Solo se chiedi scusa a Dostoevskij
Francesco BrandoliStavo lì a fissare il muro, sorseggiando una birretta fresca. Non sapevo quando avessero dato una verniciata l’ultima volta, ché quel pessimo colore era proprio pensato bene: sporco o appena sbaffato, cambiava poco… Come cambiava poco a me, dopo tutto. Ché lì la birra era buona e non dovevo manco pagarla sempre.
Buddy era entrato da meno d’un minuto e già me l’ero trovato seduto accanto. Una mano sulla spalla e un «ciao, vecchio». Il primo della serata, che sarebbe stata una serie di «ciao, vecchio» e fastidiose pacche sulla spalla. A ogni battuta, anche mal riuscita.
«Devo cambiare l’acqua» dissi, alzandomi e sbattendo il bicchiere vuoto sul banco. Una splendida scusa per levarmi di lì e cercarmi un posto al riparo dai prossimi sessanta «ciao, vecchio» con pacca della serata.
Ero abituato anche al cesso del locale. Andavo altrove, se mi ricordavo, magari fermandomi all’altro bar, sul capo opposto della strada – l’ultimo cesso pulito della città, lo chiamavo –, prima di finire la serata lì. Ma a quel punto tanto valeva ballare, saltellando tra una pozza di urina e l’altra, cercando di piazzare le mie belle gambe dritte tra le polle e centrare la tazza – ché se sbagliavo poco male, non se ne sarebbe accorto nessuno. Un cartello indicava un laccetto che spuntava dallo scarico: tirare PIANO!!!! Ché, tanto, manco lo tiro: lo devi sistemare dal ’47, e c’è più brodo a terra che nella tazza, ormai…
Quando tornai al banco, Buddy era già attaccato a un’altra vittima. Si sentivano le risate, i «ciao, vecchio» e lo schiocco delle manate sulla schiena. Mi strinsi nelle spalle e ordinai un’altra pinta.
C’era un discreto capannello di scarti umani, segno che la serata si stava animando.
A tratti defluivano – finalmente un po’ di pace – un po’ di scocciatori fuori dal locale. Potevo riprendere il mio posto, sul mio sgabello preferito, e continuare a scolarmi la mia birra, incrociando due sguardi e due parole con Sally, la cameriera. Ché c’era un altro motivo se andavo a bere birra in quell’orinatoio: lei. Potrei stare ore a dirvi dei suoi occhi verdi e di quei riccioli a cascata, di quanto fosse giovane e carina… di quanto fosse spiritosa e ridesse alle mie battute. Poi, però, ve lo direi comunque che c’aveva un davanzale panoramico e che, quando si girava e si chinava – la macchina del ghiaccio stava in basso – c’aveva un mondo tondo e perfetto dentro quei jeans. Un mondo e la luna, come solo dio li aveva visti appena creati, così perfetti.
«Mi dai una bionda?» ordinò una voce gracchiante accanto a me, rivolta a Sally, e io sapevo già a chi apparteneva.
«Come va?» sbuffai in direzione della fonte di quel suono, Vince, a torso nudo sotto delle bretelle, con delle ascelle così pelose che ci potevi studiare la riproduzione degli acari.
«Uno schifo» fu la risposta. Non che da lui avessi mai sentito una risposta diversa a quella domanda.
Attaccò a parlare con altri di cose a caso. Pensò bene di finire con Dostoevskij: «Era un borghesuccio, uno che spegneva i ceri in chiesa con la lingua».
Sapeva che scrivevo e pensò bene di chiedere il mio parere, a sostegno delle sue tesi esposte alle folle. Cambiai argomento e glissai con un’altra domanda brillante: «Tua moglie?».
Non rispose e se ne andò.
«Lo ha lasciato» mi illuminò Sally. Mi fissava, con quel sorriso che ti faceva toccare il paradiso, mentre ti sentivi già così eccitato da salire a razzo verso Andromeda.
Poi spinò una chiara schiumante sul banco e Vince tornò accanto a me, a recuperare la sua bevuta.
«E tua figlia?»
Se ne andò di nuovo, abbattuto come uno di quei cani che non mangiano da una settimana.
Guardai avanti e mi trovai Sally che asciugava un bicchiere con lo straccio. Dentro e fuori… Come avrei dato io un bel colpo di straccio a lei. Continuava a sorridermi, guardandomi di sottecchi. Era un fottuto prato quello in fondo a quegli occhi.
«Che ho detto stavolta?»
«Sua figlia non era davvero sua… Per questo la moglie lo ha lasciato.»
Vabbè, nessuno è perfetto, ma io ci vado vicino.
«Uno scherzo?» chiesi, poco convinto della storia.
«No, no… Davvero.»
Lo scherzo non era nel fatto che la poppante non fosse di Vince… Quanto che ben due uomini, sulla faccia di ’sta terra mignotta, avessero potuto giacere con sua moglie.
