la maggior parte un viaggio silenzioso. Uno degli agenti si accese una sigaretta.

«Maledizione, non riesco proprio a smettere!»

«Be’, è difficile, tutto qui. Non preoccuparti.»

«Non sono preoccupato. Solo disgustato.»

«Senti, non pensarci. Questo è un gran giorno per la Storia.»

«Eccome!» fece quello con la sigaretta.

Quindi, aspirò…

Parcheggiarono nei pressi di una vecchia pensione. Continuava a piovere. Rimasero lì alcuni istanti.

«Ora» disse l’agente di fianco all’autista, «fatelo uscire. È sgombro. Nessuno in giro.»

Camminarono con il Presidente in mezzo a loro, prima attraverso la porta d’ingresso, quindi su per tre piani di scale, sempre tenendo il Presidente in mezzo. Si fermarono e bussarono alla 306. Il segnale: battuta, pausa, tre battute, pausa, due battute…

La porta fu aperta e gli uomini spinsero dentro il Presidente. La porta fu chiusa a chiave e sprangata. Dentro attendevano tre uomini. Due avevano una cinquantina d’anni. L’altro era vestito con una vecchia camicia da manovale, pantaloni di seconda mano molto larghi e scarpe da dieci dollari, scalcagnate e sporche. Stava seduto al centro della stanza su una sedia a dondolo. Poteva avere un’ottantina d’anni, sorrideva… e gli occhi erano gli stessi; naso, mento e fronte non erano molto cambiati.

«Benvenuto, Signor Presidente. Ho aspettato molto la Storia, la Scienza e Voi; siete arrivati tutti secondo i piani, oggi…»

Il Presidente guardò il vecchio sulla sedia a dondolo. «Mio Dio! Tu sei… sei…»

«Mi hai riconosciuto! Altri tuoi concittadini hanno scherzato sulla somiglianza! Troppo stupidi per rendersi conto che io ero…»

«Ma fu provato che…»

«Certo che fu provato. Il bunker: 30 aprile 1945. Abbiamo voluto così. Sono stato paziente. La Scienza era con noi ma ho dovuto accelerare la Storia. Volevamo l’uomo giusto. Tu sei l’uomo giusto. Era impossibile per gli altri – troppo lontani dalla mia filosofia politica… Tu sei l’ideale. Adoperando te sarà più facile, ma, come ti ho detto, dovevo accelerare un po’ il percorso della Storia… la mia età… ho dovuto…»

«Vuoi dire…?»

«Sì, io ho fatto assassinare il tuo presidente Kennedy. E poi suo fratello…»

«Ma perché il secondo assassinio?»

«Ci avevano informati che quell’uomo avrebbe vinto le elezioni presidenziali.»

«Ma che ne farete di me? Mi è stato detto che non mi avreste assassinato…»

«Posso presentarti i dottori Graf e Voelker?»

I due uomini salutarono il Presidente con un cenno del capo e sorrisero.

«Ma, allora, cosa accadrà?» chiese il Presidente.

«Scusa un attimo. Devo chiedere ai miei uomini; Karl, com’è andata con il Doppione?»

«Bene. Abbiamo telefonato dalla fattoria. Il Doppione è arrivato all’aeroporto come previsto. Ha annunciato che, viste le condizioni del tempo, avrebbe annullato il volo fino al giorno dopo. Quindi ha annunciato che avrebbe fatto un giro in macchina… Gli piace essere accompagnato in giro sotto la pioggia…»

«E poi?» chiese il vecchio.

«Il Doppione è morto.»

«Bene. Andiamo avanti. Storia e Scienza sono arrivate alla loro ora.»

Gli agenti fecero andare il Presidente verso uno dei due tavoli operatori. Gli dissero di spogliarsi. Il vecchio andò verso l’altro tavolo. I dottori Graf e Voelker indossarono i camici e si prepararono per l’incarico…

 

L’uomo dall’aspetto più giovane si alzò da uno dei due tavoli operatori. Si vestì con gli abiti del Presidente e andò verso il grande specchio sul muro a nord. Stette lì per cinque minuti buoni. Poi si girò.

«Miracoloso! Neanche una cicatrice… niente riabilitazione. Congratulazioni, signori! Come fate?»

«Sì, Adolf» rispose uno dei due dottori, «abbiamo fatto molta strada da quando…»

«Aspetta! Non voglio mai più sentire il nome Adolf… fino al momento giusto, finché non lo dico IO!… Sino ad allora non si parlerà più tedesco… ORA sono il Presidente degli Stati Uniti d’America!»