Io sono favorevole al sesso. Se non c’hai niente di meglio da fare – e non puoi avere niente di meglio da fare – è la cosa migliore al mondo, senza tanti fronzoli da dandy rammollito. Ma la moglie di Vince… Santo cielo, la moglie di Vince! Non era in bolla. Una sera, trovai una sua amica al banco del bar. Bresca quanto me, che però sono un uomo. Non ricordo nemmeno cosa dissi, so solo che a un tratto ero sugli scalini fuori del locale a baciarla. «No, no, non posso!» Il suo ragazzo la aspettava a casa, stando attento a non staccare la lampada dal soffitto quando passava. Ma io ero «così bello»… E bello non me lo dice mai nessuna. O questa era davvero più sbronza di me o il suo ragazzo, oltre alle corna, doveva avere anche un bel paio di pinne e le squame e la coda… Anzi, la coda no, ché quella a letto ci può stare…
Dopo altri due minuti eravamo nel vicolo accanto al locale. Ché lì non ti vede nessuno se vuoi lasciarti andare, col ragazzo mutante a casa. Pioviccicava pure, ma chi se ne frega, avevamo un terrazzino sopra la testa a farci da tettoia. Via di lingua e poi a toccarci e poi io dentro di lei. Ricordo cosa le dissi. Che mi aveva sganciato un’altra da poco. E lei, a dire: «Ma questa è matta, matta, ma come si fa?».
Si fa che era matta davvero la mia ex, che voleva prendere i voti. Sta di fatto che me le volevo sentir dire quelle cose, in quel momento, e lei non era male, nonostante la ciccia. Con quel bel seno matronale e ’sti riccioli rossi su occhi fin troppo celesti. Qualche chilo in meno e sarebbe stata una gran donna, ma anche così poteva andare. E via, contro il muro, ché tanto il vicolo non se lo pezza nessuno.
Be’, alla fine eravamo tornati nel locale e questa era andata al cesso (che dio l’abbia in gloria!) a vomitare. Aveva bevuto troppo. Ma davvero troppo.
«La accompagna a casa qualcuno di voi?» ebbi la brutta idea di chiedere alla moglie di Vince.
Divenne un disco rotto: «Ché secondo te la lasciamo da sola?».
«No, penso di no, ho solo chiesto conferma…»
«Ché secondo te la lasciamo da sola?»
«Non penso… Ma sta male, volevo esserne sicuro.»
Sono un signore, anche se alle volte sembro più che altro un bastardo.
«Ma secondo te la lasciamo sola?» chiese lei per la terza volta.
In quello sguardo non c’era equilibrio, né buon senso. Non era una domanda, ma l’ossessione di una testa bacata. Non era alcol, ché lei aveva bevuto zero virgola rispetto a noi. Era altro. Lo seppi dopo, quando mi spiegarono che era lei quella caduta dal balcone…
Fatto sta che me ne liberai solo quando recuperarono l’amica vomitina dall’arcipelago del piscio.
Ma ripensare a lei, con quei bei denti gialli e piatti, l’occhio a palla che ripete domande inutili… Due uomini a desiderarla, a contendersela… Avevo bisogno di un altro boccale. Per mandare giù l’idea e brindare al coraggio degli eroi.
Comunque erano bei ricordi, divertenti. Mi ero un po’ estraniato e Sally se n’era accorta.
«Ripensavo alla sera che conobbi la moglie di Vince, qui, con amiche…» spiegai. «Con una uscii, ci fu anche qualche bacio…»
«Sì, ti abbiamo visto tutti» commentò lei, con un sorriso diverso. Quello che chiamiamo gelosia e che, quando compare sulle labbra di una donna, è come un arcobaleno. Ti promette l’oro, laggiù.
Io e Sally continuammo a stuzzicarci, fino alle due, quando lei finì il turno e si spostò dall’altro lato del banco, accanto a me. Una bella boccia davanti, offerta dalla casa. Non che la casa o il capo sapessero della bottiglia, ma Sally lì ci lavorava, e poteva prendersela senza che nessuno facesse troppi problemi. Iniziammo a tracannarcela, passandocela, mentre le nostre labbra erano sempre più vicine.
«Come fai a starci ore, su ’sti sgabelli?» chiese, agitando quel meraviglioso fianco una volta di troppo e con troppo alcol in corpo. Stava cadendo, l’acchiappai al volo. Ed eccoci lì, in un casqué che manco due ballerini di tango, con lei aggrappata al bavero della mia giacca. I suoi occhi mi fissavano, m’incantavano. C’era amore in quegli occhi, verdi come il mare. Una fottuta trasmutazione alchemica. Dovevo berli, quegli occhi.
«Guarda che me ne approfitto» sogghignai, mentre capivo che era consenziente.
La baciai.
«Andiamocene, voglio fare l’amore con te. Ma voglio che mi guardi, perché voglio fare l’amore con questi occhi.»
Ci allontanammo, barcollanti, verso casa mia. La boccia ancora mezza piena in mano.
Incrociammo Vince.
«Buona quella bottiglia! Me ne dai un sorso?»
Ripensai all’inizio della serata e alle sue scemenze. Potevo vendicare uno che sa scrivere meglio di me (cosa che varrebbe anche per l’operaio di una fabbrica di carta igienica).
«Solo se chiedi scusa a Dostoevskij.»
«Scusa, Dostoevskij» gracchiò lui.
Gli sganciai la bottiglia e mi allontanai con Sally: avevo di meglio da fare, avevamo fatto il pieno.
Non avreste fatto altrettanto?