«Sì, Signor Presidente!»

Si toccò sopra il labbro superiore: «Mi mancano i miei vecchi baffi!».

Sorrisero.

Quindi chiese: «E il vecchio?».

«L’abbiamo messo a letto. Non si sveglierà per ventiquattro ore. In questo momento… ogni cosa… tutte le prove dell’operazione sono state distrutte. Tutto quel che dobbiamo fare è uscire di qui» disse il dottor Graf. «Ma… Signor Presidente, quest’uomo… io suggerirei…»

«No, ti dico, è indifeso! Lascialo soffrire come ho sofferto io!»

Andò verso il letto e guardò l’uomo. Un vecchio di ottant’anni con i capelli bianchi.

«Domani sarò nella sua residenza privata. Chissà se a sua moglie piacerà il mio modo di fare l’amore.» Fece una risatina.

«Sono sicuro, mein Führer… oh, mi scusi! Sono sicuro, Signor Presidente, che le piacerà moltissimo il suo modo di fare l’amore.»

«Lasciamo questo posto, allora. Prima i dottori, per la loro strada. Poi noi… uno o due per volta… una comitiva di auto, quindi una buona dormita alla Casa Bianca.»

 

Il vecchio con i capelli bianchi si alzò. Era solo nella stanza. Poteva fuggire. Uscì dal letto in cerca dei suoi vestiti e, come attraversò la stanza, vide un vecchio in un grosso specchio.

No, pensò, oh mio dio, no!

Alzò un braccio. Il vecchio nello specchio alzò un braccio. Si mosse in avanti. Il vecchio nello specchio s’ingrandì. Guardò le sue mani – aggrinzite, non erano le sue mani! Guardò i suoi piedi! Non erano i suoi piedi! Non era il suo corpo!

«Dio mio!» disse ad alta voce. «O MIO DIO!»

Allora sentì la sua voce. Neanche quella era sua. Avevano scambiato le corde vocali. Si toccò la gola, la testa. Nemmeno una cicatrice! Nessuna cicatrice da nessuna parte. Si mise gli abiti del vecchio e scese le scale. Bussò alla prima porta, c’era scritto Proprietaria.

La porta si aprì. Una donna anziana.

«Sì, signor Tilson?» chiese.

«Signor Tilson? Signora, io sono il Presidente degli Stati Uniti d’America! È un’emergenza!»

«Oh, signor Tilson, siete così divertente!»

«Senta, dov’è il telefono?»

«Proprio dove è sempre stato, signor Tilson, a destra della porta d’ingresso.»

Si frugò nelle tasche. Gli avevano lasciato qualche spicciolo. Guardò nel portafoglio. Diciotto dollari. Mise una moneta nel telefono.

«Signora, qual è l’indirizzo di qui?»

«Signor Tilson, voi SAPETE l’indirizzo. Vivete qui da anni! Vi comportate molto stranamente oggi, signor Tilson. E vi dirò di più!»

«Sì, sì… cosa?»

«Vi ricordo che l’affitto scade proprio oggi!»

«Oh, signora, per favore, mi dia questo indirizzo!»

«Come se non lo sapeste! È il 2435 di Shoreham Drive.»

«Sì» disse al telefono, «tassì? Voglio un tassì al 2435 di Shoreham Drive. Aspetterò al primo piano. Il mio nome? Il mio nome? Va bene, il mio nome è Tilson…»

È inutile andare alla Casa Bianca, pensò, hanno quella copertura… Andrò dal più grosso giornale. Glielo dirò. Dirò tutto all’editore. Tutto quel che è accaduto…

 

Gli altri pazienti risero di lui. «Vedi quel tipo? Che somiglia un po’ a quel tizio, quel dittatore, comesichiama, solo molto più vecchio. Comunque, quando venne qui, un mese fa, pretendeva di essere il Presidente degli Stati Uniti d’America. Questo un mese fa. Adesso non lo dice più tanto. Ma di sicuro gli piace leggere il giornale. Non ho mai visto uno così ansioso di leggere un giornale. Bisogna dire che se ne intende di politica, però. Penso sia quella che l’ha fatto impazzire. Troppa politica.»

Suonò la campana della cena. Tutti i pazienti se ne accorsero. Eccetto uno.

Un infermiere andò verso di lui.

«Signor Tilson?»

Non ci fu risposta.

«SIGNOR TILSON!»

«Oh… sì?»

«È ora di cena, signor Tilson!»

Il vecchio con i capelli bianchi si alzò e andò lentamente verso il refettorio.

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